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Quando il male si siede a tavola con noi

Di Gabriele Nissim

Winston Churchill

Winston Churchill

Perché abbiamo scritto la Carta delle responsabilità e invitiamo tutti gli amici a confrontarsi e a darci anche un contributo con allegati e proposte?
Perché auspichiamo che la Carta, con la creazione del Network, possa indicare lo spirito dei Giardini dei Giusti in Italia e nel mondo?
Per due motivi che possono sembrare in contraddizione tra di loro.
Viviamo in tempi molto pericolosi che ci possono gettare in disastrosi conflitti e profonde lacerazioni in Europa, Asia e Medio Oriente.
Ma tutti noi abbiamo la possibilità di invertire questa tendenza, perché niente è scontato e ognuno di noi nel suo ambito di responsabilità può diventare arbitro del suo destino. Come nel film The Sliding Doors di Peter Howitt, che sviluppa un’idea del regista polacco Krzysztof Kieślowski, possiamo salire sul metrò che ci porta nella giusta direzione oppure prendere una via sbagliata. Non è solo il caso che decide. Ci entriamo noi nel metrò.

Sessantamila, come ricorda Francesco Cataluccio sul Post di martedì hanno manifestato a Varsavia contro gli islamici e gli ebrei in un Paese dove gli ebrei sono stati annientati e dove solo pochi migranti musulmani sono stati accolti. Ma quattrocentomila a settembre hanno manifestato per l’Europa e la costituzione democratica. Di questo i media non hanno parlato, perché si raccontano solo le cattive notizie.
Mi viene in mente Shakespeare nell’Amleto quando scriveva: “Il tempo è scardinato. O sorte maledetta, sono nato dunque con l’onere di doverlo rimettere in sesto. Ora venite, andiamocene insieme.”
Penso ad alcuni protagonisti della storia, durante l’avanzata del fascismo e del totalitarismo comunista, che si assunsero il peso di agire controcorrente per rimettere ordine nel tempo scardinato.
Se non ci fosse stato in Europa Winston Churchill, che nel 1940 dichiarò al Parlamento inglese che non avrebbe mai accettato una pace separata con i tedeschi e spronò gli inglesi a resistere ai bombardamenti della Lutwaffe, molto probabilmente la storia drammatica dell’Europa sarebbe andata verso la catastrofe.
Allora nessuna grande potenza fece resistenza quando la Germania annesse l’Austria e tutti collaborarono per la spartizione della Cecoslovacchia. In quel tempo l’Unione Sovietica si alleò con il Führer per spartirsi la Polonia.
Invece Churchill, vincendo con la Royal Air Force la battaglia d’Inghilterra, costrinse Hitler a combattere su due fronti e creò le condizioni per la grande coalizione degli Alleati dalla Russia, agli Stati Uniti, all’Inghilterra.
“Se Churchill, nel 1940, non avesse tenuto la Gran Bretagna in guerra non ci sarebbe stata nessuna guerra da combattere” e ci saremmo trovati con una ben altra storia, osserva acutamente lo storico Timothy Snyder.

Mi viene in mente una donna straordinaria come Milena Jesenska, così bene descritta dalla filosofa Laura Boella, che mise la sua mente, il suo corpo, la sua anima, prima per resistere alla capitolazione degli intellettuali nel suo Paese, poi per aiutare gli ebrei, poi ancora per denunciare i processi staliniani. Nel campo di concentramento di Ravensbrück, come ricorda la sua amica Margarete Neumann, come infermiera salvò decine di prigioniere destinate alla soluzione finale, senza mai cedere ai ricatti delle prigioniere comuniste che volevano isolare la sua amica. Così scriveva a Praga negli anni Trenta e si assumeva la responsabilità del suo tempo di fronte a chi immaginava che la pace sarebbe stata infinita e non vedeva i demoni che avanzavano alle porte.
“In questi giorni mi sono resa conto che la politica nella vita umana è altrettanto importante quanto l’amore… Finché individui completamente apolitici non considereranno “la politica”, ossia ciò che accade, non meno importante per sé stessi delle faccende private, la grande massa si lascerà trascinare indifferente dagli avvenimenti, senza tenere presente che questi avanzeranno nel loro appartamento e prenderanno posto alla stessa tavola davanti alla zuppiera che viene riempita a mezzogiorno.”

Quale era il tempo di ieri? In nome del totalitarismo nazista e comunista si uccidevano milioni di persone come se si trattasse di ripulire un campo dalla presenza delle erbacce. Con questa metafora molto efficace Zygmunt Bauman descriveva il progetto nazista.
Il grande problema di ieri è che tanta gente, cosiddetta “per bene”, aveva davvero creduto che un mondo senza ebrei, senza persone pensanti, privo della molteplicità della pluralità umana potesse diventare più prospero e felice.
Così nacquero i campi di concentramento, perché i nemici - ovvero gli esseri umani - erano dappertutto e aumentavano sempre di più. Ecco perché bisognava eliminarli.

Qual è il tempo di oggi? Improvvisamente di fronte ai problemi complessi della globalizzazione e alle ineguaglianze mai risolte, la gente ha cominciato a pensare che chiudendosi a riccio nel proprio ego, nella propria nazione, e persino nella propria regione - come in Catalogna - si potessero meglio affrontare le sfide dell’oggi. E così, quasi senza che ce ne accorgiamo, è tornata in auge nella politica e nelle relazioni umane la cultura del nemico e la divisione tra noi e loro, tra i buoni e i cattivi.
Cosa significa lo slogan American first di Trump, in realtà ripreso da tanti Paesi - dalla Russia di Putin, dall’Iran di Khamenei, e dall’Arabia Saudita di Re Salman?
Ogni Paese vuole diventare first, persegue i suoi interessi particolari e poi vince chi è in grado di esercitare la maggiore potenza egemonica.

Se questa dinamica non viene bloccata si ritorna alla guerra di tutti contro tutti, perché ogni Paese diventa nemico dell’altro. Prima con la concorrenza economica, poi con quella politica, fino al pericolo di una degenerazione militare.
Ma i nemici non sono solo tra le nazioni, ma anche all’interno delle stesse nazioni.
Oggi i nemici sono diventati i migranti e tutti coloro che vogliono una società aperta. I migranti alla ricerca di una vita migliore, che si muovono soltanto perché spinti dalle necessità, diventano il capro espiatorio della nostra insicurezza. Spesso sentiamo dire “portano la malaria e le malattie, ci tolgono il lavoro, si impossessano delle nostre case, sono stupratori o spacciatori, sono amici dei terroristi, rappresentano il virus che contamina la vita democratica e la cultura europea”.
La cosiddetta lotta all’immigrazione, invece di affrontare le cause della povertà e dei cambiamenti climatici nei Paesi africani e mediorientali, ha come effetto la chiusura nazionalista degli Stati europei e la messa sotto accusa delle persone che si battono per l’accoglienza e perseguono gli ideali dell’integrazione e del cosmopolitismo.
Non dimentichiamoci che Hitler nel Mein Kampf accusava gli ebrei di inquinare la Germania, perché portatori di una cultura sovranazionale. I brutti segnali che ci vengono dalla Polonia e dall’Ungheria ci ricordano il passato.

Ma questa degenerazione culturale che porta alla ricerca del nemico è entrata di colpo nella nostra vita quotidiana, dove i social network sono il termometro del nostro malessere.
Uno strumento formidabile di dialogo e di condivisione si è trasformato in un luogo in cui le persone sono alla ricerca della propria autoaffermazione, si dimostrano impermeabili alle idee degli altri e cercano di volta in volta il nemico da odiare e demonizzare. Basti pensare all’uso di Twitter che fa il presidente americano. Con soli centoquaranta caratteri si può accusare e distruggere una persona.
Il giornalista Simone Zoppellaro, in un libro importante appena pubblicato, ci spiega come addirittura dai social possa nascere la propaganda che porta a un genocidio. Infatti un abominevole delitto d’onore che aveva portato alla lapidazione di una donna yazida che aveva una relazione con un musulmano sunnita fu utilizzato sui social per istigare all’odio e al massacro dei yazidi. Il 22 aprile del 2007 un pullman in viaggio da Mosul a Bashiqa fu bloccato dai militanti dell’Isis, e dopo una selezione 23 yazidi furono assassinati. Fu il primo episodio del genocidio di questo popolo.

Come possiamo allora invertire questa tendenza che genera la politica del disprezzo? Vigilando prima di tutto sulle notizie false che circolano e prendendo le distanze dalle inventive, affermando invece il gusto del dialogo e della ragione.
Bisogna riportare sui social contenuti alti, poiché chi scrive su questi strumenti di comunicazione, anche se non se ne rende conto, come mi suggerisce spesso il mio amico Antonio Ferrari, può avere la stessa forza di persuasione di un editorialista del Corriere della Sera e del New York Times.
Una frase sbagliata, una falsità, può essere cliccata da migliaia di persone e diventare una pietra pesante che crea danni irreparabili.
Ecco perché bisogna vigilare su Facebook e, come suggeriva Hannah Arendt, trasmettere una informazione basata sull’approfondimento e sulla verità dei fatti.

Ma c’è anche un’altra strada da percorrere. Bisogna abituarsi a dialogare con dolcezza e delicatezza, anche con chi prende delle cattive strade ed esprime opinioni discutibili. È questo il modo migliore per rompere il circolo vizioso della cultura del nemico ed educare le persone a ricercare il dialogo e non l’invettiva personale.
Se voglio convincere l’altro a cambiare, spiega lo stoico Marco Aurelio nei Ricordi, devo rivolgermi a lui “senza rimproverarlo, senza fargli sentire che lo sopporto, ma con franchezza e bontà, senza riprovazione, senza rancore nell’animo.”

Questo concetto ci riporta al discorso sull’anticipazione del Bene, che è il punto fondamentale della Carta delle responsabilità.
Ai violenti bisogna rispondere con la non violenza. Agli xenofobi si risponde con l’accoglienza. A chi fomenta l’odio e il disprezzo si risponde con l’amicizia. A chi vuole i muri si risponde costruendo i ponti.

Perché è così tanto attuale un discorso sul bene oggi? Non perché siamo votati al sacrificio e alla rinuncia. Non perché proponiamo a tutti di diventare dei santi. Ma perché, come ha insegnato Baruch Spinoza, l’uomo può sviluppare la sua potenza e superare la sua fragilità soltanto quando costruisce il suo destino insieme agli altri uomini. Il più grande interesse del singolo, anche della persona più egoista, è quello di lavorare per il bene comune.
Parlare di Bene, di ragione, di idee adeguate, come spiegava il filosofo ebreo olandese, significa affermare che i grandi problemi del pianeta - dai cambiamenti climatici, alle povertà, all’immigrazione, al terrorismo - non si risolvono chiudendosi nel proprio ghetto ma costruendo grandi sinergie e trovando il gusto di operare gli uni assieme agli altri. Ecco perché è ridicolo che anche nel nostro Paese la politica si stia trasformando in un’arena rissosa, dove si invitano le persone a diventare nemici gli uni degli altri. Si presentano così le prossime elezioni non come una grande occasione di dibattito sulle idee, ma come la resa dei conti finale.

Per questo motivo ci siamo rifatti all’esperienza di Charta ‘77 nella Praga sovietica, dove due grandi uomini, come il commediografo Václav Havel e il filosofo Jan Patočka, invitarono gente di diverso orientamento - comunisti, liberali, cattolici, ebrei, verdi - ad operare assieme, perché nessuno era depositario di una verità assoluta e tutti dovevano affrontare la sfida del totalitarismo, perché questo sistema poteva venire sconfitto solo con il superamento dell’idea del nemico. È una sfida che nei tempi difficili che viviamo in Europa è quanto mai attuale, e che nonostante la Rivoluzione di velluto e la fine del comunismo non ha ancora trovato soluzione, perché ancora oggi l’idea del nemico è fin troppo radicata. 

Charta ‘77 invitava i cittadini praghesi a scrivere il proprio nome su quel documento perché ogni firmatario che si aggiungeva compiva un atto pubblico di responsabilità. Anche noi oggi vogliamo dare un nome a quelli che possiamo definire come i Giusti del nostro tempo e che si battono con azioni esemplari contro il terrorismo, l’antisemitismo, il fondamentalismo, per il dialogo, l’accoglienza e la libertà nei regimi dittatoriali.
Noi tutti siamo chiamati a sostenerli perché vogliamo creare un grande movimento di emulazione. Anche queste persone rischiano come i Giusti di ieri e siamo chiamati a sostenerli.
Tutti siamo buoni quando ci collochiamo nel passato, molto più difficile è scegliere di esserlo oggi.

Cosa vuole essere il Network di Gariwo? Noi non siamo una forza politica, ma vogliamo creare sinergie per risvegliare le coscienze di fronte ai problemi del nostro tempo, per dare forza e visibilità a tutte le esperienze plurali che vanno in questa direzione.
La rete dei Giardini dei Giusti in Italia, in Europa, nel mondo può oggi svolgere un grande ruolo di educazione.
Mi piace immaginare che con il tempo questi Giardini si trasformino in pubbliche agorà dove la gente impari a pensare con la propria testa e a mettersi nei panni degli altri. Noi abbiamo in mano uno straordinario strumento per risvegliare le coscienze. Mostrare ai giovani e alle città di tutta Europa le storie di quanti salvarono gli ebrei, gli armeni, i ruandesi, i cambogiani durante le persecuzioni e furono capaci di andare controcorrente contro delle leggi ingiuste.
I Giusti di ieri e di oggi possono svolgere quella funzione che Socrate aveva intuito per primo nell’antica Grecia con l’esercizio della maieutica.
Per scuotere le persone dai loro vizi e dal loro torpore ci vogliono due cose: mostrare degli esempi positivi di comportamento e porre delle domande alla gente per chiedere loro di farsi un esame di coscienza.

Tutti i Giusti hanno questa forza.
Ecco perché noi di Gariwo non inseguiamo la fama, il potere, la visibilità, ma ci battiamo per lasciare delle tracce di umanità con i nostri Giardini.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

16 novembre 2017

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