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Quando il sacrificio di sé porta al male

Gabriele Nissim, presidente di Gariwo

Il sacrificio di sé porta necessariamente al bene? E’ questa la domanda fondamentale che lo stimolante libro del filosofo israeliano Moshe Halbertal, Sul sacrificio, pubblicato recentemente dalla Giuntina, suscita su questo tema. 
Abituati ad una certa morale cattolica sembra proprio di sì.

Chi rinuncia a se stesso in nome di un bene superiore, che sia una causa, come quella della rivoluzione, che sia il proprio sacrificio durante una guerra, o chi sente il dovere di mettere da parte le proprie inclinazioni per soddisfare i sogni dei propri genitori dovrebbe comunque meritare il nostro apprezzamento. 
Non è proprio così semplice. 
Partiamo allora, come suggerisce Halbertal, dai sacrifici a Dio che sono descritti nella Bibbia.

Chi porta dei doni al tempio si aspetta di venire riconosciuto. Se non lo è, si sente umiliato, come è capitato a Caino. Nella Genesi si racconta che Dio apprezzò l’offerta di suo fratello Abele che sacrificò “i primogeniti del suo gregge e le loro parti più grasse”, mentre fu indifferente “ai frutti della terra” che Caino gli aveva portato. 
Da quel momento iniziò l’ira di Caino che lo portò all’assassinio di suo fratello.

È una situazione simile a quella che molti vivono quando fanno dei regali agli altri e non si sentono apprezzati. Non è il dono in sé che li rende soddisfatti, ma la ricerca di un riconoscimento. 
Così quando non ottengono nulla in cambio si sentono offesi. Ecco allora perché donare è una vera e propria arte. Bisogna fare in modo che l’amico non si senta per nulla obbligato a ricambiare il dono e sentirsi contenti soltanto per la propria azione.

E che dire del comportamento di Abramo, che era disposto a sacrificare il suo obbligo morale di padre per seguire la volontà di Dio? 
In nome della fede avrebbe dovuto rinunciare alla sua coscienza. Quello che però spesso non si racconta è che la vera vittima della storia non era Abramo, ma Isacco che doveva venire ucciso in nome di un ideale più alto. In alcune tradizioni religiose, spiega molto bene il filosofo israeliano, il sacrificio purifica un crimine con l’illusione che il criminale sia la vittima, dal momento che ha sacrificato la sua coscienza.

Questo ribaltamento dei ruoli tra vittima e carnefice è stato portato alle estreme conseguenze dal nazismo e dal comunismo.

Himmler quando spiegò ai suoi ufficiali la soluzione finale, li invitò a sacrificare i loro sentimenti umani in nome del grande destino che attendava la Germania: “Noi ci rendiamo conto che ciò che attendiamo da voi è sovraumano, di essere sovrumanamente disumani.” 
Le loro vittime avrebbero perso le loro vite, ma gli ufficiali delle SS avrebbero pagato il prezzo più alto nel sacrificare la loro coscienza per un ideale più grande: il superamento della loro umanità.

Di solito il senso di colpa è un sentimento che frena l’uomo dal compiere le cose peggiori, invece per Himmler chi era in grado di metterlo a tacere avrebbe probabilmente avvertito una grande sofferenza interiore, ma in questo modo si sarebbe trasformato in un eroe.

Così, spiega acutamente Halbertal, il carnefice, crogiolandosi nel suo senso di colpa, si vede come colui che soffre a causa di un danno ben più grande di quello inflitto dai suoi stessi colpi. Egli identifica coloro a cui ha fatto del male come i responsabili di questo dolore. Per questo motivo prova astio per coloro a cui ha fatto del male. Li vede come i suoi torturatori e pensa così di essere la loro vittima. È lui che si sta sacrificando.

Attorno a questo tema ha anche ragionato lo scrittore Vassilij Grossman, che descrivendo nel libro Vita e destino l’attività del segretario del Partito dell’Ucraina che era chiamato a controllare e a punire i cosiddetti nemici del popolo, osservava come il suo compito più gravoso fosse quello di mettere a tacere la sua coscienza in nome della missione del partito. E se poi per caso, dopo tanti anni, un delatore si trovava di fronte una vittima sopravvissuta all’esperienza dei gulag, odiava ancora di più colui che aveva perseguitato, perché gli procurava un terribile fastidio, come Grossman osserva in Tutto scorre. Era la vittima che lo perseguitava con la sua presenza.

Se guardiamo poi a terroristi fondamentalisti dell’Isis e di Al Qaida possiamo osservare due percorsi diversi, ma con caratteristiche simili. 
Chi sgozza le vittime davanti a una telecamera del cellulare e poi fa circolare con orgoglio le immagini nel web, non vuole solo terrorizzare l’opinione pubblica, ma ama mostrarsi di fronte ai propri adepti come un vero e proprio eroe, perché è capace in nome della sua missione di sacrificare i più normali istinti della pietas umana.

Chi invece è disponibile al suicidio in un’azione terroristica, il cui scopo è l’assassinio di una moltitudine di persone, non solo porta alle estreme conseguenze il sacrificio di sé, ma nobilita con la sua morte il valore del più terribile gesto criminale. Non è infatti un caso che i terroristi suicidi in Palestina siano venerati da Hamas, perché in questo modo diventa legittimo compiere contro il nemico anche la più barbara e ripugnante delle azioni.

Il sacrificio di sé rende possibile così qualsiasi tipo di violenza, perché permette un ribaltamento dei ruoli tra l’aggressore e la vittima. Il terrorista fa di se stesso la vittima della violenza che sta commettendo.

Ivan Kalialev, l’eroe del dramma di Albert Camus, I giusti, rifiuta di accettare la grazia, dopo avere assassinato il gran duca Sergej, zio dello zar russo. All’offerta di perdono propostogli dalla gran duchessa in prigione risponde: “Se non morissi allora sì che sarei un assassino… sia la morte a coronare la mia opera con la purezza dell’idea.” 
Egli vuole morire perché è convinto che la sua morte redimerà l’azione dall’accusa di egoismo: la purificherebbe e renderebbe lui immune da ogni biasimo.

È forse stato questo il pensiero nascosto di Mohammed Atta, uno dei dirottatori dell’11 settembre. Ha potuto lanciare l’aereo senza remore morali contro le Torri Gemelle di New York, perché decidendo di morire si sentiva a posto con la sua coscienza. 
Si sentiva un uomo puro perché anche lui andava al martirio.

Meccanismi di questo tipo si ritrovano in tutte le guerre. Molto spesso i soldati non si pongono degli interrogativi e si sentono a posto con la coscienza quando uccidono altri uomini, perché sono disponibili a rischiare la propria vita. 
“Poiché io sono pronto a morire, sono dunque su un piano di parità con i nemici che sono costretto ad eliminare.”

A questo sentimento se ne aggiunge poi un altro: “Poiché altri miei compagni sono morti per me, io ho il dovere di continuare la guerra in loro nome.” Un sacrificio di sé richiama un altro sacrificio, in una spirale senza fine.

L’unico antidoto a questa deriva perversa è forse soltanto, come suggerisce Hannah Arendt, la capacità di pensare e di giudicare da diversi punti di vista. Non è detto che chi è disponibile al sacrificio sia un uomo giusto. 

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

25 maggio 2015

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