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Ragionando su Auschwitz

di Andrea Barzini

Andrea Barzini, autore de "Il fratello minore" (Solferino Libri) in cui racconta la storia di Ettore Barzini (antifascista che aiutò famiglie ebree e ricercati politici a passare il confine), recensisce il nuovo libro del presidente di Gariwo Gabriele Nissim "Auschwitz non finisce mai" edito da Rizzoli nel 2022. 

Il libro di Gabriele Nissim, che definirei non solo scrittore, ma anche pensatore, e pensatore articolato, documentato, nutrito di pensiero filosofico, esce al momento giusto, purtroppo. L’aggressione russa all’Ucraina ci rimette, seppur parzialmente, di fronte a temi che l’Occidente da tempo ha cercato di mettere da parte. Il diritto internazionale è stato violato. Un paese sovrano è stato messo sotto attacco.
Le ragioni di Putin, espresse con un furore che ricorda discorsi di un secolo prima, non hanno fondamento. L’Ucraina non è una mera invenzione geografica, il suo popolo, con fiera resistenza, ha dimostrato di amare la propria patria e di essere pronto a morire per la propria indipendenza. Si torna a parlare di crimini di guerra, eccidi di popolazioni inermi, torture. L’ aggressione, arbitraria, nutrita dall’odio, motivata dal rancore, indifferente alle vite umane, ci riporta a un luogo che Nissim, con la sua opera tenace, non ha mai smesso di frequentare.
Affacciarsi sull’orrore di Auschwitz, ci dice lo scrittore, è cosa che rimane necessaria
per prevenire il possibile ripetersi di azioni analoghe. Ma quanto è avvenuto è così folle, estremo, mostruoso, che per molti versi risulta inspiegabile. Forse per questo esitiamo a tornarci. Si potrebbe dire che il male puro, il nero assoluto, in altre epoche lo si sarebbe chiamato diavolo, si sia impossessato della storia, abbia trovato degli interpreti i quali a loro volta hanno organizzato il consenso, contagiato una vasta zona grigia di esecutori e indifferenti, e abbia agito. Ma, dal momento che siamo abituati a fare ipotesi razionali, questo non spiega quasi nulla. La cancellazione degli ebrei dalla faccia della terra non ha ragioni razionali o economiche, come sarebbe piaciuto a Marx. Certo, poi c’è chi se ne è approfittato, potremmo chiamarli danni collaterali, ma il principio hitleriano, come espresso nel suo Mein Kampf, è un altro: gli ebrei sono il male e un ostacolo insormontabile allo sviluppo della civiltà ariana tedesca. Dunque, insieme a zingari, malati di mente, omosessuali, vanno eliminati. L’opera è così necessaria e santa che i nazisti la portano avanti anche quando la guerra è persa, non smettono fino all’ultimo minuto questa gloriosa opera di sanificazione. Che un tema così demenziale, risibile, abbia trovato il consenso di milioni di persone, resta misterioso. Altrettanto misterioso resta il comportamento dell’uomo medio che ha contribuito allo sterminio.
Nissim evoca una scena avvenuta a Auschwitz che toglie il respiro, l’impiccagione di un bambino davanti all’intera popolazione del campo. Per la follia nazista, i bambini, che, come i cuccioli, la natura ha fatto teneri, innocenti, per evitare che possano essere aggrediti, sono i primi nemici. Si fa fatica a immaginare la sospensione della compassione, la cancellazione di ogni umano istinto di pietà, l’intera popolazione di guardiani trasformata in un esercito di sadici assetati non solo di morte, ma di sofferenza, umiliazione, torture, scherno. Si fa fatica perché, per inerzia, tentiamo di immaginare l’uomo, pur nelle sue contraddizioni, come tendenzialmente pacifico e amorevole. Auschwitz racconta un’altra storia, ma anche questa storia non è univoca: i capi nazisti a Norimberga si sono gloriati delle loro scelte, al contrario Eichmann, e moltissimi altri, si ritraggono come semplici esecutori di un disegno che non avrebbero potuto discutere, persone insomma dove il pensiero è assente. Come ha teorizzato la Arendt, il male non sarebbe diabolico, bensì banale. Una tesi che ha una replica immediata: ripercorrendo le dichiarazioni e i comportamenti dei dirigenti nazisti di Norimberga si ritrova, tale e quale, il progetto originario di Hitler, nutrito nei suoi seguaci da convinzioni profonde. Altro che banali e non pensanti: hanno agito sapendo perfettamente cosa facevano.

Il tema è aggrovigliato anche dalla parte delle vittime. Molti Ebrei credenti non sono scappati convinti che Dio li avrebbe protetti. La mancata protezione apre una voragine teologica: dov’era Dio? Perché non è intervenuto? Forse Dio, sempre creduto onnipotente, di fronte al male non lo è. Se così fosse, tremano le basi della costruzione ebraica (e cristiana) del Padre. C’è chi trova una spiegazione nel fatto che Dio abbia voluto farci liberi anche di peccare, solo così il nostro avvicinamento a lui avrebbe valore. Già, questo potrebbe riguardare gli aguzzini, ma non le vittime la cui libertà non ci fu. Qualcuno fra gli Ebrei, continua a raccontarci Nissim, ipotizza che lo sterminio sia stato voluto da Dio per far rinascere Israele. I più forti, i più accorti, si sarebbero spostati in tempo. Anche questo teorema si porta dietro delle complicazioni e delle conseguenze difficili da ammettere: in Israele ricordare chi è caduto è per molti operazione difficile e ricordare Auschwitz problematico. A costoro qualcuno ha obbiettato che i conti invece andrebbero fatti fino in fondo per vincere Hitler una volta per tutte. Dialogo in corso.

Ma passiamo alla tesi di Nissim, che rende il libro vitale. Dopo la guerra si sviluppa il concetto di Shoah. Essenzialmente fa riferimento alla tragedia di un solo popolo, quello ebreo. Non solo per il numero delle vittime, che è, come sappiamo una maggioranza assoluta, ma perché è esperienza diversa da ogni altro sterminio, (ancora non voglio usare la parola genocidio, che Nissim articola e distende nell’ultima parte del libro), e non può essere assimilata a nulla. I giusti, coloro che hanno aiutato gli ebrei, o i perseguitati politici, che sono morti per scelta, non entrano nella Shoah. Qui Nissim, richiamandosi al pensatore ebreo polacco a cui si deve la parola “genocidio”, Raphael Lemkin, di cui ricostruisce la parabola tenace e eroica, fa scattare la molla del suo pensiero come si sta articolando da decenni. Ragionare di genocidio, e dichiarare che quello degli Ebrei, seppur il più atroce, non sia stato l’unico, apre la strada verso il futuro, ci mette in mano insomma gli strumenti per prevenirne altri. Ritroviamo dei punti in comune nei vari, terribili episodi del Novecento, gli Armeni, i Cambogiani, i Ruandesi. In ognuno di questi genocidi Nissim scopre similitudini: la preparazione del piano, che non è solo ideologica, ma anche militare, e la sua applicazione passante per il consenso di una parte della popolazione che viene attivata contro l’altro, il nemico, a suon di slogan. La leva è la frustrazione e la voglia di riscatto. Simili i meccanismi che spingono a obbedire: la richiesta della sospensione del proprio giudizio morale in nome di un bene superiore, la cancellazione della razionalità che ci fa sentire simili agli altri uomini, e, non ultima, l’indifferenza intimidita di molti, che pur non aderendo, non si oppongono per non passare guai. I genocidi nascono in questo terreno. Chi li progetta utilizza sempre gli stessi strumenti.
Necessario, prezioso, dunque, questo messaggio di Nissim. Va a ispezionare il male incarnato da un potere dalle ambizioni assolute, le sue bugie, la manipolazione che sa mettere in piedi, la propaganda che maneggia, la razionalità che sospende, le leve che muove. Siamo davanti a un eterno della storia umana. E qui l’ispezione dello scrittore butta luce. Perché certo, è delirio, ma con alcune costanti. L’odio è sempre nutrito facendo appello al rancore, ma non solo, c’è bisogno di agitare in aria un sogno che le persone vogliano seguire. Nel caso di Hitler, gli ebrei venivano visti come infiltrati di chi aveva umiliato la Germania, l’aveva messa in ginocchio e aveva goduto del caos che aveva seguito la guerra, gli inglesi, gli americani, i francesi, con una potenza militare e finanziaria alla quale i tedeschi avevano dovuto piegarsi. Come Putin oggi, il dittatore, oltre a fare appello all’ingiustizia subita, alzò in aria l’ideale della grande Germania. Un sogno, un futuro radioso, un’armonia da ritrovare. A questo ideale, osteggiato dal nemico, bisognava guardare. Il delirio dunque è costruito a tavolino, la sua spinta ha radici che sprofondano in una mancanza che il popolo sente. Nissim ci dice che la storia si ripete, insiste appassionatamente su questo punto, e la cronaca recente, il consenso a Putin dei russi, gli dà ragione. Dunque va smascherato, va capito, va raccontato e prevenuto. Non riguarda un solo capitolo, seppure il più agghiacciante, bensì una regione universale della coscienza umana, o meglio della non-coscienza, che è sempre lì, in agguato. Viene da evocare il buio dove si muovono i mostri e la luce non arriva. Sono nutriti di odio, non ammettono contraddittorio, si sentono vittime della luce, e dunque autorizzati a combatterla per annientarla.

Gabriele Nissim è ebreo, con gran parte della famiglia (originaria di Salonicco) sterminata alle spalle, dunque il fatto che stia cercando di allargare i confini dell’esperienza ebraica, è doppiamente interessante. La sua è una confessione indiretta, la testimonianza di chi vuole travalicare la propria origine, non negarla, anzi, usarla per raggiungere un universale utile all’umanità intera. Nel cammino si farà molti nemici, da ogni parte e ovunque si annidi la faziosità e il “particulare”. La direzione che propone, da laico, appartiene al bagaglio dell’Occidente: contrapporre alle tenebre la luce della ragione, quella dei grandi filosofi, Socrate, Platone, Spinoza. Tenendoli a mente e usando la loro intelligenza si può prevenire la follia. Bellissimo messaggio, prezioso in giorni come questi dove di nuovo nuvole plumbee offuscano il mondo.

Andrea Barzini

Analisi di Andrea Barzini, regista

5 aprile 2022

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