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Riscoprire un maestro: Aldo Capitini

di Amedeo Vigorelli

In questo tempo di silenzio vorrei suggerire una rilettura un po’ insolita: quella dell’opera più importante dedicata da Aldo Capitini al problema religioso, che ancora figura nel catalogo Laterza: Religione aperta (2011). Aldo Capitini (1899-1968) è stata una delle figure intellettuali più singolari del Novecento: difficilmente collocabili e per questo trascurate o fraintese, generalmente dimenticate. Ha scritto di lui Goffredo Fofi, nella Prefazione al volume, curato da Mario Martini, che dirige la “Fondazione Centro Studi Aldo Capitini” di Perugia:

Se Capitini è stato osteggiato dalle destre, dalla DC e dalla Chiesa cattolica o considerato con ironia ora affettuosa ora sarcastica dai comunisti, che in più momenti hanno pensato di potersene servire e sono riusciti a farlo soprattutto dopo la sua morte, non si può dire che i cosiddetti laici lo abbiano considerato di più, nonostante l’attenzione fraterna di grandi personaggi come Guido Calogero o Norberto Bobbio (che si definiva un “perplesso” di fronte al “persuaso” Capitini).

Capitini non fu affatto un isolato, nel tempo in cui visse ed operò. Negli anni giovanili affrontò da autodidatta gli studi classici (dopo una prima formazione tecnica, cui fu costretto dalle umili condizioni economiche della famiglia), e, vincitore di una borsa di studio, fu assunto alla Scuola Normale superiore di studi di Pisa, in qualità di Segretario, grazie all’interessamento di Arnaldo Momigliano e di Giovanni Gentile. Strinse intensi legami di comunanza intellettuale con filosofi del calibro di Umberto Segre e Vittorio Enzo Alfieri e storici di grande spessore come Delio Cantimori. Qui maturò, insieme con Claudio Baglietto, la scelta etica del vegetarianesimo e dell’obiezione di coscienza contro il servizio militare. Quando nel 1932 Baglietto chiese di potersi recare all’estero, all’università di Friburgo, per perfezionare i suoi studi con Martin Heidegger e comunicò al suo professore, Armando Carlini, di non volere più tornare in Italia, per non sottostare alla leva militare e per una maturata scelta di antifascismo, Capitini – considerato l’ispiratore di questa decisione – fu messo alle strette dall’autorità accademica, che gli impose l’iscrizione al PNF. Capitini rifiutò, preferendo tornare a Perugia, dove visse in condizioni di grande povertà. Negli anni Trenta si dedicò (nelle orme di quello che potrebbe definirsi un laico francescanesimo) a peregrinazioni in molte parti d’Italia, per stringere la trama di una cospirazione antifascista nonviolenta, che lo portò a contatto con figure intellettuali assai diverse tra loro, da Benedetto Croce a Piero Martinetti, da Walter Binni a Guido Calogero e infiniti altri (ne darà tardiva testimonianza nel volume autobiografico Antifascismo tra i giovani, 1966). Il libro, che gli diede fama di pensatore “religioso” (Elementi di un’esperienza religiosa) fu pubblicato, per interessamento di Croce, da Laterza nel 1937. In quello stesso anno aderì al Movimento liberalsocialista, sorto per iniziativa di Ugo La Malfa, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao, Norberto Bobbio come risposta all’assassinio, avvenuto in Francia, dei fratelli Rosselli. Subì diverse carcerazioni per questa sua attività clandestina, tra il 1942 e il 1943. Durante la Resistenza aderì – ma in una posizione critica e appartata – al Partito d’Azione, restando poi escluso dal CLN e dalla Costituente, a Liberazione avvenuta.

Nel dopoguerra entrò in polemica con il Partito Comunista e con la Chiesa cattolica, e fu considerato da entrambe le due culture politiche egemoni nell’Italia degli anni Quaranta-Cinquanta un “eretico” e un guastafeste. Promosse, fin dal 1944, esperienze di democrazia diretta (con la creazione dei COS o Centri di Orientamento Sociale) rivolti alla classe operaia, scontrandosi dialetticamente con le organizzazioni sindacali e politiche della sinistra. Venne nominato Rettore dell’Università per stranieri di Perugia, ma ne fu ben presto allontanato, per la decisa ostilità della Chiesa cattolica. Ottenne un semplice incarico per l’insegnamento di Filosofia morale all’Università di Pisa, ma preferì dedicarsi ad un’opera pedagogica di formazione religiosa, in collaborazione con un sacerdote scomunicato, Ferdinando Tartaglia, che organizzerà con lui a Roma diversi congressi sul tema della riforma religiosa, tra il 1946 e il 1948. Fu parte attiva nel processo contro il primo obiettore di coscienza italiano, Pietro Pinna, condannato a Torino nel 1949 dal tribunale militare, che non tenne in alcun conto la appassionata testimonianza a sua difesa di Capitini. Negli anni Cinquanta – con la fondazione del COR (Centro di orientamento religioso) – si adoperò attivamente per la diffusione in Italia della pratiche gandhiane di non violenza e non collaborazione, e si batté per il riconoscimento legale della obiezione di coscienza. Strinse amicizia, tra i cattolici, con Don Mazzolari e Don Milani, ma si tenne sempre distante dal Magistero cattolico, conservando un atteggiamento critico e di riserva, persino nei confronti del Concilio Ecumenico Vaticano II. Nonostante la intensa produzione libraria degli anni Sessanta, nel mutato clima politico-culturale che preludeva al 1968, rimase un solitario e un contemplativo, e si spense nella sua Perugia, sostanzialmente dimenticato, proprio in quell’anno fatidico.

La singolarità di Capitini emerge – sin da una prima lettura – dalla novità del suo linguaggio, sempre colto e ricercato, ma al tempo stesso semplice e colloquiale, mai professorale o elitario. Verrebbe da definirlo filosofo popolare, se ciò non suonasse come una diminutio o una semplificazione banalizzante. Cerchiamo di entrare dunque nel suo vocabolario. Anzitutto il termine persuasione, che prende in lui il posto di quello più comune di fede. Lo si incontra in un famoso scritto di Carlo Michelstaedter, il celebre scrittore goriziano, morto suicida nel 1907, dove è contrapposto alla retorica. Per Michelstaedter la filosofia occidentale, a partire da Platone, non ha saputo distaccarsi dall’ambito sofistico, in cui l’aveva collocata Socrate, se non per ricadere in una metafisica del conoscere, che culmina nel sapere assoluto del moderno idealismo: in una convinzione scientifica lontana dalla vita e dal dramma dell’esistenza. A questa pratica professionale egli contrappone la verità dell’arte (Beethoven), della poesia (Leopardi) e della religione (Cristo), le uniche a realizzare quel possesso intimo di una verità che trascende l’umano, che chiama appunto persuasione. Capitini dedica il primo capitolo di Religione aperta (la cui prima edizione è del 1955) alla enunciazione del suo credo filosofico, definito appunto la mia persuasione religiosa. Egli fornisce una motivazione storica e biografica alla sua conversione filosofica, che non va sottaciuta:

il periodo che seguì, quello che nella società nazionale fu del fascismo, mi portò ad usare il termine di “religione” con una precisa intenzione e per concrete ragioni. Davanti al potere della violenza e davanti a quel falso classicismo, che era invece accademia e autoritarismo esteriore; e davanti al fatto che l’istituzione religiosa tradizionale nessun aiuto dava a contrastare ad un regime che era sbagliato dai punti di vista della libertà, della socialità, dell’educazione, mi trovai costretto a risalire direttamente ai maestri di vita religiosa, a contatto prossimo con quello spirito e quel metodo: Gesù Cristo, Buddha, Francesco, Mazzini, Gandhi. Non dubitai di poter usare la parola di “religiosa” per la posizione che concretai: di fede in Dio, nella nonviolenza, nella nonmenzogna, nella noncollaborazione con ciò che crediamo un male e rivalutazione affettuosa per i sofferenti, i minimi, gli ultimi.

Mentre i singoli credo religiosi, oggetto delle fedi tradizionali e dati in custodia alle singole istituzioni, sono per loro natura divisivi, e determinano una chiusura (culturale, ideologica, razziale, etnica) la persuasione religiosa a cui aspira Capitini è caratterizzata come radicale apertura:

quando incontro una persona, e anche un semplice animale, non posso ammettere che poi quell’essere vivente se ne vada nel nulla, muoia e si spenga, prima o poi, come una fiamma. Mi vengono a dire che la realtà è fatta così, ma io non accetto. E se guardo meglio, trovo anche altre ragioni per non accettare la realtà così com’è ora, perché non posso approvare che la bestia più grande divori la bestia più piccola, che dappertutto la forza, la potenza, la prepotenza prevalgano. Una realtà fatta così non merita di durare. È una realtà provvisoria, insufficiente, ed io mi apro ad una sua trasformazione profonda, ad una sua liberazione dal male nelle forme del peccato, del dolore, della morte.

Arriviamo qui a definire il secondo termine, quello di apertura. Se persuasione ci dava la forma del credo personale capitiniano, apertura ce ne dà il contenuto, che abbiamo visto articolarsi in tre direzioni: nonviolenza (morale individuale), nonmenzogna (morale intersoggettiva), noncollaborazione (etica sociale e politica). Le tre parole non vanno scritte separatamente (o col trattino), ma come espressione unica e sostantiva, per sottolinearne la dimensione non astratta e teorica, ma concreta e attiva di prassi. Non si tratta di proporre all’umanità nuovi contenuti etici o teologali, ma di cercare di renderli praticabili nell’oggi e in un futuro, che non deve essere impedito per principio dalla realtà dei fatti e dei comportamenti, ma reso possibile e oggetto di una concreta speranza. La religione – scrive Capitini è:

apertura appassionata ad una realtà liberata; è riconoscimento del primato che spetta all’unità amore con tutti; è fondazione di una prospettiva superiore a quella che si osserva nel mondo e che è secondo potenza; è risoluta non accettazione della realtà come ci si presenta, accettazione che facciamo, ora per inerzia e viltà, non osando di avere “speranza”, di protestare, di vegliare per l’insonnia del rifiutare il mondo; ed ora per una male spesa sobrietà, che non vuole illudere o illudersi. Ma la religione è servizio dell’impossibile, rifiuto di accettare i modi attuali di realizzarsi della vita e del mondo, come se fossero assoluti e gli unici possibili: e chi l’ha detto? chi ha detto che ci debba essere sempre il peccato, il dolore, la morte? la prostituzione, il furto, l’odio? la vittoria della potenza, lo sfruttamento sociale, l’inaccettabile decoratività dei poteri assoluti? Non è chiusura accettare che la realtà, la società, l’umanità, continui e ripeta sempre se stessa nei suoi modi fisici, politici, sociali, biologici?

Del cristianesimo originario, Capitini accoglie proprio questa idea di apertura: «Gesù è stato l’alto maestro del fare aperto spinto fino all’estremo». Egli, come Buddha, non è caduto nell’errore escatologico di tutte le religioni, quello di pretendere di «dare una descrizione particolareggiata di tale realtà liberata». Ciò che è tipico di questi grandi geni religiosi è «la sobrietà di non descrivere la realtà liberata», ma di indicarne piuttosto «la via, il metodo, la preparazione», la sapienza di «curare la prassi e non di soddisfare l’immaginazione». Come nel credo minimo esposto nel Trattato teologico-politico di Spinoza, il fine religioso consiste nella «educazione e promovimento dell’apertura di unità amore», così come è, d’altro lato, «educazione e promovimento di apertura alla realtà liberata». Rifacendosi all’esempio di Zeno Saltini, fondatore di Nomadelfia, Capitini sottolinea che non solo «bisogna trasformare concretamente la società», ma soprattutto «aprirci ad una trasformazione della realtà stessa».

E qui giungiamo al termine più sentitamente capitiniano: quello di compresenza. Esso si indirizza alla relazionalità intersoggettiva del tu come piano di fondazione concreta dei valori:

nel fatto io non potrò dire un tu di amore a tutti, perché non incontro che singoli esseri, ed è impossibile purtroppo, nella realtà così com’è finora, che io dica un tu di amore a tutti gl’innumerevoli esseri, uno per volta, concretamente. Però la disposizione può esserci, anche dicendo il tu di unità amore a un solo essere: ti amo, mi rallegro per te, che tu ci sia, e l’infinito significa che ti amerò e mi rallegrerò per te anche domani e in seguito, costantemente; e poi, che se accanto a te, spunta un altro, anche a lui sono certo che rivolgerò il tu di unità amore. In questo modo la persona incontrata, amata, salutata con un sorriso mattinale, non è una persona con cui io faccia una lega chiusa, un “egoismo di due persone”, come se mi fossi aperto un po’ e subito richiuso: l’apertura continua; a quella persona è rivolto un atto che ha la disposizione di accrescersi, non di cessare. Tale è l’apertura religiosa a tutti.

Tornano alla mente i fervidi colloqui tra Normalisti, negli anni della giovinezza. Negli scambi epistolari tra Capitini e Umberto Segre (conosciuto all’epoca da Henri Blondel e da lui ribattezzato il “giovane Spinoza italiano”), ritorna sovente il riferimento alla prop. XXXVI dell’Etica di Spinoza, e al relativo corollario, in cui l’amor Dei intellectualis è inteso come concreto moltiplicarsi, per ogni mente finita, dell’infinito atto d’amore intransitivo che Dio volge a se stesso. L’apertura infinita all’altro è apertura al valore, che non si contrappone alla realtà come l’universale al fatto, ma come il dover essere all’atto che, insieme, lo pone e lo realizza. E tale compresenza non va limitata al tu della persona umana, alla sua presenza limitata nel tempo, ma estesa a tutti: morti e viventi, umani e non umani. Così – in un linguaggio poetico – Capitini descrive questa festa della religione aperta, così diversa dalla festività (opposta al giorno feriale) della religione ecclesiastica, chiusa e ritualistica:

la domenica del persuaso della religione aperta che non va alle funzioni della religione tradizionale che lo separano dagli altri, e pur riposandosi o facendo il lavoro politico, sente più vivamente un’unità elevata con tutti; dice ogni tu con maggiore amorevolezza attenzione comprensione perdono, non accetta che i morti siano “finiti”, ma si riconosce unito anche a loro, che ci sono vicini e ci aiutano (siamo tutti un’unità); ascolta una musica, va a vedere cose belle d’arte, ma come se tutti fossero lì presenti ad averle create. Nella festa egli sente il coro di tutti, e più viva, nella sacra luce festiva, la vicinanza dei morti.

Questo senso laicale, più cristiano che cattolico, di unità religiosa si traduce non solo nell’impegno sociale e politico a salvaguardia delle libertà di tutti, ma in quella che Capitini (con espressione altrettanto tipica e peculiare) definisce la libera aggiunta del religioso al mondo erroneamente ritenuto profano e dissacrato. Libera aggiunta, e non imposizione dogmatica. Lotta a difesa della libertà e della giustizia per tutti, e non divisione degli uomini tra giusti e ingiusti, santi e peccatori, amici e nemici. Non semplice tolleranza del diverso, ma apertura ad ogni concreto contributo alla liberazione che ci possa arrivare dagli altri, per quanto lontani e diversi. Questo senso laicale di religiosità è ciò che maggiormente andrebbe ripensato della lezione filosofica e morale di Capitini. In un’epoca comunemente descritta come assenza del sacro, o come rivalutazione dei credo religiosi, nel loro aspetti più divisivi e fanatici, un esempio come quello di Aldo Capitini (senz’altro degno di figurare tra i Giusti dell’umanità laica e civile) non ha affatto smarrito la sua forza di suggestione etica e pedagogica. 

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

3 aprile 2020

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