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Ruanda, vent'anni dopo

di Anna Pozzi, Mondo e Missione

La memoria come ragione per restare in piedi, per non sprofondare nella follia. E per scrivere. È il senso più profondo della vita e della testimonianza di Scholastique Mukasonga, scrittrice ruandese, che ha deciso di affidare alla parola scritta il suo «desiderio di dare una degna sepoltura a chi è scomparso, al fine di santificare i morti e, allo stesso tempo, di pacificare i vivi. Per la dignità di quelli che sono partiti e di quelli che sono rimasti».
Scholastique Mukasonga - ospite al Pime di Milano in occasione della Giornata della Memoria 2014 - parla di genocidio, ma anche di riconciliazione; di responsabilità ma anche di futuro.

A vent’anni da quell’orribile massacro (6 aprile - 19 luglio 1994) che spazzò via dal Ruanda oltre 800 mila persone - in gran parte tutsi - il dovere della memoria non può essere dissociato da un anelito di futuro. Cosa per nulla scontata in un Paese segnato da una “normalità” per certi versi sospetta. Un Paese che, a prima vista, si è dato delle regole, che cresce economicamente, è ordinato ed efficiente, molto più di tanti altri Stati africani. Un Paese che si è conquistato una certa credibilità internazionale (nonostante l’ingerenza nel vicino Congo). Un Paese dove regna una calma quasi irreale. Perché, nel profondo, parlare di verità, pace, giustizia e riconciliazione è ancora oggi prematuro. Nonostante le apparenze. Nonostante la buona volontà di molti. E nonostante la propaganda governativa.
In questi anni il governo di Paul Kagame ha creato, sì, una Commissione nazionale per la riconciliazione e l’Unità (Ncrc), ma a vent’anni dalla strage è ancora difficile dire che il popolo ruandese sia realmente pacificato e che il processo di riconciliazione sia compiuto. Anche se non mancano tentativi ed esempi positivi.

Scholastique Mukasonga, classe 1956, all’epoca del genocidio era già fuggita dal Ruanda. Ma una trentina di membri della sua famiglia è stata massacrata. Compresa la madre Stefania. A lei ha dedicato uno dei suoi libri - La femme aux pieds nus (La donna dai piedi nudi, Gallimard 2012) - e al genocidio ha dedicato molte riflessioni. Direttamente o indirettamente, questi pensieri attraversano tutte le sue opere, dall’autobiografia Inyenzi ou les cafards (Inyenzi o gli scarafaggi - come venivano chiamati i tutsi - Gallimard 2006), al suo ultimo libro (Nostra Signora del Nilo, Gallimard 2012, Premio Renaudot), un romanzo-verità ambientato in un collegio femminile, dove le tensioni e le rivalità anticipano l’odio che si scatenerà vent’anni dopo nell’orribile primavera del 1994.
Cita Primo Levi Scholastique Mukasonga. E attraverso le sue parole ricorda che i «genocidi non sono mai un “incidente”. Si preparano per lungo tempo. Non sono un momento di follia o di smarrimento, ma il frutto di una manipolazione. Tutti, in Ruanda, vittime e carnefici, siamo stati manipolati per oltre trent’anni».

Certo, aggiunge, «i responsabili devono rispondere dei loro atti, ma oggi dobbiamo soprattutto cercare di costruire il Ruanda del futuro. Io ho vissuto a Nyamata, uno dei luoghi più funestati dalle stragi, ma non provo nessun rancore. Penso piuttosto ai nostri figli e a costruire un avvenire in cui possano vivere insieme nel rispetto reciproco».
Mukasonga, che oggi vive in Francia, è rimasta legata al suo Paese, dove ha creato un’associazione per l’assistenza agli orfani.

Non è la sola. Sono moltissime le donne che in questi vent’anni sono state protagoniste di iniziative, progetti, opere che hanno saputo coniugare l’aspetto concreto del “fare” a quello ideale del “fare insieme”. Promuovendo processi di incontro, relazione, collaborazione e, in definitiva, di riconciliazione, spesso dal basso.

E non potevano che essere loro, le donne, le principali protagoniste di questo riscatto e di questa “resurrezione”. Loro che hanno subìto direttamente o indirettamente le conseguenze peggiori del genocidio; vittime di violenze fisiche, morali e sessuali (oltre 250 mila donne stuprate), sopravvissute nonostante tutto, si sono ritrovate spesso sole, la famiglia decimata, gli uomini morti o fuggiti. Hanno fatto quello che spesso fanno le donne: sono rimaste. E, più o meno consapevolmente, hanno ricominciato un’opera paziente, quasi invisibile, di “intercessione”: si sono “messe in mezzo”, hanno tessuto i fili di una nuova possibile convivenza, hanno ricostruito i ponti minimi delle relazioni di prossimità, hanno ricominciato a coltivare insieme i campi, ad occuparsi dei figli propri e delle altre, degli orfani e degli abbandonati, a creare associazioni e cooperative. Loro, le donne - più degli uomini e più dei potenti - hanno ripreso in mano le sorti del Ruanda. A tutti i livelli.

Yolande Mukagasana è un’altra sopravvissuta del genocidio ruandese, durante il quale ha perso il marito e i figli. Si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di un’altra donna, una hutu, ovvero quella che, secondo lo schema folle e mortifero del genocidio, avrebbe dovuto essere la sua nemica, la sua carnefice: Jacqueline Mukansonera. La loro è una storia di orrore e di umanità, raccontata anche nel libro La morte non mi ha voluta (La Meridiana 1998).

Yolande e Jacqueline sono la testimonianza vivente che anche in quei cento giorni di buio ci sono state delle piccole luci: di pietà, di misericordia, di umanità. Yolande nel 2011 è stata riconosciuta nel Giardino di Milano, creato dall’associazione Gariwo per ricordare i Giusti della Shoah e di tutti i genocidi. «Dobbiamo educare le nuove generazioni - dice Mukagasana - ai valori umani; non trasmettere l’odio ma fare conoscere le storie dei Giusti, che al male hanno detto “no”. Solo così potrà rinascere la speranza». (M.M., aprile 2012) 

Anche lei, che ha scelto di vivere tra Belgio e Ruanda, guarda al futuro con fiducia e soprattutto con senso di responsabilità, cercando di farsi carico personalmente di questo processo ancora in gran parte da fare. Per questo, nel 2006 ha partecipato alla fondazione della onlus Bene Rwanda con sede a Roma, che ha tra i suoi principali progetti la fondazione del Centro Memoria 1994. «Vorremmo conservare e valorizzare la memoria - spiega la presidente, Françoise Kankindi - soprattutto attraverso la produzione, la traduzione e la divulgazione di materiali scritti e audiovisivi, la promozione di iniziative culturali e dibattiti e la creazione di un database con informazioni sul genocidio del Ruanda e sulle tragedie umanitarie internazionali».

Intanto, Yolande Mukagasana continua a condividere la sua testimonianza in Italia e nel mondo. Soprattutto, però, porta avanti iniziative concrete di sviluppo e riconciliazione nel suo Paese. «Oggi - dice - la gente è tornata a vivere insieme, nonostante le ferite profondissime che richiederanno secoli per guarire. Ma la sopravvivenza riguarda soprattutto le prossime generazioni, ed è una questione di volontà e di buona politica. Noi donne siamo in prima fila».

Donne vittime, dunque, ma anche protagoniste della ricostruzione. Soprattutto umana, sociale, culturale.  Subito dopo il genocidio, secondo le stime delle Nazioni Unite, rappresentavano tra il 60 e il 70 per cento della popolazione. E presto sono arrivate a costituire oltre il 55 per cento della forza lavoro e a gestire il 40 per cento degli affari. Sono uscite dall’ombra degli uomini, dove erano sempre state relegate, e anche se la società ruandese resta ancora molto maschilista - con gli uomini che occupano gran parte dei posti dirigenziali - oggi, grazie anche a un sistema di quote, le donne sono il 64 per cento dei parlamentari e almeno il 30 in tutte le istituzioni pubbliche.

Ma è soprattutto a livello di base che sono in prima linea. Sono centinaia le associazioni, i gruppi, le cooperative al femminile che stanno lavorando per mettere le basi di un futuro migliore. Hanno cominciato soprattutto da e con le vedove e gli orfani, una vera emergenza nella fase post-genocidio. Ora stanno riconvertendo quei progetti e quelle iniziative in esperienze di famiglia e comunità.

Pro Femmes-Twese Hamwe è un collettivo ruandese di una sessantina di associazioni, nato esattamente vent’anni fa; il suo scopo, contribuire alla ricostruzione, attraverso campagne di pace e progetti di riconciliazione che gli sono valsi, nel novembre 1996, il premio internazionale dell’Unesco “Mandajeet Singh” per la tolleranza e la non violenza.

Sevota (Solidarietà per l’autosviluppo delle vedove e degli orfani) è un’altra ong ruandese, nata a fine dicembre 1994, con l’obiettivo di promuovere una cultura di pace, riconciliazione e diritti dell’uomo, con un’attenzione particolare alle vedove e agli orfani. Collabora con l’ong italiana Progetto Rwanda che ha inaugurato, nel 2006, a Kigali, la Casa della Pace e della Riconciliazione, con un centro di formazione professionale, che promuove l’imprenditoria femminile per restituire dignità anche attraverso l’acquisizione della propria autonomia.
Amahoro (“pace”) è invece il nome semplice e impegnativo di tre Case realizzate con il sostegno della Caritas e del Centro missionario di Reggio Emilia con l’obiettivo di promuovere la ripresa delle relazioni umane attraverso l’attenzione ai più bisognosi e poveri.  Un segno di presenza e condivisione, ma anche di riconciliazione e accoglienza, che vede le donne non solo come destinatarie (tra gli altri) di aiuto, ma soprattutto come protagoniste sempre più autonome della gestione. 

Un’altra associazione, Inshuti (“amico”), con sede a Tradate (Va), è presieduta da una ruandese, Grace Kantengwa, appena rientrata da un viaggio nel suo Paese d’origine, insieme a quattro imprenditrici della zona. E non a caso è in prima fila in progetti dedicati alle donne e ai bambini. In particolare, l’associazione sta portando avanti nel villaggio di Gahini il progetto “Casa delle donne”. «Stiamo costruendo - spiega la presidente - un luogo sicuro in cui le donne possano incontrarsi, confrontarsi, sostenersi a vicenda. Un rifugio per sé e i propri figli, dove potranno anche apprendere qualche attività artigianale. Le donne sono il motore della società africana: aiutando le donne, si aiuta l’Africa».

Sulla stessa linea si è mossa anche la Caritas Svizzera che, insieme a molte altre Caritas ed enti ecclesiali, ha accompagnato la Chiesa e la società civile ruandesi nel difficile cammino di ricostruzione del tessuto sociale post-genocidio. In particolare, Caritas Svizzera sostiene da anni una rete di associazioni locali di vedove e giovani e di organizzazioni religiose e no, impegnate sul fronte della riconciliazione. Allo stesso tempo, però, non rinuncia a stigmatizzare la posizione del governo del Ruanda che ha imposto - come si legge in un recente documento - «un’interpretazione di parte del passato che rischia di ostacolare una riflessione critica su quanto accaduto soprattutto tra i giovani. Il Paese non ha ancora compiuto il necessario lavoro sulla memoria e sull’elaborazione di quella immane tragedia, condizione indispensabile per un’autentica pacificazione nazionale».

Anna Pozzi

Analisi di Anna Pozzi, giornalista ed esperta di Africa

30 gennaio 2014

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