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Scacchi e fatali non ritorni

di Francesco M. Cataluccio

Riprendiamo il testo di Francesco M. Cataluccio per il catalogo della mostra Massimo Kaufmann: Le regole del gioco, da mercoledì 31 maggio 2023 a giovedì 31 agosto 2023 al Museo del Novecento di Milano.

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Null’altro siamo che non parte del gioco, 

muoviamo su una scacchiera di giorni e notti;

a ogni mossa un pezzo cade preso,

la partita continua mentre noi siamo riposti.

Omar Khayyām (1048-1131), matematico e poeta persiano.

Esistono parole di dieci lettere prive di vocali. Per esempio: “gwyddbwyll”. “Scacchi” in gallese

In uno dei mosaici nel presbiterio dell'antica basilica di San Savino (XII secolo), a Piacenza, si vede una partita di scacchi tra un barbuto signore seduto su una specie di trono e un misterioso avversario. Misterioso perchè di lui vediamo soltanto un braccio e la mano che muove una torre in f3. Mi sono sempre chiesto se quel braccio non sia, come in certi affreschi, la mano di Dio che sbuca dal cielo. L'ho visto che ero un ragazzino ed è diventato una specie di ossessione, qualche anno più tardi, quando guardai al cinema la morte (impersonata da Bengt Ekerot) sconfiggere in riva al mare il cavaliere Antonius Block (Max von Sydow), nel film Settimo sigillo (1957) di Igmar Bergman. Quel braccio senza corpo né volto mi torna sempre in mente quando, durante una partita a scacchi, mi capita di astrarmi per riflettere sulla mossa successiva. Allora l'avversario di fronte a me sparisce. Quando poi tocca a lui muovere vedo solo la mano che tiene il pezzo che sta muovendo.

Nessuno come Jorge Luis Borges, nella poesia Ajedrez (Scacchi, 1960) è riuscito a spiegare meglio il senso di questa "doppia partita" con un avversario che scompare perché non è quello di fronte a noi:
"(...) Tenue re, sghembo alfiere, accanita
regina, torre diritta e pedone scaltro
sopra il nero e bianco del Cammino
cercano e combattono il loro scontro armato.
Non sanno che la mano designata
del giocatore comanda il loro destino,
non sanno che un rigore adamantino
regge il loro arbitrio e il loro viaggio.
E pure il giocatore è prigioniero
(la sentenza è di Omar) di un’altra scacchiera
di nere notti e di bianchi giorni.
Dio muove il giocatore, e questi, il pezzo.
Quale Dio dietro Dio dà inizio alla trama
Di polvere e tempo e sogno e agonie?

Ho sempre avuto un rapporto complicato con gli scacchi, forse anche per questo sono un bizzarro giocatore. Agli inizi di questa passione ci sta una gita domenicale di metà settembre, agli inizi degli anni Sessanta, a Marostica. Prima dello "spettacolo" il babbo, che di mestiere faceva lo storico, mi raccontò che, nel 1454, quando la città era una delle fedelissime della Repubblica di Venezia, due valorosi guerrieri, Rinaldo D’Angarano e Vieri da Vallonara, si innamorarono perdutamente della bella Lionora, figlia del Castellano Taddeo Parisio, e per la sua mano si sfidarono a duello. Il castellano impedì però il cruento scontro rifacendosi a un editto di Cangrande della Scala di Verona, emanato poco dopo la tragica vicenda di Giulietta e Romeo, e confermato e aggravato dal Serenissimo Doge. Decise quindi che Lionora sarebbe andata in sposa a quello tra i due rivali che avesse vinto una partita a scacchi. Lo sconfitto sarebbe divenuto ugualmente suo parente, sposando la altrettanto bella sorella minore Oldrada. L’incontro si svolse in un giorno di festa nella piazza del Castello da basso, con pezzi grandi e vivi, armati e segnati delle insegne di bianco e di nero, mossi a voce, da lontano, dai due sfidanti. Vinse Rinaldo. Ma la mamma, più tardi, dopo che avevamo assistito allo spettacolo della partita in costume, aggiunse un'altra versione (sfacciatamente rubata all'opera teatrale di Giuseppe Giacosa, Una partita a scacchi, 1873). Iolanda (Lionora) era una scacchista bravissima e altezzosa: chi avesse voluto sposarla doveva batterla. Allo sfidante, nel caso fosse risultato perdente, veniva tagliata la testa. Un giorno si presentò a sfidarla un bellissimo ragazzo di umili origini. Mentre giocavano, lei confusa gli chiese:

"Paggio Fernando perché mi guardi e non favelli?"

Lui rispose: "Guardo i tuoi occhi che son tanto belli!".

Iolanda lo lasciò vincere...

La posta in gioco della perdita della testa, seppure per tentare di conquistare una bella ragazza, a quel tempo non mi colpiva più di tanto. Ben più intriganti mi parevano certe storie della mitologia greca, come la possibilità di esser trasformati in tartarughe. Venere sfida Adone. Adone vince barando con l’aiuto di Mercurio che narra la favola della ninfa Galania che aveva anch’essa barato con Venere ricavandone, per punizione, la metamorfosi in tartaruga. Lo racconta Giovan Battista Marino che dedica agli scacchi degli dei buona parte del canto XV del suo Adone (1623). A questo proposito, al Museo Civico d'Arte Antica - Palazzo Madama, a Torino, c'è un bel quadro di Giulio Campi, Il gioco degli scacchi (1532) che rappresenta la partita tra una pettoruta Venere e un superarmato Marte, affiancato da alcuni suggeritori. La scacchiera è solo in piccola parte visibile e con pochi pezzi che nulla dicono sullo svolgimento del gioco. È soltanto un pretesto per mostrare una tenzone amorosa. La disposizione dei pezzi è meno importante del gruppo di persone ritratte e dei segnali che intercorrono tra loro.

Iniziai a giocare a scacchi, all'età di sette anni, durante le vacanze estive grazie a un vecchio e annoiato bagnino di Viareggio, amico della nonna. Da subito partite all'ultimo sangue, seduti a cavalcioni su uno dei due galeggianti del pattino rosso di salvataggio. I pezzi che venivano mangiati cadevano fatalmente sulla rena sottostante. Ma la vera scuola fu all'inizio delle medie, quando nostro professore di matematica, che aveva a sua volta imparato gli scacchi come alpino durante la disastrosa campagna di Russia, si prestò a insegnarci, una volta alla settimana nelle ore pomeridiane, come migliorare attraverso lo studio e la pratica collettiva. La cosa più importante per me fu la scoperta che, essendo molto sfortunato in tutti i giochi (e nemmeno compensato, allora, dalla fortuna nell'amore), avevo capito che negli scacchi la fortuna conta pochissimo. Come lessi nella Novella degli scacchi (1941) di Stefan Zweig, l'ultimo racconto scritto prima del suo suicidio: "Conoscevo per esperienza personale la misteriosa forza di attrazione del 'nobil gioco', l’unico fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale".

In questa mia precoce passione c'era anche una giovanile attrazione il per mondo russo. Alla Fiera dell'artigianato i miei genitori mi avevano comprato una scacchiera russa a scatola che profumava intensamente di legno di betulla. I maggiori maestri venivano dall'Unione Sovietica e spesso qualcuno di loro si esibiva, nelle Feste dell'Unità, in impressionanti sfide contemporanee: quindici fortunati venivano estratti a sorte e sfidavano il Maestro che passava con annoiata superiorità da una scacchiera all'altra, risolvendo rapidamente le partite. I più bravi riuscivano a strappare una patta e allora era una vera festa con tanto di foto ricordo. Assai amara fu la delusione per l'esito della sfida tra il bizzoso Bobby Fischer e il malinconico detentore del titolo Boris Spasskij, nel Campionato del mondo di scacchi del 1972 a Reykjavik. L'americano vinse per 12,5 a 8,5. Ma la febbre per gli scacchi allora dilagò. Gli italiani sembravano tutti diventati dei baldanzosi giocatori.

Su una parete della mia camera avevo appeso una foto, un po' sgranata, di Lenin che giocava a scacchi a Capri. Maksim Gorkij si era stabilito nell'isola ai primi di novembre 1906: il 26 ottobre era sbarcato a Napoli dal transatlantico "Princess Irene" proveniente da New York, insieme a Maria Fjodorovna Andreeva e a Nicolaj Burenin, un ricco borghese di San Pietroburgo convertito al marxismo. Accanto allo scrittore gli elementi di spicco della colonia caprese erano: il medico e filosofo Aleksandr Aleksandrovič Bogdanov (Malinovskij), uno dei due fondatori del bolscevismo (e anche: il primo a tradurre in russo Il Capitale, il più importante scrittore di fantascienza russo prima della Rivoluzione, e un pioniere delle trasfusioni di sangue); Anatolij Vasil'evič Lunačarskij, futuro commissario dell’Istruzione dei primi governi sovietici e Vladimir Aleksandrovič Bazàrov (Rudnev) (1874-1939), protagonista dello sviluppo della pianificazione economica (NEP) in Unione Sovietica. Tra il 1908 e il 1910 Lenin trascorse due periodi a Capri. La sua presenza resterà legata soprattutto ad alcune fotografie che lo ritraggono mentre gioca a scacchi sulla terrazza di Villa Blaesus. La partita fu giocata nei primi giorni del soggiorno sull’isola, nel tentativo, forse, di allontanare le dispute ideologiche e costruire un clima amichevole. Le foto furono scattate dal giovane Jurij Zeljabuzskij, il figlio di primo letto di Maria Andreeva, la compagna di Gorkij. Oltre a Lenin, Bogdanov, Bazarov e Gorkij, nella foto sono riconoscibili l’editore bolscevico Ivan Ladyznikov, stretto collaboratore Aleksej Maksimovic, che aveva curato la pubblicazione a Berlino del romanzo La madre. In piedi, massiccia nella corporatura, la moglie di Bogdanov, Natalja Bogdanova Malinoskaja. Le foto furono più volte ritoccate per ordine di Stalin, man mano che col terrore si decideva di eliminare qualcuno. Sparirà soprattutto la faccia dell’economista Vladimir Bazarov (il secondo da sinistra accanto a Gorkij col cappellaccio). Bazàrov fu arrestato dalla polizia segreta sovietica durante l'estate del 1930. Firmò una deposizione in cui riconosceva la sua partecipazione a un complotto di economisti "menscevichi" per "distruggere" l'industria sovietica attraverso la fissazione di obiettivi di pianificazione artificialmente bassi". Nel 1931 Bazàrov venne processato in segreto e condannato a una pena detentiva a Jaroslav'.

Sin dagli inizi mi ero innamorato delle imprevedibili mosse a L dei cavalli. Così, per un equivoco filorusso, acquistai La mossa del cavallo (1923; De Donato, 1967) dello scrittore, critico letterario e sceneggiatore Viktor Borisovič Šklovskij (1893-1984): un libello costituito da una raccolta di brevi saggi e articoli attorno a fatti di arte, artisti, scrittori, registi della scena pietroburghese. Niente a che fare con gli scacchi! Ma l'autore mi incuriosì e così comprai anche quello che egli considerava il suo libro prediletto, uno dei più belli che abbia mai letto: Zoo o lettere non d'amore (1923; Einaudi 1966). Lettere indirizzate a una donna conosciuta a Berlino: Elsa Triolet (1896–1970), nota anche come Laurent Daniel, scrittrice francese di origine russa, Ėlla Jur'evna Kagan, sorella minore di Lilja Brik, musa ispiratrice di Vladimir Vladimirovič Majakovskij. Anche lui grande amante degli scacchi, che si uccise, nel 1930, sostenendo di "non aver altra via d'uscita, obbligato a muovere", come in Zugzwang: termine tedesco usato negli scacchi per descrivere una posizione in cui tutte le possibili continuazioni ti portano alla sconfitta. La particolarità della situazione è che la sconfitta deriva proprio dall’essere il tuo turno a muovere. Se solo si potesse saltare la mossa… Invece l’unica possibilità che rimane è l’abbandono.

La scacchiera si presenta come un campo neutro e rigoroso, assoluto: le risorse che offre, così come le sue minacce, sono esattamente quelle che si vedono, mossa dopo mossa. Un universo manicheo retto da rigide regole dove lo scontro tra il bianco e il nero incarna la metafora dell’eterna lotta tra il Bene e il Male, l’opposizione tra principi originari e contrari, simbolo dell’eterna contesa, infinito divenire dell’universo e della vita stessa. Per questo, come ha scritto Mauro Ruggiero (Il labirinto sulla scacchiera, in "L’Italia scacchistica", n.1179, 2005) quello degli scacchi è un tema caro alla letteratura tanto antica quanto moderna, come dimostra il fatto che autori di ogni tempo e luogo hanno scritto e continuano a scrivere opere il cui tema centrale ruota intorno a questo antico gioco di origine indiana, conosciuto in Persia, e diffuso in Europa dagli arabi tra il IX e il X secolo d.C.: "Da Zweig a Edgar Allan Poe, da Digny a Montale, da Omar Khayyām a Dante, da Cervantes a Goethe, tralasciando gli antichi trattati sul gioco (alcuni di illustri personaggi storici come quello di Alfonso X “il Saggio”, re di Castiglia e Leòn, del XIII sec.) e gli innumerevoli moderni studi dei grandi maestri, sono moltissimi gli autori che hanno dedicato particolare attenzione al gioco che nelle loro opere si spoglia delle sue caratteristiche logico-matematiche, per conservare solo i connotati filosofici a esso connessi".

Lo scrittore polacco Witold Gombrowicz (1904-1968), che ho molto amato e studiato, è stato accanitamente appassionato di scacchi. Come ha ricordato sua moglie Rita Labrousse: "Witold amava giocare a scacchi. Il suo maestro di scacchi Frydman mi disse che Gombrowicz vinceva quasi sempre perché assumeva una posizione di attacco. Iniziando il gioco, si percepiva subito che era all'attacco. Prendeva una pedina in mano e, per disorientare l'avversario, la batteva contro la scacchiera". Una scultura (opera di Sławomir Mick), raffigurante Gombrowicz che gioca a scacchi, è stata eretta nel 2018 nella zona pedonale di Radom, sua città natale. Gombrowicz comprese profondamente gli aspetti filosofici degli scacchi nella sua lotta incessante contro la Forma. Non era solo un gioco per lui, ma uno strumento di conoscenza, dell'avversario e di se stesso. Nell'estate del 1939, a bordo del transatlantico "Chrobry" (Valoroso), ammazzando il tempo giocando a scacchi, si recò a Buenos Aires, dove rimase fino al 1963. Là, in condizioni economiche assai precarie, scrisse molto e giocò parecchio a scacchi.

Nella stessa estate del 1939, anche il più grande scacchista polacco, Moshe Mendel Mieczyslaw Miguel Najdorf (1910-1997) salpò da Anversa, a bordo della nave "Pirapolis", per l'Argentina per prendere parte all'Olimpiade degli scacchi di Buenos Aires. I suoi genitori avevano una macelleria nel quartiere ebraico di Varsavia e volevano che diventasse una persona importante, un medico. Il suo destino fu deciso, quando aveva 9 anni, da un evento legato alla malattia, anche se non alla medicina. Ha ricordato Najdorf: "Il padre del mio amico Ruben Fridelbaum mi insegnò a giocare a scacchi, e questo, si può dire, per puro caso. In quel momento era a letto e si annoiava molto, così quando andai a trovarlo mi chiese se sapevo giocare a scacchi. Dopo la mia risposta negativa, tirò fuori un set di scacchi e iniziò a spiegarmi le regole. Fu così che fui contagiato dal virus degli scacchi e dopo una settimana ero già imbattibile per Fridelbaum senior...". Najdorf partì per l'Argentina inconsapevole dell'imminente scoppio della Seconda guerra mondiale. Sua moglie avrebbe dovuto imbarcarsi con lui, ma rifiutò perché indebolita da una forte influenza. Rimase in Polonia con la figlia di tre anni. Najdorf racconterà in seguito: "Nessuno dei miei familiari è sopravvissuto alla guerra: moglie, figlia, quattro fratelli, mio padre...". Era solito dire di essere nato in Argentina per la seconda volta, ed è per questo che per oltre cinquant'anni considerò questo Paese la sua patria. I suoi inizi in Sudamerica non furono facili: le Olimpiadi iniziarono il 21 agosto. Il 1° settembre, la notizia dell'attacco della Germania alla Polonia raggiunse i partecipanti. I tre inglesi si ritirarono dalla competizione e tornarono in nave a casa (a Londra lavorarono in seguito, sotto la direzione di Alan Touring, per decifrare il codice Enigma). Alcune partite non ebbero nemmeno luogo, come il previsto incontro della squadra polacca con quella del Terzo Reich, che fu semplicemente dichiarato concluso con il punteggio di 2-2 senza che i rappresentanti di entrambe le nazioni si sedessero alla scacchiera. L'intera squadra tedesca rimase in Sud America.

Najdorf e Gombrowicz si conoscevano bene e, almeno nei primi giorni del loro soggiorno in Argentina, trascorsero molto tempo insieme. Il loro luogo comune era il caffè scacchistico "Rex", che dopo qualche tempo fu gestito da un altro olimpionico polacco, Paulino Frydman, stabilitosi in Argentina a causa della guerra. C'è una foto che mostra tutti i maestri di scacchi polacchi finiti, e salvatisi dalla Shoah, in Argentina: Paulin Frydman, Henryk Friedman, Ksawery Tartakower, Mieczysław Najdorf, Kazimierz Makarczyk. Gombrowicz, che se la passava molto male economicamente lavorando come impiegato nel Banco Polaco, assistette con fastidio, e forse invidia, alla rapida integrazione e arricchimento di Najdorf, grazie alle sue grandi capacità sportive e anche alla sua notevole forza d'animo. Quando la guerra finì, aveva 36 anni e non temeva nessuno degli scacchisti che conosceva. Pensava di avere una possibilità di vincere il campionato mondiale. Ma l'Unione Sovietica aveva appena iniziato a lanciare nel mondo giocatori non ancora conosciuti da nessuno, che poi crearono il vincente fenomeno noto come "scuola scacchistica sovietica". In pochi anni, non solo grazie agli scacchi, Najdorg divenne sempre più ricco e famoso. Un amico, lo scacchista argentino Guimard, lo convinse a entrare nel mondo delle assicurazioni. Gli inizi furono modesti, ma dopo pochi anni la società di Najdorf fu la più grande compagnia di assicurazioni dell'Argentina. Contemporaneamente divenne un campione delle "partite di scacchi alla cieca": si siedeva in una stanza separata, priva persino di strumenti per prendere appunti, sorseggiava succhi di frutta forniti dal suo sponsor, qualcuno gli portava le informazioni sulle mosse degli avversari e Najdorf rispondeva attraverso un microfono. Queste sessioni duravano fino a venti ore. Giacava soprattutto in Brasile. A San Paolo, nel 1947, giocò 45 duelli "alla cieca", vincendo 39 partite, 4 patte e solo 2 sconfitte. Nel 1950, sempre a San Paolo, ma non più "alla cieca", giocò 250 partite contemporaneamente in 11 ore, col risultato di 226 vittorie, 10 sconfitte e 14 pareggi. La sua fama lo portò a giocare con personaggi come Winston Churchill, Nikita Chruščëv, lo Scià dell'Iran, Josip Broz Tito: "Una volta Che Guevara mi invitò a Cuba e in un pomeriggio giocai dieci partite contemporaneamente. Alcuni dei miei avversari: Fidel Castro; suo fratello Raul; Camilo Cienfuegos; il presidente Dorticos; il Che... Offrii al Che un pareggio e non l'accettò. Mi disse: 'Con te, vinco o perdo'. Ho vinto nove partite, ho fatto una patta con Fidel, non si sa mai...", ricordò Najdorf. Giocò a scacchi per il resto della sua vita, lunga e ricca di successi. Negli anni Cinquanta aveva giocato a livello dei primi dieci del mondo, ma anche all'età di 69 anni, come ultimo dilettante in uno sport già professionalizzato, era ancora in vantaggio rispetto agli ex campioni del mondo nei tornei.

Jorge Luis Borges che fu amico e ammiratore di Najdorf, mentre ebbe in grande antipatia (ricambiato) Gombrowicz, allude frequentemente nelle sue opere agli scacchi. Molto bello è il un racconto breve Il miracolo segreto (1944). Vi si narra dello scrittore praghese Jaromir Hladik che sognò di essere il primogenito di una delle due nobili famiglie che disputavano una partita a scacchi iniziata dai loro antenati molti secoli prima e la cui posta in gioco nessuno ricordava, ma che si sapeva essere di enorme importanza e che, al momento della giocata, che doveva compiere lui e che non portò a termine, si risveglió mentre i carri armati del Terzo Reich entravano a Praga. Assai stretto è secondo Borges soprattutto il rapporto tra scacchi e poesia, nella quale egli intravede un enigma paragonabile a quello scacchistico: "Come scacchi misteriosi, la poesia, la cui scacchiera e i cui pezzi mutano come in un sogno e sul quale mi inchinerò dopo essere morto". Nella bellissima poesia I Giusti (1981), vengono insigniti di questa qualità anche “Due impiegati che in un caffè del Sud, giocano in silenzio agli scacchi“.

Un "giusto degli scacchi" è stato certamente Janusz Szpotański (1929-2001), detto "Szpot". Poeta, critico e traduttore geniale senza lavoro fisso perché considerato "elemento parassitario e antisociale". Tre volte campione di scacchi a Varsavia e titolare del titolo di Maestro. Arrestato nel 1967 per aver scritto opere satiriche sul regime comunista, nel 1968 fu condannato a tre anni di prigione dove salvò il proprio equilibrio mentale grazie agli scacchi (tutti volevano giocare con lui) e ai libri. Lo frequentai a Varsavia negli anni ottanta. Viveva in un modesto monolocale zeppo di libri in tedesco, un pianoforte, una bella scacchiera su un traballante tavolino, molte bottiglie vuote e uno strano letto che poggiava sulla cassa di legno di una vecchia radio (comodo, mi spiegò, per coricarsi e togliersi le scarpe facendo leva sul bordo della cassa...). Alla parete teneva una riproduzione di Partita a scacchi (1555) di Sofonisba Anguissola che potei andare ad ammirare al Muzeum Narodowe di Poznań. Strano dipinto, con un forte contrasto tra le età delle quattro donne attorno alla scacchiera: Lucia, la terzogenita delle sorelle Anguissola, sta movendo gli scacchi; di fronte a lei Minerva, la quartogenita, parla con l'avversaria e le sue parole attraggono l'attenzione della sorellina minore, Europa, la quintogenita, che segue la partita e le sorride. Un'anziana governante segue la scena. Giorgio Vasari scrisse che quelle quattro donne "paiono vive, e che non manchi loro altro che la parola". Pochi anni prima, nella stessa città di Cremona, era stato pubblicato un poemetto giovanile del poeta cremonese e vescovo di Alba, Marco Gerolamo Vida, intitolato Scacchia Ludus (1550). Szpotański, scapolo impenitente, spiegava sogghignando che gli scacchi, nel Rinascimento, facevano parte della formazione umana ed era considerati un esercizio intellettuale eccellente per una donna. Mentre le erano vietati i giochi con le carte e con i dadi, perché fondati sulla fortuna e non sull'ingegno.

Con Janusz Szpotański andavamo a volte a fare una passeggiata nel parco vicino a casa sua, dove c'erano dei pensionati che come avvoltoi attendevano le "prede" seduti dietro a tavolini di pietra con sopra disegnata la scacchiera. Giocavano a soldi e per invogliare i passanti erano disposti a concedere il vantaggio di una torre, un alfiere e persino un cavallo. Quando vedevano arrivare Szpot impallidivano: li batteva comunque. Io invece "arricchii" diversi di quei vecchietti, dei quali, anche per questo motivo, divenni amico e mi insegnarono parecchi preziosi trucchi. Allora nei giardini pubblici si giocava anche su delle grandi scacchiere dove gli avversari spostavano camminando dei grandi pezzi, quasi ad altezza d'uomo, molto leggeri perché fatti di sagome di metallo.

Szpotański è rimasto celebre nel mondo degli scacchi per esser stato protagonista di un "re che mangia l'altro re". Durante la gara nel campionato di scacchi del 1957, stava perdendo. Era una cosiddetta "partita rapida", con poco tempo per pensare e la possibilità di dare lo scacco al re senza dichiararlo. Messo alle corde, Szpot mise con nonchalance il suo re accanto al re dell'avversario. E dopo che l'altro, senza accorgersene, gli mangiò l'alfiere, lui gli mangiò il re. L'avversario contestò la mossa sostenendo che con si può mettere un re accanto al re. Spot replicò che avrebbe dovuto dirlo nel momento in cui i due re erano stati messi vicini. Il giudice perplesso, dopo aver consultato inutilmente il regolamento, decise di sospendere il risultato e scrivere al Centro degli scacchi di Reykjavik. La risposta arrivò dopo un mese: Szpot vinse e fu anche ringraziato perchè da quel momento, nel regolamento, fu introdotto il principio che non si può affiancare, nelle "partite rapide", un re a un altro re.

Fu Szpotanski a farmi leggere La difesa di Lužin (1930) di Vladimir Nabokov, scritto in russo a Berlino e pubblicato con lo pseudonimo di V. Sirin. Lo scrittore era un buon giocatore di scacchi, ma era interessato soprattutto ai problemi, che considerava, se ben costruiti, delle vere e proprie opere d’arte. Ne compose e pubblicò una ventina. Per risolvere i problemi scacchistici, che vengono pubblicati sui giornali, occorre una capacità immaginativa non comune, se non si ha una scacchiera sotto mano.

Il personaggio di Lužin è probabilmente basato su Curt von Bardeleben, un maestro tedesco di scacchi che Nabokov conobbe personalmente e che si suicidò gettandosi da una finestra. Mentre il suo avversario per il campionato del mondo, Salvatore Turati, deriva probabilmente dall'entomologo Emilio Turati. Quando iniziò il romanzo Nabokov, che fu un esperto entomologo, si trovava nei Pirenei a caccia di farfalle ed era quasi certamente venuto a conoscenza di un articolo di Turati, Faunula Valderiensis nell'alta Valle del Gesso (Alpi Marittime), pubblicato nel "Bollettino della Società Entomologica Italiana". Nella storia del precoce e introverso genio degli scacchi forte è l'aspetto del gioco come sublimazione sessuale. Almeno questo è ciò che pensa il manager del giovane protagonista, Valentinov, che ha "una bizzarra teoria circa lo sviluppo del talento scacchistico di Lužin collegato, a suo dire, a quello dell’istinto sessuale di cui gli scacchi costituivano la sublimazione, e temendo che Lužin desse sfogo naturale alle benefiche tensioni interiori, scialacquando così le sue preziose energie, lo teneva lontano dalle donne e si rallegrava della sua casta tetraggine."

La lettura in chiave di sublimazione o comunque erotismo degli scacchi mi convince poco. Ci sono però le foto di due performance che mi sono sempre sembrate assai suggestive. La prima, opera di Bob Towers, mostra Max Ernst e Dorothea Tanning che giocano a scacchi a Sedona (Arizona) nel 1951. Ernst con il braccio destro tiene perpendicolare al tavolo dove è posata la scacchiera una grande cornice così che lui, a torso nudo, e lei con una canottiera che le lascia scoperte le braccia, sembrano dentro un quadro. La partita a scacchi è in una finestra al di là del mondo, si colloca in uno spazio dove le braccia, le teste, i pezzi della grande scacchiera sembrano fondersi in un legame che va oltre la stessa partita. L'altra foto, di Julian Wasser, mostra Marcel Duchamp che gioca a scacchi con Eve Babitz completamente nuda, in un happening all'Art Museum di Pasadena (California) nel 1963. Anche in questo caso, ma al di là della scacchiera rispetto all'osservatore, c'è una sorta di cornice che sotiene una piccola scultura in legno, e dietro ci sono altre sculture e quadri lontani alle pareti. La partita a scacchi isola i due giocatori dal resto del mondo. Duschamp sembra del tutto impassibile rispetto alla bellezza senza veli del corpo di lei, concentrato sulla scacchiera, in difesa dei suoi pezzi bianchi. È chiaro che la scacchiera, in questo caso, è soltanto un suppellettile decorativo di una messa in scena che racconta qualcos'altro.

Molte volte ho avuto la sensazione di aver smarrito il senso degli scacchi. Per molti anni non ho avuto voglia di giocare. Se venivo forzato a farlo mi si manifestava quasi subito il mal di testa. Ho ritrovato le motivazioni per tornare a pensare e giocare agli scacchi il 2 marzo del 2022 quando ho letto l'appello contro la guerra all'Ucraina, firmato dai più importanti scacchisti e scacchiste russi, a cominciare dal Grande Maestro Internazionale Ian Nepomniachtchi:

"Ci opponiamo alle azioni militari sul territorio dell’Ucraina e chiediamo un cessate il fuoco tempestivo e una soluzione pacifica del conflitto attraverso il dialogo dei negoziati diplomatici. È insopportabilmente doloroso per noi vedere la catastrofe che sta accadendo in questi giorni ai nostri popoli. Abbiamo sempre giocato per la Russia in gare individuali e, con particolare orgoglio, in squadre. Crediamo che gli scacchi, come gli sport in generale, debbano unire le persone. (...) Gli scacchi insegnano la responsabilità delle proprie azioni; ogni passo conta e un errore può portare a un punto fatale di non ritorno. E se si è sempre trattato di sport, ora è in gioco la vita delle persone, i diritti e le libertà fondamentali, la dignità umana, il presente e il futuro dei nostri Paesi".

Francesco M. Cataluccio

Analisi di Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

7 giugno 2023

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