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Se è stato una volta possibile, lo sarà per sempre

di Amedeo Vigorelli

1. In uno dei suoi ultimi scritti, il filosofo Enzo Paci esce in una affermazione perentoria, in cui qualcuno ha voluto leggere una sorta di testamento spirituale: “il male nel quale l’uomo si radica suscita uno stupore incoercibile” (E. Paci, Il senso delle parole. Sulla fenomenologia del negativo, “aut aut” 140/1974). È necessario contestualizzare tale affermazione. Paci era stato tra i pochissimi accademici italiani disposti a rinunciare a una posizione di potere acquisita negli anni, per porsi in dialogo con le confuse istanze rivoluzionarie giovanili che il movimento del 1968 aveva suscitato. Ciò gli valse l’isolamento sociale e l’incomprensione della maggior parte dei colleghi, che lo accusarono di velleitarismo e pericoloso cedimento al giovanilismo. Ma questa è la parte meno interessante di quella vicenda. Più interessante è rilevare la profondità del coinvolgimento personale del filosofo in quello che egli amava indicare come il limite dialettico della crisi di cui l’epoca attuale sembrava aver preso coscienza, e che lo induceva a una autoriflessione insieme teoretica e biografica:

sta avvenendo in me una lenta evoluzione filosofica. In un certo senso si tratta di un ritorno alle origini del mio pensiero. Alla ripresa del problema del negativo e della struttura del negativo.

Sin dai primi anni Sessanta, il filosofo aveva proposto un’inedita coniugazione di Fenomenologia e Marxismo, quale strumento privilegiato di indagine della crisi storica novecentesca. Il tema husserliano della crisi dell’umanità europea, evidenziata da un progresso tecnico-scientifico non adeguatamente sorretto da una consapevolezza razionale e da un senso di responsabilità morale all’altezza dell’eredità culturale delle origini greche del pensiero occidentale. Il tema marxiano della alienazione dell’essenza di genere dell’uomo, come esito necessario dello sviluppo economico capitalistico. Questi due temi, apparentemente distanti nei presupposti filosofici di partenza dei due autori, venivano viceversa riuniti da Paci in Funzione delle scienze e significato dell’uomo (1962), e successivamente proposti alla riflessione pragmatica di una generazione nuova, che nel Maggio francese (ma anche nel movimento anti-militarista degli USA e in quello anti-totalitario della Primavera praghese) andava scoprendo la radicalità di una rivoluzione dei desideri e dei bisogni.

Tornando a riflettere, in solitudine, sui limiti e i falsi miraggi di un’esperienza così repentinamente consumatasi, o schiantatasi contro la “rocciosità” dei condizionamenti storico-sociali e sistemici, che andavano invocando (e venivano organizzando) la inevitabilità di un ritorno all’ordine, Paci era colto da una vertigine, in cui rivivevano i fantasmi di un “secolo breve”, in cui era vissuto da protagonista. Il primato assoluto dell’economico, posto a segreto fondamento della storicità moderna; la dialetticità del pensiero, come sforzo vano di “esorcizzare il male che si presenta di fronte al bene, nel tempo”. L’eterogenesi dei fini, manifestatasi (nei totalitarismi) come “minaccia sul mondo ad opera di quelle forze stesse che pure erano state dialetticamente trasformatrici”. Il contrasto perenne tra l’aspirazione ad “un’altra e radicalmente diversa umanità”, da contrapporre alla “follia dominante”, e l’emergere sempre di nuovo delle “maschere del positivo, le maschere di un mondo nuovo che continuamente si trasforma, ma che rimane tuttavia, anche se dice che è solo per analizzarlo, nel vecchio”. Erano suggestioni in involontaria sintonia con quelle di un Debord, ne La società dello spettacolo (1967); ma che Paci viceversa attingeva alla grande letteratura novecentesca, da lui coltivata e filosoficamente filtrata sin dalla giovinezza: in particolare al Kafka del Castello, del Processo e della Tana. Da qui riprendeva l’esigenza di una rinnovata fenomenologia del negativo, quale arma per il disoccultamento sia della “falsa rivoluzione” come della “falsa reazione”. Fenomenologia del negativo era sinonimo per lui di “fenomenologia dell’equivoco” dell’“arzigogolo”, mediante cui la falsa saggezza dei potenti vuole imporsi sulla moltitudine, persuadendola del fatto che “ancora una volta, i mezzi, le forze, la convinzione che in ogni caso vince il male, sono in mano ai più forti”. Che “la menzogna vede meglio i suoi scopi, anche se non li dice, della sincerità”. Che “la fiducia è sempre più debole dell’arzigogolo e della disciplina esteriorizzante che sa sempre disobbedire quando lo crede necessario e cogliere l’altro nel disordine e nella disobbedienza”. Sino a concludere:

L’umanità non può trovare la propria via, se seguita a credere, nel fondo, alla chiacchiera, all’inganno, al ricatto, al gioco della superpotenza e della schiavitù, alla forma estrema, ben più vasta e decisiva di quanto Hegel avesse pensato, della dialettica servo-signore. Si tratta di un realismo machiavellico portato agli estremi e di un’apocalisse concreta.

Non erano solo le finali espressioni di una malinconia filosofica (sebbene, anche lo fossero, non sembrano avere smarrito del tutto un tono di autenticità e di quasi-attualità). Erano un ritorno riflessivo a quel tema della radicalità del male, che Paci aveva sperimentato in forma non astratta e speculativa, ma vissuta e incarnata, negli anni 1943-1945, internato di guerra in un lager nazista.

Di quella esperienza, comune a tanti altri intellettuali della sua generazione, non rimane solo la traccia biografica nei suoi Diari. Una recente versione drammatica ne è stata redatta da Emilio Renzi, suo antico allievo e in seguito fervente “olivettiano”: Caro Ricoeur, mon cher Paci. Dialogo in cinque scene (Quaderni di Materiali di estetica 2006). Paci era stato in un primo tempo internato a Sandbostel, nella Polonia invasa, e successivamente trasferito più a occidente, nel campo di Wietzendorf. Qui fece conoscenza con un internato francese, il filosofo Paul Ricoeur, con cui strinse una amicizia che sarebbe durata nel tempo. La prima scena immaginata nel suo dialogo drammatico da Renzi si svolge a Parigi, alla Gare de Lyon, nel marzo 1960. La fonte per questa ricostruzione è fornita dallo stesso Paci, nel suo Diario fenomenologico (Milano 1961). I due amici si ritrovano per la prima volta dopo quindici anni a Parigi, per una conferenza alla Sorbona, dove Ricoeur insegna dal 1956. Rievocano un episodio del Lager: il dono (altamente simbolico) di un pane, che il prigioniero francese, all’atto della liberazione, lascia sulla branda di Enzo Paci, ancora immerso nel sonno: “il pane è nutrimento del corpo e dello spirito”. Questo ricordo fa da sfondo alla rievocazione del cammino, parallelo e comune, che ha portato i due autori ad imporsi tra gli interpreti più noti e riconosciuti di Husserl, nel secondo dopoguerra. In un cammino a ritroso nel tempo, le scene successive riportano i due protagonisti nello Stalag tedesco, ai primi mesi del 1945 (Scena seconda); a Roma, per un convegno universitario, nel 1966 (Scena terza); negli Stati Uniti, dove Ricoeur si è trasferito “in volontario esilio” dopo l’esperienza di Nanterre, nella sala professori di un’Università americana nel 1972 (Scena quarta); per concludersi, dopo la morte di entrambi (Milano 1976-Parigi 2005), “nell’iperuranio e nell’acronia” (Scena quinta). Non posso ricostruire nel dettaglio questo dialogo immaginario (che pure meriterebbe di essere conosciuto anche dai non specialisti, a cui era originariamente rivolto e, magari persino proposto in forma teatrale). Mi limito a cogliervi due elementi. Da un lato, da parte di Paci, la “confessione” di un “peccato d’origine”.

La mia anima e il mio corpo, qui e ora, stanno scontando la credenza di quegli anni secondo cui gli “studi” – il moralismo dell’“anima bella” – stavano da una parte, e la “vita” – la vita come forza – dall’altra; e che bisognasse obbedire al “richiamo della vita”, a un neoromanticismo inteso come rivoluzione antiborghese. Ho creduto che la politica potesse sostituire ogni altra passione della verità, la comunione. Ma il potere non può, non deve sostituirsi all’amore – è forse il peccato più profondo.

Dall’altro, il richiamo di Ricoeur al filosofo Jean Nabert, suo fondamentale riferimento per la costruzione di un’etica anti-idealistica, in grado di aderire con il metodo riflessivo, che riprende la grande tradizione dello spiritualismo francese, da Descartes a Maine de Biran, all’esperienza vissuta del male e alle aporie che vi sono connesse. È significativo che l’esigenza di tale presa di coscienza da parte del filosofo sia retrodata e inserita nella cornice del Lager. Il male, su cui entrambi gli interlocutori (Ricoeur e Paci) non cesseranno di interrogarsi, non è l’astratto e intellettualistico male morale, e nemmeno l’insondabile e speculativo male metafisico, ma un male storico, di cui vanno facendo tragicamente l’esperienza. Quel male di cui Jean Nabert, in un celebre saggio (Saggio sul male 1955) darà una esatta definizione, parlando dell’ingiustificabile, che risulta tale alla coscienza personale del singolo, e che non è risolubile dialetticamente dal pensiero, come elemento necessario alla attuazione del bene, o in altro modo (tanto meno da una teodicea teologale). All’intellettualismo della filosofia idealistica, che interpreta il male come una violazione della norma razionale, di cui restiamo pur sempre gli autonomi legislatori, Nabert oppone l’esistenza di

un sentimento primitivo dell’ingiustificabile, sentimento di cui ritroviamo alcune tracce in circostanze eccezionali, come quando, ad esempio, delle gravissime sventure si abbattono improvvisamente su un individuo o un popolo. Sono mali, questi, in merito ai quali non riusciamo a comprendere quali siano gli imperativi la cui inadempienza ha provocato tale punizione, tale sanzione. Lo stesso accade quando dei crimini superano abbondantemente la misura di ciò che può essere valutato sulla base di questi stessi imperativi.

Siamo qui nelle vicinanze del male assoluto, del male radicale (così definito da Kant), che deve sapere rinnovare lo stupore e l’inquietudine in ogni singola coscienza.

2. Addentrandosi nella disamina (non sempre di facile comprensione) di tale tematica, Nabert tocca dei punti e utilizza una terminologia che mi sono sembrati estremamente suggestivi, se riportati (con le necessarie mediazioni) alla riflessione sulla memoria dei Giusti, sviluppata in questi anni da Gariwo. Nabert sottolinea innanzitutto lo scarto esistente tra il sentimento della colpa (sentimento dell’ingiustificabile, che emerge al fondo di ogni coscienza, che esamini con scrupolo i propri atti) e ogni tentativo di razionalizzare le scelte compiute, sulla base dell’idea di autonomia dell’agente morale:

L’aver trasgredito un dovere basterebbe a suscitare il rimorso se quest’ultimo non si stagliasse dal fondo del sentimento di una colpevolezza più originaria che i nostri atti determinano, localizzano, risvegliano alla coscienza di sé, ma di cui rivelano per ciò stesso l’essenziale anteriorità (Saggio sul male, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2001, p. 45).

Specialmente nel caso di colpe di cui risulti difficile stabilire la responsabilità individuale e quella collettiva (si rilegga K. Jaspers, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, Cortina, Milano 1996), o di delitti la cui efferatezza o vastità di estensione supera di gran lunga i limiti delle specifiche giuridiche, morali, politiche consuete, la domanda: – come è stato possibile? non trova una risposta sufficiente a sopprimere l’inquietudine e a tranquillizzare la coscienza. È come se, all’agente morale libero e autonomo (di cui parla Kant) si rilevasse oscuramente l’esistenza di una causalità impura, fungente alle spalle del soggetto etico e complice delle tendenze eteronome, di cui ci sforziamo inutilmente di dimostrare l’estraneità all’io, quasi non lo riguardassero:

Condanniamo l’atto, ma esso, in realtà, ci rivela una causalità nei confronti della quale tale condanna non ha presa. Nel fondo del rimorso, scopriremmo che non abbiamo potuto trasgredire il nostro dovere, una volta e un tempo, se non apprendendo, nello stesso momento, che l’abbiamo trasgredito da sempre e in ogni circostanza, e ciò, se non nella nostra condotta esteriore, almeno nei motivi che l’hanno ispirata.

Per spiegare l’esistenza di questa causalità impura, con cui dobbiamo fare i conti specialmente quando analizziamo il male storico, Nabert si rifà a uno schema classico, che contrappone il soggetto agente e i possibili della scelta libera. L’io puro, con cui il soggetto si identifica nella sua intenzionalità, è paragonato al geometra, che sceglie l’ipotesi giusta dopo aver corretto quelle false, con cui era dapprima confusa. In questo processo, concluso dalla decisione libera, le ipotesi false si dissolvono nelle ragioni e per le ragioni tramite le quali si conoscono. Ma il rimorso o la recriminazione di coscienza non ci restituiscono un io trasparente a se stesso di questo tipo. Nel rimorso i possibili, riconosciuti falsi, vengono mantenuti in vita dalla immaginazione, fungendo come motivi alternativi di scelte future. L’io empirico e finito, che sceglie nel tempo, non è mai al sicuro da una segreta complicità con il male.

Nel caso delle scelte personali, ricostruendo le quali ci sforziamo di fornire una narrazione biografica che funga da autogiustificazione di noi stessi, è frequente imbattersi in quegli angoli oscuri della coscienza, in cui motivi inconsci e rimossi si candidano a proporsi come vere motivazioni degli atti compiuti. Scatta allora un meccanismo complesso, in cui ci illudiamo di recuperare una innocenza definitivamente perduta (o forse mai esistita): che cosa sarebbe potuto accadere, se avessimo scelto l’altra possibilità? Sono davvero io ad aver fatto quella scelta? E se tornassi indietro la rifarei? Ecc. –. Nel caso delle vicende storiche, di cui siamo stati protagonisti o semplici spettatori, la ricostruzione risulta ancora più difficile, presentandosi l’agente morale (l’io, o un più problematico noi), travisato nelle maschere che i condizionamenti sociali, i pregiudizi e gli archetipi comportamentali, l’intreccio inestricabile del volontario e dell’involontario, gli forniscono. Qui la credenza nel determinismo naturale (“la storia non si fa con i sé e con i ma” – ammonisce il senso comune) viene facilmente in soccorso di una coscienza pragmatica, interessata principalmente al futuro e bisognosa di giustificazioni e rassicurazioni, che rifugge giustamente dal ripiegamento psicologico sul tempo perduto. Ma quando il labirinto della memoria (e ancor più delle memorie collettive, sempre divise e quasi mai unanimi) viene, per varie contingenze, riattivato, l’assillo morale e l’inquietudine di fronte a un possibile ripetersi di circostanze o situazioni che si credevano definitivamente superate, si riaccendono. Ciò che una volta è stato possibile, perché non dovrebbe ripetersi? Se, nel foro della coscienza personale, il dover essere della norma o della regola per una volta infranta, non era sufficiente a sollevare dal rimorso il singolo, restituendogli una verginità intatta; tanto meno lo sarà un astratto postulato di ordine morale, religioso, ideale o un dover essere di natura politico-ideologica. Di fronte al tribunale della storia, né il colpevole è mai totalmente colpevole (rimanendo aperta, dopo la condanna e l’espiazione, la strada del perdono), né l’innocente è mai totalmente innocente (essendo innumerevoli i peccati di omissione e i gradi di compromissione e di cedimento alla suggestione del male, da cui nessuno può risultare escluso). È come se il verificarsi del male assoluto aprisse una voragine senza fondo, sul cui precipizio si trattiene la coscienza, cercando di immaginare come ci si sarebbe potuti comportare, diversamente da come ci si è di fatto comportati o da come si sono comportati, in circostanze analoghe, gli altri. È stata la virtù o solo il caso e la fortuna, che ci hanno risparmiato certe scelte difficili e tragiche? – Perché due individui apparentemente simili hanno agito, nelle stesse condizioni, in maniera opposta? Qual è il confine che ha impedito al primo di tradire o di farsi delatore delle vittime, e al secondo di sacrificarsi a vantaggio degli altri? E se fossimo stati noi al loro posto, come avremmo scelto? Si può essere innocenti per mancanza di coraggio e colpevoli per eccesso di zelo? Ecc. –.

Da questi dubbi e da questo tormentoso interrogarsi ci salva la nostra buona coscienza, che separa in modo netto i buoni dai cattivi (facendoci rientrare nel novero dei primi). Ma è proprio questa rigida separazione ad essere messa in dubbio da Nabert:

Non appena è introdotta una differenza tra i buoni e i cattivi, viene contemporaneamente meno la radicale uguaglianza data loro da una causalità che deve difendersi da se stessa per non manifestare e amplificare, nel livello dell’esperienza concreta, una caduta originaria attestata dall’irriducibile opposizione tra un’azione totalmente spirituale e le iniziative dell’io (Saggio sul male cit., p. 70).

Di fronte al male compiuto, quando avviene un ritorno riflessivo della coscienza su se stessa, accanto al senso di colpa e al rimorso, può emergere nel malvagio uno stupore per la segreta complicità dell’io con le suggestioni esercitate dal male, di cui proprio la buona coscienza dovrebbe saper trarre insegnamento. Chi può inorgoglirsi del detto: etsi omnes, non ego? Non suona questo detto stonato nelle circostanze banali e quotidiane, in cui viene per lo più asserito? Di fronte al tragico autentico: quello in cui il soggetto non può limitarsi a recitare una parte stereotipata nel theatrum mundi, ma in cui effettivamente la causalità impura dell’io deve fare i conti con “un mondo che si fa costantemente beffa della speranza della giustizia”, chi può assumersi l’onere di giustificare l’ingiustificabile? Non lo si può assumere, se non dopo essersi fatti carico della parte malsana del nostro stesso “caro io” (come lo chiamava Kant). Non è solo l’egoismo, o l’interesse individuale (che può essere presente in misura assai diversa o anche del tutto assente a livello individuale), ma la compiacenza o la preferenza accordata necessariamente a sé rispetto all’altro, ad opporsi a una divisione manichea tra buoni e cattivi, tra quelli che Levi chiamava i sommersi e i salvati.

È ancora Nabert a fornire la corretta chiave di lettura, distinguendo tra una falsa nozione, sostanzialistica o identitaria dell’io, e una nozione veracemente relazionale, che postula una solidarietà originaria delle coscienze, che solo separandosi (l’una dall’altra e ciascuna da se stessa) istituiscono la differenza etica tra bene e male e quella ontologica tra ego e alter, amico e nemico. Possiamo insomma definire il male come risultato di questa secessione delle coscienze: nozione che prende il posto della spiegazione mitica di un peccato originale, all’origine della qualità scadente, della condizione dejetta, di cui fa esperienza l’agire storico dell’uomo:

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, non partiamo mai dall’idea o dalla rappresentazione di una coscienza o di un essere che sarebbe essenzialmente altro da noi e con il quale stringere un rapporto. Le coscienze, grazie al gioco della relazione che si instaura tra loro, imparano reciprocamente non soltanto a differenziarsi l’una dall’altra, ma anche a cogliere il significato delle differenze: quelle che sembravano profonde, grazie alla comunicazione si riducono, si trasformano; le altre, al contrario, si accentuano, e io divento impenetrabile a me stesso a causa di una differenza che fissa i limiti della comunicazione e che scopro solo per il tramite di quest’ultima (Saggio sul male cit., p. 86).

Non è dunque per una separazione ontica delle coscienze, ma per un arresto della prassi comunicativa e relazionale, che si fissano le differenze:

Al limite inferiore della comunicazione, nella interruzione o impoverimento della relazione di reciprocità, inizia a prendere corpo l’idea che l’altro è solo ed esclusivamente un altro.

Proprio perché l’egoismo non è la causa, bensì il risultato di un mancato o incompiuto processo di identificazione nell’altro, resta aperta la via a una reintegrazione della memoria collettiva e alla costruzione di un’etica della testimonianza. Lo spazio che apparteneva allo scambio e al commercio delle coscienze tra loro, spazio frantumato dalla secessione che ha reso impossibile la comunicazione, viene recuperato dalla speranza testimoniata da quegli uomini che riconosciamo come Giusti. Essi non sono buoni in quanto opposti ai malvagi, non sono necessariamente santi od eroi (anche se talvolta possono esserlo), ma sono testimoni (spesso involontari) dell’assoluto. Testimone dell’assoluto è colui che nei suoi atti mostra la possibilità (o anche la non impossibilità) che, quello stesso io impuro, la cui finitezza è sorgente del male, è in grado di arrivare nelle prossimità della giustificazione (salvandosi, ci salva). Il suo agire può parere eccessivo, gratuito, imprevisto: ma si tratterà sempre di un eccesso nella normalità, non di un eccesso contro la norma. Come nel caso del male compiuto, anche per il bene attivamente ricercato, ciò che una volta è stato possibile, lo sarà per sempre. È a questa speranza che si vuole legare la fragile certezza etica che può scaturire da quello “stupore incoercibile” per il negativo a cui richiamava Enzo Paci.

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

18 novembre 2021

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