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Senza la riduzione di disuguaglianze e ingiustizie la retorica commemorativa non ha effetto

di Valentina Pisanty

Pubblichiamo di seguito il contributo di Valentina Pisanty al dibattito su queste pagine sulla Memoria e la sua funzione nel nostro tempo.

“Per non dimenticare” e “Mai più” sono le due formule con cui, da qualche decennio a questa parte, commemoriamo il grande trauma storico della Shoah, il cui ricordo è stato eletto a pietra angolare dell’etica contemporanea, nonché nucleo narrativo attorno al quale raccogliere i pezzi sparsi di un’Europa in cerca di identità. Pochi si soffermano su cosa esattamente non debba ripetersi mai più. Lo sterminio su scala industriale oppure qualsiasi forma di prevaricazione ai danni di una minoranza stigmatizzata? La persecuzione antisemita oppure qualsiasi manifestazione di razzismo? Ancor meno ci si interroga su come dovrebbe avvenire il passaggio – in effetti per nulla scontato – dal “Non dimenticare” al “Mai più”, quasi che l’assolvimento del “dovere della memoria” fosse di per sé il migliore antidoto contro l’eventualità che episodi di violenza collettiva possano ripetersi in futuro. Eppure, nonostante decenni di intense commemorazioni, il razzismo e la xenofobia sono vistosamente aumentati proprio nei paesi in cui le politiche della memoria vengono attuate con maggior vigore. Vogliamo prendere atto che qualcosa non ha funzionato?

Prima di discutere sui modi alternativi di “fare memoria” è indispensabile comprendere le ragioni di questo fallimento. Sono ragioni complesse che difficilmente si riassumono in un paio di cartelle, anche perché spesso dipendono da errori commessi in buona fede. In estrema sintesi, la decisione istituzionale, calata dall’alto, di delegare l’educazione ai valori dell’antirazzismo interamente alla Memoria della Shoah non ha tenuto conto di alcune caratteristiche della memoria in generale, e della Memoria della Shoah in particolare.

Sul primo punto – i limiti della memoria in generale – rimando all’articolo di Stefano Levi Della Torre in questo dossier: siccome la memoria (sia individuale, sia collettiva) è per sua natura fallibile e unilaterale, è inevitabile che la sua ricostruzione dei fatti sia parziale, selettiva, lacunosa e strumentale alle preoccupazioni attuali di chi se ne sente titolare. Di qui la sua intrinseca conflittualità con altre memorie che fanno capo a soggetti diversamente motivati. La memoria condivisa – diceva Claudio Pavone in un’intervista al Corriere della Sera del 2010 – “è un concetto privo di senso. Non c’è niente di più soggettivo della memoria: un ex partigiano e un reduce della Rsi non potranno mai avere la stessa visione del passato.”

Nel caso specifico della Shoah (ovvero del suo racconto filtrato attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, da una parte, e i format dell’industria culturale, dall’altra) le contraddizioni si moltiplicano. L’attuale retorica commemorativa insiste simultaneamente sul carattere “unicamente unico” del genocidio ebraico (solo chi era sa come ci si sentiva, solo chi era lì ha diritto di parlarne) e sulla sua pretesa universalità (la memoria della Shoah è un racconto esemplare in cui chiunque è tenuto a rispecchiarsi). Come ci si può immedesimare nei vissuti delle vittime (“Siamo tutti Anna Frank”) se l’esperienza radicalmente traumatica a cui sono state sottoposte è – per citare Elie Wiesel – “l’evento ultimo, il mistero ultimo che non potrà mai essere compreso o trasmesso”?

Anche ammettendo per un momento che sia possibile far rivivere in sé la sofferenza estrema dei deportati (al netto dell’interpretazione religiosa, dunque necessariamente metastorica e trascendente che ne dà Wiesel), a cosa servirebbe questa forma di identificazione? Che cosa garantisce che l’esposizione al racconto dei testimoni – il cosiddetto trauma secondario – renda la gente più empatica e responsabile nei confronti delle vittime di altre persecuzioni e sopraffazioni? Non si rischia piuttosto di promuovere una tutto sommato facile immedesimazione con la condizione di vittima, e la conseguente incapacità di riconoscersi in altri ruoli meno incensurabili? Per non parlare degli usi surrettizi che possono essere fatti dello schema ormai egemone Vittime vs. Carnefici, di cui chiunque – persino gli ultranazionalisti xenofobi – si può appropriare per rivendicare i privilegi morali associati alla posizione di chi, per definizione, non ha alcuna colpa.

Oltre a incoraggiare la passività di coloro che si identificano d’ufficio con le vittime di una violenza, la dicotomia Vittime vs. Carnefici si dimostra palesemente inadeguata qualora la si sovrapponga a situazioni moralmente ambigue e politicamente complesse, e cioè alla stragrande maggioranza dei contesti in cui capita di imbattersi, dove è raro che tutto il male si concentri in un unico soggetto. Rispetto alle centinaia di migliaia di migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà, alla crisi economica globale, alla crescita di nuovi movimenti xenofobi, al terrorismo internazionale, all’emergenza sanitaria mondiale e alla preoccupazione per una possibile catastrofe ambientale, non è affatto chiara la distribuzione delle parti. Non tanto per assenza di vittime – ce ne sono fin troppe – quanto per la molteplicità e la frammentarietà dei soggetti che, per vie dirette e indirette, contribuiscono, ciascuno a modo suo, al nuovo disordine mondiale: uno scenario distopico di lotta senza quartiere, tutti contro tutti, in cui sembrano prevalere gli individui e i gruppi darwinianamente “adatti”, che di solito coincidono con i soggetti più agguerriti e spregiudicati. The best lack all conviction, while the worst / Are full of passionate intensity, scriveva Yates in una famosa poesia.

Che il male si manifesti in molti modi, anche reciprocamente conflittuali, è cosa nota. L’ideologia del merito ci ha lungamente nascosto una verità che ormai è difficile ignorare: in un mondo ipercompetitivo in cui ogni conflitto è, come si suol dire, win or die, i valori della sopravvivenza economica, biologica, sociale, prevalgono sui valori etici che ci piacerebbe considerare universali. In un simile contesto gli appaltatori dell’odio xenofobo hanno buon gioco a stornare le legittime frustrazioni degli esclusi e degli oppressi su nemici immaginari (immigrati, rom, eccetera). È su questo che occorre intervenire. Con gli strumenti della cultura? Con la riformulazione delle narrative identitarie promosse dall’alto da istituzioni (stato, democrazia, Europa…) di cui per molti non è più da tempo ormai scontata la legittimità? Non solo. Nulla di tutto ciò avrà effetto se non si assume come stella polare la riduzione delle diseguaglianze e delle ingiustizie strutturali da cui l’intolleranza trae linfa.

Temo proprio che a nessuno, nella storia umana, sia, o sia stato, o sarà dato di garantire che qualcosa non avverrà mai più. Il che non significa che non si possa fare nulla. La responsabilità di operare per il bene che si desidera ne risulta al contrario aumentata. Nessuno sforzo sarà mai abbastanza, ma non per questo inutile né vano, per offrire strumenti, informazioni, conoscenze, esperienze, in primo luogo di solidarietà attuale, non virtuale, ai giusti di domani. Se lo saranno o no, poi, dipenderà tutto da loro.

Valentina Pisanty

Analisi di Valentina Pisanty, docente di semiologia presso l'Università di Bergamo

19 ottobre 2020

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