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Shoah: qual è la sua unicità?

di Anna Foa

È noto che fino agli anni Ottanta non si parlava di Shoah, che il genocidio del popolo ebraico non aveva ancora quel nome. Si parlava di “sterminio degli ebrei”, come nella traduzione italiana del libro di Poliakov (opera di Annamaria Levi, la sorella di Primo Levi), e a partire dalla fine degli anni Settanta, dopo la fortunata serie televisiva, di “Olocausto”, termine mai abbandonato in area angloamericana. Il termine Shoah, già usato in Israele dal momento che si tratta di una parola ebraica che significa “distruzione”, “catastrofe”, è stato adottato solo dopo il documentario di Lanzmann, nel 1985, in area italiana e francese principalmente. Questo non vuol dire che la Shoah non avesse storici che la analizzavano, sopravvissuti che ne scrivevano, professori che ammonivano i loro studenti a ricordare ciò che era successo affinché non avesse a ripetersi. Ma l’oggetto Shoah non era ancora totalmente separato dagli orrori di una guerra che aveva coinvolto i civili in maniera mai vista precedentemente. Dico totalmente, perché si aveva ben chiaro che parlarne voleva dire affrontare un discorso molto specifico all’interno di quello sugli orrori della guerra.

E non è nemmeno così vero come è stato detto che la memoria della Shoah è stata nei primi due decenni schiacciata e rimossa dentro quella della guerra e dell’antifascismo. Certo, si parlava di politici e di “razziali”, e si consideravano più importanti coloro che erano stati perseguitati per quello che avevano fatto rispetto a quanti erano stati annientati per quello che erano. Quello che possiamo chiamare il “paradigma vittimologico”, cioè l’esaltazione dell’esser vittima, non si era ancora affermato. Ma questo è sufficiente per elaborare una teoria della cancellazione della memoria? In Italia, per esempio, come ha scritto in un suo libro recente la storica italo-israeliana Manuela Consonni, direttrice del Vidal Sassoon International Centre for the study of Antisemitism di Gerusalemme, la produzione di memorie scritte da ebrei sui campi è stata superiore a quella analoga prodotta negli altri paesi europei. E ancora, la consapevolezza che gli ebrei erano molto più a rischio degli altri ha sempre accompagnato l’occupazione nazista in Italia, stando alle testimonianze dei processi dell’immediato dopoguerra contro fascisti e spie. Il problema era un altro ed era un problema soprattutto identitario: gli ebrei italiani, per esempio, si sentivano antifascisti oltre che ebrei, almeno stando alle fonti, che non sono solo gli scritti di quegli ebrei che si impegnarono nel ricostruire l’Italia, come Terracini o Valiani, ma anche di quelli, come Dante Lattes, che si impegnarono a fondo nel ricostruire il mondo ebraico italiano.

Sì, perché la divaricazione è venuta dopo e io non sono proprio sicura che alla lunga sia stata utile alla politica o alla riflessione identitaria di noi tutti, ebrei o non ebrei. A un certo punto, negli anni Settanta-Ottanta, per una serie di complessi motivi che vanno dalla divisione politica internazionale alla politica israeliana dopo la guerra dei Sei Giorni al dibattito identitario ebraico sviluppatosi in America, allo sviluppo del revisionismo alla Nolte, la Shoah si è costruita come un complesso memoriale a sé, nettamente distinto dal resto delle vicende non solo della guerra ma del resto del Novecento. Se Nolte aveva “banalizzato” lo sterminio degli ebrei dando il primato a Stalin rispetto a Hitler, ora in reazione a queste sue tesi qualunque confronto tra i genocidi del Novecento diventava una banalizzazione. E se gli ebrei rinchiusi nei ghetti nazisti trovavano normale parlare del genocidio degli armeni paragonandolo a quello che stavano vivendo, e si passavano avidamente da leggere il libro di Werfel I quaranta giorni del Musa Dagh (che fra l’altro era a lieto fine), adesso, a posteriori, guai a paragonare la Shoah a un altro genocidio! Il processo di trasformazione dell’unicità della Shoah da criterio interpretativo, in quanto tale da sottoporre a critiche e valutazioni diverse, a dogma fu potentemente aiutato dall’opera di Elie Wiesel e da una concezione affine a quella religiosa della Shoah, che con lui diventava prevalente. Per molto tempo, il confronto tra i genocidi del Novecento divenne difficile, quasi un’eresia. Dall’altra parte, è evidente che un simile atteggiamento non poteva non suscitare la reazione opposta dei negazionisti, che accusavano gli ebrei di giudeo centrismo, o di quanti si davano a confrontare senza farsi problemi eventi incomparabili tra loro, come la Shoah e le foibe, la Shoah e il conflitto israelo-palestinese, la Shoah e la distruzione della foresta amazzonica.

A partire dall’ultimo decennio, tuttavia, qualcosa è cominciato a cambiare e il “dogma” dell’unicità della Shoah ha cominciato non tanto a essere posto sotto accusa quanto a sgretolarsi lentamente. Difficile descrivere esattamente i fattori di questo processo, un processo fra l’altro ancora in fieri. Il bilancio, forse, storiografico e memoriale dei genocidi che hanno costellato il Novecento, insieme al monito che è venuto dall’unico episodio genocidario verificatosi nel secondo dopoguerra in Europa, Srebrenica. Oppure la crescita del discorso sui diritti umani, o piuttosto sulla loro assenza, e sugli interventi umanitari? E la riflessione sulla riconciliazione, importante dopo la fine dell’apartheid e anche in seguito al genocidio del Ruanda, come anche il crescente impegno di Yad Vashem a uscire da un’ottica troppo chiusa e “giudeo centrica”. E perché non menzionare anche la riflessione di Gariwo sui Giusti e la sua estensione a tutti i Giusti, non solo a quelli della Shoah? I convegni, i libri, si succedono e gli interrogativi divengono sempre più ampi, a partire da un punto purtroppo indiscutibile, cioè il fatto che la Shoah non ha arrestato i genocidi, la sua memoria non è bastata, il “mai più” si è rivelato un puro afflato retorico.

Nessuno vuole negare determinati caratteri di specificità della Shoah: per esempio, il fatto che facesse parte di un progetto generale razzista ed eugenetico di sterminio di interi gruppi di esseri umani e del predominio di quella che veniva definita “razza” ariana. E il fatto che a essere oggetto dello sterminio dovevano essere tutti gli ebrei, dal primo all’ultimo, dal più giovane al più vecchio. E l’invenzione dei campi di solo sterminio: Birkenau, Treblinka, e gli altri campi di annientamento. D’altronde, la Shoah è un genocidio alla luce del concetto di genocidio creato dall’ONU ed elaborato da Raphael Lemkin nel 1944 proprio confrontando la Shoah ancora in atto con il genocidio armeno, e come tale può e deve essere analizzata nel confronto con gli altri genocidi del Novecento. E se a distinguere la Shoah come unica sono i campi di annientamento nell’insieme di un mondo costellato a più riprese, dalla fine dell’Ottocento in poi, da un gigantesco sistema concentrazionario, come ha detto recentemente Claudio Vercelli in un suo libro, è anche vero che gli altri genocidi hanno fatto a meno dei campi. Basta questo a considerarli genocidi di serie B? E non era lo sterminio di tutti gli herero, quello di tutti gli armeni, quello di tutti i cambogiani che sapevano leggere e scrivere, quello di tutti gli hutu l’obiettivo, comune alla volontà di distruzione totale di tutti i perpetratori? Il machete del Ruanda ha ucciso più lentamente del gas di Birkenau, anche se il genocidio dei tutsi non è certo stato lento, quasi un milione di morti in pochi mesi. Per non parlare del gulag, pur tanto diverso dal Lager, o della rivoluzione culturale in Cina. Quanti di noi, che hanno plaudito a Mao e visto in quella rivoluzione un movimento straordinario di rinnovamento, hanno fatto ammenda sul serio? C’è davvero tanta differenza rispetto alle folle che applaudivano Hitler?

L’essere la Shoah all’estremo della scala del male, il suo essere perciò un fondamentale, unico, punto di accesso al male, tale da consentire uno sguardo privilegiato sul mondo del terrore, non vuol dire che dobbiamo rinunciare a esercitare questo sguardo su ciò che è successo prima e dopo la Shoah, su ciò che succederà domani o che sta già succedendo oggi. Troppo facile dire “mai più” e pensare “mai più la Shoah”. Certo, mai più la Shoah ma anche mai più genocidi, stermini, violenze di massa contro i civili, quali che siano. Questo non darà certo un senso ai sei milioni di ebrei morti nella Shoah ma lo darà al fatto che noi continuiamo a studiare i meccanismi che l’hanno prodotta e a ricordare.

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