Pubblichiamo di seguito la recensione uscita su Il Messaggero dell'ultimo libro di Gabriele Nissim "Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi" (Rizzoli, 2022) a cura di Vittorio Emanuele Parsi.
Un libro potente e coraggioso, che affronta a viso aperto un nodo etico e concettuale molto importante, che è esplicitato sin dalla prima pagina del volume di Gabriele Nissim:
«Ma il discorso per certi versi “sacro” sull’unicità della Shoah, espressione di un male assoluto che ha colpito soltanto gli ebrei in tutta la storia dell’umanità e ripetuto quasi fosse un dogma da non metter mai in discussione, come se si rischiasse di tradire la memoria di milioni di vittime abbandonate dal mondo, è una trappola o un salvagente?» E, ancora: «Quando si afferma un’idea unilaterale di unicità della condizione ebraica rispetto alla condizione umana, come se fossero mondi totalmente diversi, si rischia (anche con le migliori intenzioni) di separare la Shoah dagli altri genocidi, l’antisemitismo secolare dalle altre forme di odio e di pregiudizio, e si arriva persino a distinguere i giusti che durante le persecuzioni hanno salvato gli ebrei rispetto ai giusti che in situazioni estreme hanno protetto altri esseri umani».
Insegnamento
Quella dei Giusti è stata la preoccupazione di una vita, per Gabriele Nissim, ebreo, fondatore e presidente di Gariwo, che ricerca le figure esemplari dei Giusti di tutto il mondo per preservarne e onorarne la memoria, perché il significato e l’insegnamento della loro azione non vadano dispersi, perduti. Il Giardino dei Giusti che ha costituito a Milano dal 2003 è la testimonianza vivente di questo suo impegno, che lo ha portato a ottenere che sia il parlamento Europeo che quello italiano istituissero la “Giornata dei Giusti dell’Umanità“. In questo libro, toccante e documentatissimo, Nissim ci conduce per mano attraverso il percorso lungo e travagliato, che ha condotto a riconoscere prima la natura genocidaria della Shoah, poi l’introduzione della categoria giuridica dei genocidio da parte dell’Onu.
Nel libro è ricostruita la battaglia di un pugno di uomini affinché tutto ciò divenisse possibile. Innanzitutto quella eroica di Raphael Lemkin, giurista polacco, ebreo, che nel 1941 riuscì rocambolescamente a fuggire dalla Polonia invasa per compiere una missione che lo logorerà lungo l’intera vita: far sì che la memoria del crimine “senza precedenti” commesso dai nazisti non venisse dimenticato o obliterato (come tra le due guerre era già accaduto per il genocidio armeno) e consentire che quella tragedia, appunto senza precedenti, divenisse lo stipite per poter costituire una barriera affinché altri possibili successivi genocidi trovassero un “precedente giuridico” specifico, capace di contenerli, se possibile prevenirli, in ogni caso perseguirli.Nella prima parte del suo libro, Nissim illustra la genesi del concetto di Shoah e la discussione della sua unicità, in particolare modo nel dibattito tra la sua interpretazione religiosa e quella laica dello storico israeliano Yehuda Bauer, il cui concetto di “genocidio senza precedenti” «mette in evidenza come contro gli ebrei sia stato attuato un genocidio con caratteristiche di nuovo tipo, attorno a cui si devono indirizzare gli studi degli storici per analizzare le somiglianze e le differenze con le atrocità del passato».
Annientare
Ancora nelle parole di Nissim, perché «ciò che accomuna il genocidio degli ebrei, degli armeni, dei ruandesi è l’intenzione di annientare un gruppo usando ogni forma di violenza e di brutalità per disumanizzare gli individui destinati allo sterminio. E questa è la continuità. Ciò che invece rappresenta un non precedente nella storia dei genocidi è che la Shoah è stato un genocidio con caratteristiche universali, perché i nazisti non si proponevano di eliminare gli ebrei all’intemo di un unico territorio, come, per esempio, è avvenuto per gli armeni, ma di procedere nella soluzione finale in ogni parte del mondo».
Un libro che costringe a riflettere, che sfida molte letture convenzionali, ma che soprattutto ci ricorda, appunto, che, “Auschwitz non finisce mai”, e che capirlo è il miglior modo per rendere onore alla Shoah e fame componente viva della cultura politica condivisa delle nostre e delle future generazioni.

Analisi di Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano