Riprendiamo integralmente la nota critica di Erminio Maglione (Segreteria scientifica e ricercatore senior presso l'Università Salute-Vita San Raffaele di Milano) al libro "Auschwitz non finisce mai", scritto dal Presidente della Fondazione Gariwo Gabriele Nissim e pubblicato da Rizzoli nel 2022. La nota critica di Erminio Maglione è stata pubblicata nell'ultima edizione del "Giornale Critico di Storia delle Idee", rivista filosofica internazionale fondata nel 2009 da Andrea Tagliapietra e Sebastiano Ghisu.
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Non sperare la Repubblica di Platone, ma accontentati se una cosa piccolissima progredisce, e pensa che questo risultato non è poi così piccolo. (Marco Aurelio, Ricordi)
1. Le aporie della memoria
È possibile agire efficacemente per la prevenzione dei genocidi e, questione parimenti fondamentale, si possono spingere le istituzioni a riflettere e operare in vista di un nuovo codice morale riguardante questa materia? È possibile combattere la genesi del male attraverso singole condotte di vita efficaci sia nella quotidianità che sulla scena pubblica? Esistono degli esempi concreti in grado di innescare un fenomeno di emulazione costruttiva, affrancando chi ne metabolizza l’insegnamento dall’indifferenza e dall’apatia di giudizio? A queste e ad altre domande cruciali per il nostro presente tenta di rispondere, con profondità storica e competenza filosofica, il recente saggio di Gabriele Nissim, Auschwitz non finisce mai. La memoria della Shoah e i nuovi genocidi (Rizzoli, Milano 2022), vero e proprio manifesto intellettuale che riassume i principi della Fondazione “Gariwo. La Foresta dei Giusti”, con sede a Milano.
Questo progetto culturale – chiaramente esplicitato dall’acronimo della Fondazione, che sta per Gardens of the Righteous Worldwide – inizia alla fine degli anni ’90 e si pone come obiettivo quello di rendere noti, attraverso la costruzione di Giardini dei Giusti in tutto il mondo, gli esempi di quanti, mettendo a rischio la propria vita e i propri affetti, hanno avuto il coraggio di proteggere i valori umani di fronte alle ingiustizie della storia e all’indifferenza di coloro che, pur testimoni di soprusi e violenze, scelsero di non vedere, finendo per colludere silenziosamente con il male che veniva compiuto.
Parlando del Giusto, dell’uomo che sceglie il bene, ci si riferisce al celebre passo del Talmud di Babilonia “chi salva una vita salva il mondo intero”, luogo che servì d’ispirazione per creare il riconoscimento dei “Giusti tra le Nazioni” accolti nel Giardino di Yad Vashem, dedicato da Moshe Bejski a coloro che salvarono gli ebrei durante gli anni della barbarie nazista. Gariwo, forte di questa eredità, ha intrapreso l’ambiziosa missione di estendere la memoria della Shoah, allargando il suo campo di ricerca a tutti i casi di persecuzione, in un’ottica educativa e di prevenzione contro ogni tipologia di genocidio, evitando qualsiasi discriminazione ideologica. È questo quello che Nissim definisce evocativamente il «metodo Gariwo», improntato alla trasmissione della conoscenza e allo sviluppo dell’empatia come presupposto per un impegno attivo, che vede i Giardini come strumenti culturali che incarnano i principi di due fondamentali risoluzioni approvate dall’ONU nel dicembre del 1948: la Convenzione per la prevenzione dei genocidi proposta da Raphael Lemkin, la cui filosofia è l’indiscusso leitmotiv di Auschwitz non finisce mai, e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo promossa da Eleonor Roosevelt durante gli anni della presidenza Truman.
I rivoluzionari comandamenti morali propugnati da questi due documenti – l’interdizione di ogni forma di genocidio e la protezione della persona nelle sue diverse espressioni – non sono però ancora entrati attivamente nel dibattito delle società, non trovando così un luogo fisico dove poter essere valorizzati e diffusi. Colmare questo vulnus culturale, la cui dimensione sociopolitica è indiscussa, è l’obiettivo che si propongono i Giardini dei Gusti concepiti, in primo luogo, come «un tempio civico, una sorta di agorà permanente nei vari paesi, che sprona le società a farsi parte attiva nell’ applicazione delle due risoluzioni dell’ONU».
È qui chiaramente in gioco la questione del “senso” della memoria e delle sue modalità di esercizio, a partire soprattutto dalla tragedia della Shoah rispetto alla quale, di primo acchito, sembrerebbe impossibile cadere in un conflitto d’interpretazioni. In realtà, riflette Nissim, è proprio nel cuore di ciò che all’apparenza pare più pacifico che si nascondono le “trappole” più insidiose. Insistere infatti ossessivamente sul carattere di “unicità” della Shoah, ovvero sulla sua irripetibilità ed esclusività nel panorama storico mondiale, rischia di spalancare una profonda divisone fra gli ebrei e il resto dell’umanità. Coltivando, insomma, un’idea unilaterale della condizione ebraica rispetto a quella di tutti gli altri esseri umani, prende corpo e si alimenta il grave rischio di separare l’Olocausto da tutti gli altri genocidi.
Ulteriore interesse della trattazione di Nissim, oltre all’approccio ermeneutico capace di tratteggiare una visione d’insieme al contempo chiara e articolata, è il costante richiamo alla propria esperienza personale e ai ricordi attraverso cui, l’ordito della narrazione, si muove fondendo il piano della singolarità incarnata con quello del flusso degli eventi storici. È così che una conversazione con lo scrittore dalmata Enzo Bettiza, tenutasi a metà degli anni ’90 in occasione della presentazione del volume Ebrei invisibili, contribuisce a delineare l’argomento secondo cui attribuire alla Shoah il carattere dell’unicità, intendendola come principio e fine del male assoluto, rischiava di porre in secondo piano tutte le tragedie passate, evitando di conferire il giusto risalto ai crimini contemporanei.
Di questo avviso era d’altronde già George Steiner che, in occasione di un simposio organizzato dalla rivista «Judaism» a New York nel 1967, reputava inadeguato presentare la memoria ebraica come una narrazione esclusiva. Secondo lui, l’autentico ruolo dell’ebreo doveva esser quello di farsi testimone di tutti i crimini che mostrano anche il più flebile rapporto con l’Olocausto, evitando di operare ulteriori distinzioni. Il privilegio dei sopravvissuti ai lager risultava allora uno solo: «la nostra differenza è che proclamiamo che non c’è differenza tra gli esseri umani». Se si rivive la memoria dell’Olocausto “ritualizzandola”, al solo fine di testimoniare il saldo radicamento nella tradizione, si cade in un parossismo identitario che non permette di ragionare con l’adeguato distacco sui meccanismi che, sul piano generale, portano alla progettazione e all’esecuzione di un genocidio.
Innalzare mura invalicabili attorno alla memoria, trasformandola in un «ghetto impermeabile ad ogni forma di contaminazione», porta con sé esiti paradossali come in primis quello d’indebolire la lotta all’antisemitismo e quello di creare una differenza insuperabile fra l’esperienza ebraica e quella del resto dei popoli. Detto altrimenti, il problema cruciale è quello che la questione ebraica non venga compresa e affrontata sul piano della responsabilità universale, riguardante appunto l’umanità nel suo complesso, ma che si trasformi in un problema identitario di cui gli ebrei sono gli unici detentori. È questa la tesi che innerva l’intero libro e che ne rappresenta, per così dire, la “bussola filosofica”, l’orientamento fondamentale:
Preferisco definire la Shoah non come un male unico in tutta la storia umana, ma come un genocidio senza precedenti […], che si può ripetere, se non nella sua totalità, in tanti aspetti parziali che gli assomigliano. Comparare la Shoah non significa diminuire la sua portata sconvolgente, ma trasformarla nel monito più terribile per il futuro dell’umanità. (G. Nissim, Auschwitz non finisce mai, p. 17).
In queste righe troviamo condensate, in un bilanciamento perfetto, le letture dello storico israeliano Yehuda Bauer e di Simone Veil, figura di spicco della politica francese e presidente del Parlamento europeo (1979-1982). Il primo, nell’ambito della sua critica alla lezione identitaria della Shoah, parlò di quest’ultima precisamente come di un “genocidio senza precedenti”, mettendo in discussione tutte quelle operazioni che tendono a proiettare lo sterminio in una dimensione extrastorica, senza porlo storicamente in relazione con i genocidi precedenti e successivi, provocando così un effetto di deresponsabilizzazione che, oltre a riguardare gli attori coinvolti, ricade anche sugli “eredi”, su coloro che dovranno occuparsi di comprendere e ricostruire ciò che è accaduto. La necessità del metodo comparativo, caldeggiato da Nissim sulla scorta di Bauer, si fa ancora più urgente nel momento in cui si considera il fatto che, parlare di “unicità”, significa tacciare d’irripetibilità la Shoah e, contemporaneamente, postulare la sua destinalità ovvero la sua inevitabilità in quanto opera di una forza trascendente (divina o demoniaca che sia).
Come per Bauer, anche per Simone Veil lo sterminio mantiene una dimensione specifica e universale, considerando il destino ebraico inseparabile da quello dell’umanità e l’orrore dell’Olocausto come un evento capace di metterci in guardia per prevenire tragedie analoghe: «Poiché apparteniamo a una minoranza eternamente perseguitata e discriminata, noi ebrei dobbiamo essere al fianco di tutte le minoranze e in nome dei valori umanisti dobbiamo difenderle ogni volta che i loro diritti sono violati». La grandezza di questa vocazione fu tale da riempire un’intera vita e testimonianza ne è la sua protesta, in occasione della visita a Bergen- Belsen nel 1980 in qualità di presidente del Parlamento Europeo, per il mancato riconoscimento ufficiale delle decine di migliaia di rom e sinti trucidati nei campi. Ai suoi occhi questo, a maggior ragione in quanto sopravvissuta ebrea al lager, risultava inaccettabile, come parimenti irricevibile risultava l’incapacità dimostrata dalla comunità internazionale nel prevenire episodi genocidari in zone come il Darfur, la Cambogia o il Ruanda, elemento che non mancò di ricordare il 29 gennaio 2007 nel suo discorso all’ONU per la giornata dedicata alle vittime dell’Olocausto.
Al fine di approfondire i motivi strutturali che portano ad interpretazioni esclusivistiche, Auschwitz non finisce mai opta per un procedimento genealogico per individuare la genesi del concetto di unicità della Shoah. Partendo da un’interpretazione identitaria di quest’ultima, è infatti facile formulare interpretazioni che tendono a spostare la dinamica dello sterminio fuori dalla storia e, dunque, dalla comprensione umana, ricorrendo a spiegazioni teologico-religiose che alimentano pericolosamente quelle aporie della memoria di cui si è parlato.
2. Yehuda Bauer e le letture metafisiche della Shoah
Il simposio newyorkese, a ridosso della Guerra dei sei giorni, a cui partecipò George Steiner assieme ad altri grandi intellettuali ebrei come Emil Fackenheim, Richard Popkin ed Elie Wiesel, è il luogo in cui si costruirono le basi teoriche della tesi esclusivista sulla Shoah. Finalità del dibattito non fu infatti quella di fornire un’interpretazione storiografica del fenomeno ma, al contrario, quella di costruire un’etica identitaria per il popolo ebraico emerso dal trauma dello sterminio. Fackenheim e Wiesel, entrambi sopravvissuti al dramma concentrazionario, concordano nel definire l’Olocausto come l’unico evento nella storia dell’umanità che non possa essere spiegato né compreso, in quanto impossibile da sussumere sotto le categorie della ragione e incomparabile con altri eventi sul piano storico. Per questi autori, insomma, la Shoah rappresenterebbe una sorta di punto di non ritorno che la comunità ebraica non dovrà smettere di meditare, senza avere però la presunzione di penetrarne l’oscuro mistero. Questo carattere d’impenetrabilità è rinvenibile anche nelle aspre parole di Primo Levi, quando afferma che:
Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. […] Nell’odio nazista non c’è una razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori e oltre il fascismo stesso. (P. Levi, Se questo è un uomo, p. 347).
La resa personale di Wiesel di fronte alla realtà dello sterminio non tarda però a tingersi, diversamente dalla posizione laica di Levi, di una tonalità marcatamente teologica: «l’Olocausto non può essere descritto, non può essere comunicato, è inspiegabile. Per me è un evento mistico. Ho quasi la sensazione di peccare quando ne parlo». L’impossibilità di penetrare il mistero delle camere a gas starebbe, per Fackenheim, il cui discorso vale da contrappunto a quello di Wiesel, nel non avere nessuno scopo, se non l’esercizio del male fine a se stesso:
Sono sicuro che quando i belgi hanno invaso il Congo e hanno assassinato i congolesi lo hanno fatto per degli “obiettivi razionali”, quali il potere e la ricchezza. In breve, questi mali sono mali, ma dei mali confortevoli, perché li possiamo comprendere, ma quando Eichmann ha inviato i treni dello sterminio ad Auschwitz, anche se erano stati sottratti a dei compiti militari, si è compiuta l’assurdità più radicale di cui parlo. È il male per il male, non per il guadagno, il potere o il piacere. (E. Fackenheim, Jewish Values in the Post-Holocaust Future: A Symposium, p. 290).
Ancora una volta però, la differenza con il punto di vista di Levi è ben definita: se infatti quest’ultimo sembra sostenere che si può comprendere solo la violenza orientata rispetto ad uno scopo – quella “confortevole”, per usare il termine provocatorio di Fackenheim –, d’altra parte ciò non deve distrarre l’umanità dal tentativo di comprendere la genesi di questo stesso male, al fine di attuare efficaci politiche preventive. Se pure infatti, spiega Levi, l’Olocausto rimanesse incomprensibile sin nei suoi moventi più riposti, comunque:
Possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. (P. Levi, Se questo è un uomo, p. 347).
È esattamente in questo punto che la lettura di Wiesel-Fackenheim e quella di Levi si biforcano, divergendo: se infatti quest’ultimo «era prima uomo e poi ebreo, come mi sento anch’io», spiega Nissim, proprio perché credeva che la Shoah riguardasse tutti gli uomini, nel caso della lettura esclusivista, essa diviene un imperativo morale rivolto ai soli ebrei affinché non dimentichino la loro identità e, dunque, rimarchino la loro differenza. L’Olocausto diviene così una sorta di crudele monito sul miraggio dell’assimilazione a cui molti ebrei credettero, facendoli trovare impreparati nel momento in cui Hitler salì al potere. Sulla base di ciò, l’immane sofferenza di un popolo si trasforma in motivo di orgoglio e le vittime diventano eroi.
La portata della Shoah assume una dimensione epocale perché informa tutta la storia successiva, orientando il futuro dell’umanità a venire – essa rappresenta «il più grande avvenimento del nostro tempo. […] Forse dovrebbe essere questo il compito degli educatori e dei filosofi ebrei: riaprire l’evento come motivo di orgoglio, riportarlo nella nostra storia». La sofferenza diviene così un vettore messianico che vede gli ebrei come l’unico popolo eletto in grado di salvare l’umanità da nuove catastrofi. È però questa «una lettura irrazionale che porterà a una visione religiosa della Shoah e che ne farà la vicenda rivelatrice di un destino unico nella storia universale». L’impianto di questo messianismo identitario, tra l’altro, risulta debole anche perché il mistero dello sterminio, dapprima giudicato inconoscibile alla ragione, ad un tratto paradossalmente si dirada, senza lasciar traccia, nel momento in cui si vede in esso uno scopo conferito eteronomamente dall’interpretazione teologica. Così, invece d’intendere lo sterminio come un’occasione drammatica quanto istruttiva per indagare i meccanismi che portano ad un genocidio, gli si conferisce una finalità escatologica, giungendo alla strumentalizzazione delle vittime. Il sacrificio degli ebrei, in altre parole, viene inteso ex post come un passaggio teleologico verso la preservazione della loro identità storica e il ritorno nella terra promessa: la morte degli ebrei nei lager diviene la causa prima della rinascita d’Israele.
Naturalmente, in questa lettura religiosa dell’Olocausto, preservare l’onnipotenza di Dio in modo da giustificarne l’operato, diviene un elemento strutturale dell’impianto metafisico. Come è possibile che Dio abbia permesso una simile tragedia senza intervenire? Il motivo è che essa è stata causata proprio da coloro che ne furono vittime, a causa dei loro peccati, del mancato rigore nell’osservanza dei precetti religiosi. Per quanto possa sembrare assurda una simile argomentazione, gli ebrei sarebbero stati puniti da Dio, per fornire solo qualche esempio “classico”, a causa della loro ansia di assimilazione, per essersi fatti sedurre dagli ideali del socialismo propugnato dal movimento bundista, per aver perseguito un’identità laica rigettando il canone dell’ortodossia. Questo disconoscimento della tradizione avrebbe scatenato la punizione di Dio che, come già era avvenuto in altre occasioni, si era servito di un esercito straniero per infliggerla. Ecco che Hitler, indossata la maschera di Nabucodonosor, giunge per castigare il popolo renitente alla Legge.
Su questo solco dovette muoversi la riflessione di Yitzhak HaLevi Herzog, rabbino capo della Palestina che, il 30 novembre 1942 – ironicamente due mesi prima della conferenza di Wannsee indetta da Reinhard Heydrich per definire l’Endlösung der Judenfrage –, nel corso di un’assemblea generale della comunità (yishuv), sostenne che il genocidio era stato causato dalla condotta peccaminosa del popolo ebraico. Il rabbino però non era il solo a pensarla così; della stessa opinione erano infatti anche Yosef Yitzchok Schneersohn e Menachem Mendel Schneersohn, figure carismatiche del movimento hasidico Chabad, una formazione religiosa dalla vocazione messianica che, attraverso una fitta opera di proselitismo, si proponeva di rieducare radicalmente, nel segno di una verità nuova e più pura, l’intero ebraismo. Trasferitosi agli inizi degli anni ’40 negli USA, Yosef Yitzchok era certo che lo sterminio in corso fosse conseguenza del tradimento dell’ortodossia e profetizzò addirittura che la vendetta divina avrebbe coinvolto gli stessi Stati Uniti, che presto sarebbero stati sconfitti dai nazisti.
D’altra parte però, come spesso accade in questo tipo di costruzioni a centratura messianica, tale apocalisse non era altro che il segno imminente della venuta del Messia, che si sarebbe palesato una volta compiuto il ritorno degli ebrei nell’alveo della tradizione. All’interno di questo progetto di redenzione finale, il movimento Chabad – celebre anche come Lubavitch, dal nome del villaggio a cavaliere fra Russia e Bielorussia dove inizialmente si radicò –, sarebbe stato il motore del rinnovamento spirituale. Come sostenne infatti a sua volta il secondo degli Schneersohn, Menachem Mendel, la punizione di Dio non andava intesa biecamente come una vendetta ma come uno strumento di correzione, utilizzando per esprimere questa funzione il termine ebraico Tikkun, che starebbe appunto per “raddrizzare”, “riportare sulla retta via”, e che il rabbino sceglie proprio per spiegare l’opera di redenzione intrapresa da Dio nei confronti del popolo prediletto.
Da questa, e da analoghe interpretazioni religiose, cercò di prendere criticamente le distanze, come accennavamo, il lavoro di Yehuda Bauer, il cui merito fu quello di concentrarsi sulla comparazione fra i genocidi e sulla comprensione delle dinamiche che portano gli uomini a trasformarsi in carnefici. L’importanza del metodo comparativo, applicato innovativamente dallo storico israeliano, sta nell’essere un antidoto decisivo nei confronti di quell’insidioso gesto ideologico che tende a porre in un rapporto di concorrenza le diverse memorie. Questo atteggiamento rappresenta infatti un’inquietante forma di negazionismo poiché presuppone l’operabilità di una distinzione “qualitativa” fra le vittime, privilegiandone alcune a scapito di altre, in un procedimento verticalizzato in cui la loro presunta maggiore o minore “significatività” è destinata ad orientare le direttrici della memoria. Secondo Francesco Cataluccio, infatti, «mettere in discussione l’unicità dell’Olocausto non significa affatto sminuire la sua tragica portata. Lo fanno gli antisemiti odierni o i nazionalisti che vogliono occultare le complicità del proprio paese o pretendere una sorta di ridicolo primato delle vittime». Su questo punto il giudizio di Bauer non potrebbe essere più netto:
Non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei tutsi, dei pequot indiani, dei russi, dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che si sia trovato in un omicidio di massa genocidario. Non esiste una gradazione nella sofferenza […]. L’idea di competizione sul vittimismo non è solo ripugnante, ma anche totalmente illogica. (Y. Bauer, The Jews: A Contrary People, p. 167).
Completa il quadro delle ipotesi di lavoro baueriane, l’enfasi posta sul ruolo della responsabilità nell’ambito delle azioni genocidarie. Indagare le motivazioni personali e ideologiche che spinsero a macchiarsi di crimini efferati uomini dalle vite apparentemente convenzionali, nella maggior parte dei casi decisamente banali – ciò che colpì Hannah Arendt durante il processo all’SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann, organizzatore dei convogli che deportarono milioni di persone verso i campi di sterminio, fu la sua mancanza di «ferme convinzioni ideologiche o di specifiche motivazioni malvage» –, assume un ruolo di primo piano nell’analisi della “mentalità” e dei «modelli cognitivi condivisi» che possono portare all’attuazione di un genocidio. È questo il motivo per cui Bauer guardò con una certa insoddisfazione alla pur monumentale opera che Raul Hilberg dedicò nel ’61 allo sterminio degli ebrei europei, facendo vasto uso delle fonti emerse nel corso del processo di Norimberga. Il libro analizzava minuziosamente il lavoro della burocrazia tedesca e le relative procedure volte all’attuazione della “soluzione finale”, lasciando però insoluta la domanda sulle motivazioni che spinsero i tedeschi ad attuare il loro sanguinario progetto – «La sua opera ruota attorno alla questione del “come”, ma non affronta mai la domanda fondamentale: perché?».
La finalità è dunque quella di evitare la deresponsabilizzazione di coloro che parteciparono agli orrori della Shoah, concentrando l’attenzione sull’istanza della scelta individuale e sulla capacità sempre presente di assentire o meno all’esecuzione di un crimine. Tale presupposto, che potrebbe sembrare quasi scontato per gli studiosi contemporanei, è invece centrale per comprendere che l’Olocausto, come ogni altro genocidio, può e deve essere compreso a partire dalle decisioni degli uomini coinvolti, al contrario, impostando il discorso in chiave identitaria e religiosa, come accade imboccando la “via metafisica”, non è possibile operare un’adeguata storicizzazione dei fenomeni, escludendo a priori una loro puntuale comprensione. La stessa convinzione orienta il lavoro di Nissim che, quasi a complemento del discorso baueriano, conclude:
Non esiste un determinismo nella storia che possa rendere gli uomini succubi e passivi di fronte a simili tragedie, così come non c’è nulla di misterioso e di incomprensibile nella Shoah. La ragione umana e l’analisi storica ci permettono quindi di indagare a fondo i comportamenti umani non solo per comprendere i genocidi, ma anche per prevenirli. (G. Nissim, Auschwitz non finisce mai, pp. 68-69).
3. Spinoza, Lemkin e la prevenzione dei genocidi
Giunti a quest’altezza del discorso, di particolare originalità è l’utilizzo che Nissim fa della filosofia per sostenere le sue tesi. Tale procedimento connota l’intero saggio e, cosa che riteniamo dirimente, l’utilizzo del concetto filosofico non ha mai una funzione meramente esplicativa, come fosse una sorta di esemplificazione dotta di quanto si va esponendo, ma al contrario rappresenta un elemento metaforico che si fonde, senza soluzione di continuità, con l’argomentazione saggistica, conferendo a quest’ultima la densità di un’esposizione che travalica il piano puramente analitico-descrittivo, per dialogare direttamente con quello simbolico-culturale tipico delle “forme dello spirito umano”, per utilizzare la grammatica cassireriana – d’altra parte, come suggerisce esplicitamente la lingua greca, l’essenza della metafora starebbe proprio in questo suo metaphérein, nella sua capacità di “trasferire”, di spostare, il senso da un piano all’altro.
Ora, testimonianza di questo movimento che, dal piano descrittivo arriva ad attingere quello universale proprio della filosofia, che parla di ciò che l’uomo è e che potrebbe essere, è l’applicazione del pensiero spinoziano alla questione della prevenzione dei genocidi. Infatti, come spiega Nissim, «la concezione del conatus di Spinoza ci permette di ragionare sulle pratiche della memoria», chiarendone meglio il valore che rivestono per l’esistenza umana. Per far ciò, occorre partire da una delle nozioni cardine della metafisica spinoziana ovvero da quello sforzo di conservazione e di autodifesa che connota il vivere di tutti gli uomini che il filosofo olandese chiama conatus. Celebre è infatti la definizione di questa puntuazione di potenza che riguarda ogni cosa in natura e che, sul piano generale, esprime la “capacità di agire” di tutti gli esseri: «Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere […] e si oppone a tutto ciò che può togliere la sua esistenza» (Ethica, III, 6).
Il presupposto è che l’uomo sia intrinsecamente portato a ricercare l’accrescimento della propria potenza, elemento questo che, tra l’altro, rende Spinoza molto prossimo a talune posizioni nietzscheane; tutti infatti cerchiamo di coltivare le nostre vite nella maniera migliore, sviluppando quelle capacità in grado di valorizzare i nostri talenti, individuando i mezzi più consoni per ottenere salute e felicità. Per raggiungere questi obiettivi, Spinoza individua due strategie principali: concentrarsi esclusivamente su se stessi, considerando gli altri, nel caso migliore, degli impedimenti all’esercizio della propria potenza o, nell’ipotesi peggiore, meri strumenti da impiegare all’occorrenza, oppure, e questa ovviamente l’opzione più vantaggiosa, instituire una cooperazione con l’altro in vista della preservazione dell’umanità.
L’idea alla base di Auschwitz non finisce mai è infatti che la cura di sé – o l’accrescimento della propria potenza – sia inestricabilmente legata a quella degli altri e che quindi, coltivare scientemente la memoria, significhi lavorare con assiduità alla prevenzione di ogni forma di violenza e sopraffazione, immaginando l’umanità come inscritta all’interno di un destino comune. Questa forma di “agire cooperativo”, finalizzato al bene comune, emergerebbe con chiarezza dalle pagine spinoziane:
Non vi è nulla dunque di più utile all’uomo che l’uomo stesso; nulla dico gli uomini possono desiderare di più efficace per la conservazione del proprio essere quanto che tutti concordino su tutte le cose in modo tale che le menti e i corpi di tutti compongano quasi una sola mente e un solo corpo; e tutti, simultaneamente, si sforzino, per quanto possono, di conservare il proprio essere; e tutti, simultaneamente, cerchino per sé l’utile comune di tutti. (B. Spinoza, Etica, IV, 18, Scolio).
Comprendere però che è possibile realizzare il proprio utile di concerto con gli altri non è un pensiero d’immediato accesso; esso è al contrario appannaggio di quegli uomini saggi che operano attraverso l’uso della ragione e che si fanno guidare dalle idee adeguate, intrinsecamente vere – non a caso, coloro che cercano il proprio utile secondo ragione, continua il passo sopra citato, «sono giusti, onesti e fedeli». È possibile, dunque, per un normale individuo trasformarsi in un uomo virtuoso nel momento in cui si adopera per il bene dell’umanità, facendo coincidere perfettamente il proprio utile con quello degli altri.
Non basta però che un singolo agisca seguendo questo pur arduo percorso, cosa che lo renderebbe tutt’al più una sorta di eroe solitario; l’uomo veramente giusto deve puntare infatti all’educazione degli altri esseri umani, aiutandoli a comprendere che il proprio utile può corrispondere a quello dell’intera umanità, stimolando in loro una consapevolezza universale che li porti ad agire virtuosamente. Il Giusto agirà secondo questa idea coscio della sua funzione “regolativa”, intendendola alla stregua di un fine ideale difficilmente raggiungibile. Partendo allora dal presupposto che un retto agire possa stimolare un processo di emulazione in chi ne viene a conoscenza, l’esempio personale diviene una delle possibili vie per tentare di attuare questo “salto” dal particolare – l’egoità solitaria – all’universale, l’utile di tutti.
Se infatti un individuo che pratica una buona condotta vedrà altri che si muovono nella medesima direzione, ciò ne rafforzerà la possibilità di agire, spronandolo a fare meglio e a coinvolgere altri nello stesso cammino – «Il bene che l’uomo desidera per sé e ama, lo amerà con maggiore costanza se vede che anche altri lo amano; e perciò si sforzerà affinché altri lo amino […] e farà di tutto perché tutti ne godano» (Etica, IV,), scrive Spinoza. Compito dei Giusti allora è alimentare con l’esempio e l’azione la forza attrattiva del bene, in modo che tutti possano sviluppare le proprie possibilità, contrapponendosi al potere delle ideologie contemporanee che, come afferma Andrea Tagliapietra, estranee all’«esperienza vivente della compassione» dei Giusti, «fanno leva sul dispositivo spettacolare che è in grado di mobilitare emotivamente masse di spettatori, anestetizzando al contempo la capacità di reazione dei singoli, schermandoli».
Nissim auspica che un giorno, facendo debitamente tesoro di quest’insegnamento, la questione di un’alleanza internazionale finalizzata alla prevenzione dei genocidi possa essere percepita con urgenza anche a livello globale. Attualmente, infatti, la consapevolezza che si possa perseguire l’utile dei popoli, proprio a partire da una relazione dialetticamente intesa fra le memorie, valorizzate nella loro specificità irripetibile, è ancora lontana dal giungere a maturazione. È come se, con le parole di Edgar Morin, «[fossimo] entrati nella crisi dell’umanità senza accedere all’Umanità; […] non si vede l’insieme, tutt’al più si vedono alcuni frammenti del grande problema». Rimane questo un compito per il futuro, che gli uomini del XXI secolo e le generazioni a venire dovranno saper cogliere in tutta la sua complessità:
Bisognerebbe che gli intellettuali della memoria possano insegnare ai popoli, traumatizzati dalle proprie tragedie particolari, a comparare le loro esperienze con quelle degli altri, perché è soltanto attraverso questo esercizio spirituale che chi ha subito le conseguenze di uno sterminio […] può costruire una solidarietà con gli altri e trovare una motivazione per un obbiettivo comune: il “mai più” per il mondo intero.
Diventare “intellettuali della memoria” significa imparare ad esercitare, dalla propria condizione particolare, la facoltà del ricordo articolandola attraverso il doppio movimento della comparazione e dell’universalizzazione, nella consapevolezza che, al fine di perseguire il conatus collettivo, ogni progresso sulla scena pubblica, anche quello più apparentemente irrilevante, può contribuire a salvare delle vite e ad immaginare un futuro in cui il diritto al ricordo e alla giustizia procedano di pari passo.
Campione di questo peculiare tipo di “esercizio spirituale”, tutto immanente al darsi storico dell’esistenza e al vivere in comune degli esseri umani, fu il giurista ebreo-polacco Raphael Lemkin, figura pressoché sconosciuta al pubblico italiano e che meriterebbe maggiore attenzione anche dal punto di vista della ricerca accademica. Egli fu uno di quei pochi che, probabilmente in maniera inconsapevole, seppe praticare l’insegnamento di Spinoza, comprendendo che la memoria del singolo accresce la propria potenza se sa porsi in ascolto delle altre memorie, nel tentativo di preservare dalla minaccia e dalla sopraffazione le minoranze e i popoli perseguitati.
Questa attenzione all’esempio nella vita quotidiana, all’idea che si fa azione, lo avvicina ai filosofi stoici e, per questo, a Primo Levi, che non si stancò mai di sottolineare l’importanza di un continuo lavoro educativo incentrato sulla prevenzione. Lemkin era fermamente persuaso che la memoria potesse avere una funzione di pungolo per la coscienza – amò Socrate «perché stimolava, attraverso la maieutica, la saggezza nella mente dei suoi allievi» – e che dunque, essere un “intellettuale della memoria”, non significasse trincerarsi nella sola ricerca teorica ma anzi, proprio a partire da questa, operare in favore dei diritti umani.
Esempio tangibile di questo approccio fu la monumentale opera Axis Rule in Occupied Europe (1944) che esponeva meticolosamente la legislazione antisemita in vigore nei territori occupati per comprendere praticamente, attraverso l’effettualità del fatto giuridico, metodi e modalità della persecuzione ebraica. Il testo, importante perché mise in luce la tentacolare macchina legislativa attraverso cui la NSDAP applicava la sua politica criminale – anticipando così di gran lunga il dibattito degli anni ’80 fra funzionalisti e intenzionalisti –, assume una rilevanza ancora maggiore se si pone mente al fatto che introdusse un concetto allora sconosciuto ma che avrebbe in seguito guadagnato una eco mondiale, quello di “genocidio”.
Con quest’ultimo Lemkin, enfatizzando il carattere premeditato e dinamico dell’atto, volle indicare la distruzione fisica e culturale di una minoranza, riferendosi quindi non soltanto allo sterminio degli ebrei ma creando una sintesi concettuale che contemplasse tutti gli atti di barbarie. A tale scopo, pensò che creare un ibrido greco-latino fosse la soluzione ideale: testimoniando una volta di più la sua passione per i classici della filosofia greca, mutuò il temine genos dalla settima epistola di Platone, preferendolo al latino genus, poiché non voleva semplicemente riferirsi a una stirpe o a una discendenza ma ad una complessità simbolica che rendesse conto olisticamente sia del piano filosofico e che di quello sociopolitico. Il motivo per cui scelse il latino per il secondo termine, cidio (da caedere: uccidere), sta proprio nel non voler designare la “semplice” distruzione fisica di un gruppo umano ma l’atto, prolungato e lucidamente progettato, dell’epurazione di una composita realtà culturale. S’intende come genocidio, infatti, «un piano coordinato di varie azioni volte a distruggere le fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, dalla religione alla vita economica, il cui scopo è quello di sterminare i gruppi stessi». Tenendo fede al proposito di legare sempre “il cuore e l’atto”, Lemkin s’impegnò sin da subito, già al termine della guerra, affinché il reato di genocidio fosse previsto fra i crimini del diritto internazionale.
Gli esiti di questa difficile battaglia giunsero, come ricordavamo, l’11 dicembre 1946, quando l’assemblea delle Nazioni Unite, a seguito dell’approvazione del comitato esecutivo, votò all’unanimità la Convenzione. Però, per diventare legge internazionale, il documento doveva essere votato nei parlamenti nazionali di almeno venti Stati: fu forse questo il vero coronamento degli sforzi di Lemkin quando, il 16 ottobre 1950, il ventesimo paese aderì al trattato, rendendo finalmente il genocidio un crimine internazionale sancito dalle Nazioni Unite.
Egli, praticando la sua filosofia universalista, mostrava di aver ben compreso che il conatus, l’impulso alla conservazione e alla protezione, era anche ciò che doveva informare la salvaguardia delle minoranze perseguitate. Sposando l’assunto che il bene comune, in quanto tale, riveste un’utilità condivisa, egli non faceva dell’Olocausto un’istanza identitaria metafisicamente avulsa dal resto della realtà ma, al contrario, partendo empiricamente da ciò che è buono per tutti, giungeva alla questione della Shoah, convinto che il problema del genocidio riguardasse l’umanità nella sua interezza.
Ecco perché la sua storia ha oggi, forse più che mai, molto da insegnarci. Raphael Lemkin, con la sua insistenza e lungimiranza, ci guarda da lontano, in attesa che il suo progetto trovi eredi ugualmente convinti e ispirati, rammentandoci che una scelta alternativa è sempre possibile e che le idee, quelle vere e durature, non muoiono con chi le pensa ma vivono e prosperano in coloro che hanno la pazienza e la cura di coltivarle. Come spiega Nissim:
Non è infatti il solo pensiero che crea qualcosa di nuovo nel mondo. Tanti sono gli uomini che capiscono, ma poi rimangono passivi. Sono gli uomini giusti coloro che traducono il pensiero e il giudizio in un’azione e si mettono in gioco a loro rischio e pericolo. (G. Nissim, Auschwitz non finisce mai, p. 241).

Analisi di Erminio Maglione, Assegnista di ricerca in Storia della filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano