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Srebrenica 1995-2022, cosa è cambiato?

di Tatjana Dordevic

Ado Hasanovic aveva solo sei anni quando è fuggito con i genitori dalla propria casa per salvarsi. Mentre si nascondevano in un bosco, sentirono una grande esplosione provenire dalla direzione opposta. Il papà disse: “È la nostra macchina, l’esplosione viene da dove l’avevo nascosta”.

Guardare quel fuoco a distanza rese Ado molto triste: in macchina era rimasto il suo giocattolo preferito. Per lui, un bambino di sei anni, era molto difficile sopportare il dolore per aver perso una parte così importante della propria vita, della propria infanzia.

Hasanović, oggi regista di successo che vive in Italia, ha perso molti familiari durante l’assedio di Srebrenica. Non ha mai perso, però, l’amore per la città dove è nato. Il suo primo cortometraggio, girato nel 2007, si intitola Io sono di Srebrenica e parla del suo orgoglio e di quello dei giovani di quella città simbolo.

In quel luglio del 1995 anche Alden Begić, oggi medico internista che vive a Sarajevo, perse molti famigliari. Più di cinquanta persone, tutte di sesso maschile. I corpi di molti di loro non sono ancora stati ritrovati.

La stessa sorte è toccata anche a Hasan Hasanović, che ha perso tutti, e a Jasmin Jusufagić e Alma Mustafić: tutti nati a Srebrenica e sopravvissuti al genocidio avvenuto nella loro città 27 anni fa. Nel documentario Sopravvissuti, uscito nel 2020 sulla rete televisiva N1 (che copre Serbia, Croazia e Bosnia ed Erzegovina), queste persone parlano di cosa è accaduto in quei pochi giorni. Il peggior massacro in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, che nessuno di loro avrebbe potuto immaginare. Durante i loro racconti, i protagonisti del documentario, nonostante tutto il dolore che portano ancora dentro, hanno lanciato un messaggio universale: l’odio non è mai la soluzione.

Due anni prima del genocidio le Nazioni Unite avevano designato Srebrenica come “area sicura” per i civili in fuga dai combattimenti tra il governo bosniaco e le forze serbe separatiste. Ma, tra l’11 e il 19 luglio del 1995, le forze militari della Republika Srpska uccisero 8372 uomini e ragazzi musulmani. Un crimine di dimensioni enormi che ancora oggi viene minimizzato, soprattutto in Serbia e in Republika Srpska. A questo proposito lo scorso luglio, prima di lasciare il suo mandato lungo 12 anni, l'ex alto rappresentante della comunità internazionale in Bosnia, Valentin Inzko, ha stabilito che la negazione del genocidio di Srebrenica sarebbe dovuto essere vietato in base al diritto penale bosniaco; una decisione che ha portato alti rappresentanti della Republika Srpska - Milorad Dodik e la presidente Željka Cvijanović - ad esprimere la loro posizione, ossia quella di negare, ancora una volta, il genocidio, aprendo così una crisi politica e annunciando persino l'indipendenza della Republika Srpska.

Contemporaneamente, il presidente serbo Aleksandar Vučić si è trattenuto dall’esprimere opinioni pubbliche, senza però rinnegare la propria reazione dopo la condanna all’ergastolo del generale Ratko Mladić. Vučić aveva infatti sostenuto che Il Tribunale dell'Aja avesse “condannato soprattutto i serbi, complessivamente a 1138 anni di reclusione, mentre nessun croato o bosniaco è stato condannato per i crimini commessi contro i serbi”.

Per onorare il generale Mladić, qualche giorno dopo la sentenza di ergastolo, nel centro di Belgrado è apparso un murale che lo ritrae: un criminale di guerra che per i gruppi di estrema destra resterà sempre un eroe. Il murale è ancora lì, sulla parete di un palazzo residenziale nel quartiere Vračar, uno dei più belli nel centro di Belgrado.

Analogamente, anche il presidente croato, Zoran Milanović, non ha mai condannato fine alla fine quel crimine e ha dichiarato a dicembre 2021 che “a Srebrenica è stato commesso sì un genocidio, ma per i crimini più gravi – come la Shoah – bisognerà allora inventarsi un nuovo termine”.

Tutto quello che è accaduto è stato fatto con "intenzione", con ruoli molto precisi e chiaramente definiti di ciascun individuo nella catena del crimine. La maggior parte di coloro che hanno compiuto il genocidio sapeva bene ciò che sarebbe successo e non ha fatto nulla per prevenirlo o impedirlo. Tuttavia, tutti i perpetratori non sono stati ancora condannati. Alcuni di loro sono stati processati e altri processi sono ancora in corso sia Bosnia ed Erzegovina che in Serbia. È comprensibile l'insoddisfazione delle famiglie delle 8.372 vittime, quelle che finora sono state registrate. Non va dimenticato, infatti, che non si tratta di un numero definitivo.

Perché sia potuto accadere un orrore di tali dimensioni è una domanda complessa, in quanto le cause in parte sono riconducibili a fatti contemporanei e in parte affondano le radici nei secoli passati. I cittadini serbi di solito ignorano, rifiutano e negano il genocidio di Srebrenica; spesso accampano scuse e dicono che 'hanno iniziato prima loro', ma, per lo più, di tutto questo non si parla, come se non fosse accaduto. I bosniaci musulmani invitano al confronto, chiedono l’ammissione delle responsabilità e il riconoscimento da parte dei serbi del genocidio, ma è molto difficile che lo ottengano e dovranno continuare a convivere con questo trauma.

La vita a Srebrenica dopo Srebrenica non è facile. Nelle altre parti della Bosnia, la convivenza tra le tre etnie continua… forse, non proprio come prima: ogni parte ha le sue ragioni e le sue tragedie.

In un conflitto, esistono vittime e carnefici. La guerra in ex Jugoslavia non è stata voluta dalle diverse componenti etniche di quel Paese che non esiste più. Tuttavia, il prezzo più caro lo hanno pagato i cittadini, a qualsiasi etnia essi appartenessero. Bisogna insegnare alle nuove generazioni a non ripetere mai più gli stessi errori: una cosa che purtroppo che non si fa abbastanza.

In calce l'approfondimento di Gariwo sul genocidio

Tatjana Dordevic

Analisi di Tatjana Dordevic, giornalista

6 luglio 2022

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