La relazione di Francesco M. Cataluccio in occasione del seminario per gli insegnanti "La memoria richiede nuove parole" all'interno della Gariwo Netweek. Cataluccio ripercorre i passaggi salienti della storia del Paese, dal 1200 all'invasione russa di questi giorni. Alla fine dell'articolo è possibile consultare la ricca bibliografia sulla storia dell'Ucraina proposta dall'autore.
“Questa guerra è un attacco alle vite degli ucraini, ma anche alla nostra identità, alla nostra cultura. Non ci resta che questo: gridare e attirare l’attenzione. In gioco c’è la cultura globale, non solo quella ucraina” ha affermato (“Pagine Ebraiche”, 6/IV/2022) lo storico dell’arte ebreo ucraino Konstantin Akinsha, nato a Kyiv ma da molti anni residente a Budapest, elencando i tesori del suo paese: dai 56mila oggetti del Museo dei tesori storici di Kyiv ai capolavori dell’artista contemporaneo Oleksandr Rojtburd, dalle sinagoghe sparse per il paese alle chiese, i teatri, gli archivi, i monumenti…
Ma anche artisti e intellettuali. Uno dei tragici esempi recenti: il maestro Jurij Kerpatenko, direttore d'archestra al Teatro di Musica e Dramma della città di Kherson. Quando la città era ancora occupata dai russi, il 15 ottobre scorso, è stato ucciso da militari, perché si era rifiutato di dirigere l'orchestra sinfonica cittadina in un concerto indetto dal Comando Russo della città in onore dell'esercito russo occupante.
Sotto le bombe russe, oltre alle migliaia di vittime, c’è anche questo immenso patrimonio che non si sa come uscirà dal conflitto. Un timore più che fondato non soltanto a causa della “tattica militare” russa (basata sulla distruzione sistematica di più edifici possibile del nemico), ma soprattutto per il sempre più evidente intento del regime di Putin di cancellare l’Ucraina e la sua identità. Un grande paese che non deve più esistere indipendente, ma tornare a essere una parte della Grande Russia. Per far questo, prima ancora di scatenare le annessioni, e ora una vera e propria guerra (“l’operazione militare speciale”), da anni i russi tentano, a partire dai manuali scolastici e dalla propaganda, di riscrivere una storia comune certamente ingarbugliata, ma dove l’Ucraina e il suo popolo hanno un’identità autonoma e caratteristiche che, dopo il 1991, gli ucraini stavano tentando di ricostruire, partendo prima di tutto dalla specificità della propria lingua, anche al costo di rivalutare (o sottacere) alcune figure ed episodi di feroce nazionalismo.
Il 17 ottobre un gruppo di noti intellettuali italiani, di destra e di sinistra (Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani, Stefano Zamagni) ha diffuso un Appello per la pace in Est Europa(pubblicato il giorno successivo sull'"Avvenire" e "Il Fatto quotidiano") che - come è stato per esempio notato dal nostro collaboratore Giovanni Cominelli (Piccola radiografia del pacifismo italico, "Gariwo Magazine", 17 ottobre) e da Luciano Capone, (Perché la proposta di pace catto-rosso-bruna è credibile solo per Putin, ne "il Foglio", 18 ottobre) - era, al di à delle considerazioni politiche, pieno di errori storici. Del resto anche nei dibattiti televisivi si è visto come molti "esperti" (a partire da quelli di "geopolitica") dicessero dell'Ucraina cose molto imprecise, per giustificare l'invasione russa. Il problema più generale è che dell'Ucraina, come della Russia, come dell'Europa e della gran parte dei paesi del mondo, gli italiani sanno quasi nulla perché vengono informati poco e male dai giornali, dalle televisioni, per non parlare dei social media,
L’Ucraina è una terra geopoliticamente disgraziata, stretta tra la Russia e la Polonia: un miscuglio talmente confuso, violento, ma anche virtuoso, di popoli e lingue da rendere difficile definire dei confini certi. L’Ucraina nasce molto prima della Russia: quel paese, detto Russia di Kyiv (Rus’ di Kiev), sorto verso la fine del IX secolo, fu il più antico stato monarchico slavo orientale che si estendeva nel territorio delle odierne Ucraina, Russia occidentale, Bielorussia, Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia orientali. La sua fine avvenne quando, nel 1240, Kyiv venne rasa al suolo dai conquistatori tartaro-mongoli. La religione greco-ortodossa giocò un grande ruolo nell’avvicinamento tra i feudatari ucraini e i russi (i moscoviti erano gli esattori per conto dell’Orda d’Oro tartaro-mongola). Nel 1328 il metropolita greco-ortodosso di Kyiv abbandonò la sua sede, ormai decaduta, e si trasferì a Mosca, che divenne il centro religioso del Paese.
Nel 1277 Daniele, figlio di Aleksander Nevskij, fondò la dinastia dei principi di Mosca e nel 1380 il principe Dimitrij affrontò i tartari, e li sconfisse al Campo delle quaglie (Kulikovo). Il fondatore dello stato russo fu il principe di Mosca Ivan III Vasil'evič detto il Grande (1462-1505) che, sposando, nel 1472, Sofia, la nipote dell'ultimo imperatore bizantino, diede inizio al mito imperalista (tanto caro anche agli odierni nazionalisti russi) della "Terza Roma”: secondo il quale la Russia sarebbe stata l’erede della civiltà romano-bizantina e, in nome di ciò, avrebbe dovuto conquistarsi l’Europa e un pezzo di mondo.
L’Ucraina nel frattempo era diventata dominio dei polacchi, padroni dei latifondi, che favorirono l’insediamento di un gran numero di ebrei (provenienti soprattutto dalle terre germaniche), impiegandoli come gestori delle loro proprietà. Fu così che gli ebrei si trovarono ben presto in mezzo al conflitto tra contadini ucraini, appoggiati dai russi, e nobiltà polacca. Nella lotta sanguinosa tra ucraini e polacchi, gli ebrei furono dalla parte dei signori polacchi e quindi costantemente oggetto di manifestazioni ostili da parte dei contadini ucraini e dei cosacchi. Il re Sigismondo I, Granduca di Polonia e Lituania (1506-1548) e il suo successore, Sigismondo Augusto (1548-1572), protessero gli ebrei, garantendo loro eguali diritti e la possibilità di insediarsi liberamente. Ma fu Sigismondo III (1587-1632) che, nel mezzo del conflitto religioso tra Uniati (appoggiati dalla chiesa cattolica) e Ortodossi, per garantirsi l’appoggio delle popolazioni locali, proibì, nel 1619, agli ebrei di risiedere a Kyiv concedendo loro di recarvisi temporaneamente soltanto nei giorni di mercato e di fiere. La situazione peggiorò tragicamente nel XVII secolo con la rivolta dei servi della gleba ucraini contro la Confederazione Polacco-Lituana, guidati dall’atamano cosacco Bohdàn Chmel’nitskij (1596-1657), e alla Guerra russo-polacca (1654-1667), detta Guerra di Ucraina, che si concluse con una significativa espansione territoriale russa e segnò l’inizio della sua grande potenza. Bohdàn Chmel’nitskij ottenne sin dall’inizio un importante aiuto da Alessio I di Russia in cambio della sua alleanza, sancita, nel 1654, dal Trattato di Pereyaslav (per festeggiare degnamente il suo trecentesimo anniversario, nel 1954, l’allora segretario del PCUS, Nikita Chruščëv, regalò all’Ucraina la penisola di Crimea che, nel 2014, i russi si sono ripresa).
I cosacchi, nell’immaginario polacco e russo, divennero sinonimo di ucraini. Per capire cosa fossero i cosacchi basta leggersi Taràs Bul’ba (1835) di Nikolàj Gogol’. I suoi eroi combattono contro i polacchi, i tartari, i turchi, gli ebrei e i cattolici, nemici del cristianesimo ortodosso della grande madre Russia, e hanno una ferocia barbarica che si manterrà immutata fino alle imprese della leggendaria Armata a cavallo narrate, nel 1926, dallo scrittore russo, ebreo ucraino, Isaac Babel’, e anche un po’ dopo. Le fruste, come le sciabole, erano le loro armi preferite. Per Gogol’, il cosacchismo era “il vasto irresistibile slancio della natura russa”. Gli ucraini divennero col tempo un popolo di guerrieri: i migliori soldati dell’esercito russo e poi dell’Armata Rossa (utilizzati anche in Afghanistan, con grandi perdite). Come ha notato un anziano generale polacco, a proposito del conflitto odierno: “Il problema dell’esercito russo è combattere contro gli ucraini, senza avere con sé gli ucraini”.
Nell’impero russo, la più grande comunità ebraica d’Europa, dove era nato tra l’altro il movimento chassidico (condannato come eretico dal Gaon di Vilnius), subì un crescendo di violenze che culminò con l’attentato che costò la vita, a San Pietroburgo, allo zar Alessandro II Romanov (il 13 marzo del 1881, proprio il giorno della firma del Decreto di soppressione delle lingue non russe), a opera di un gruppo di terroristi legati al movimento populista della “Narodnaja Volja” (La Volontà del Popolo). Con la scusa che tra gli autori dell’attentato c’era una ragazza ebrea (Hesia Helfman), iniziarono allora i primi pogrómy (persecuzioni) di massa, incoraggiati dalle autorità russe. Il luogo dove si scatenò, sin dall’aprile di quell’anno, la furia più selvaggia e sanguinaria fu proprio Kyiv e la sua provincia. Migliaia di ebrei ucraini intrapresero allora, per salvarsi, la difficile strada dell’emigrazione verso l’America così come molti contadini impoveriti dalle condizioni imposte dal regime zarista.
In seguito alla Rivoluzione bolscevica, nel 1917, convivevano in Ucraina tre progetti per il futuro:
1) quello nazionale a base etnolinguistica ma largamente dominato da intellettuali e organizzazioni socialiste (non sempre marxiste);
2) quello "piccolo russo", presente nei territori dell'impero russo quanto in Galizia che accettava l'idea di una nazione russa politicamente unita ma che era anche conscio di una differenza che andava difesa;
3) quello nazionalista russo, sostenuto anche da alcuni intellettuali e dirigenti di origine ucraina.
La Rada ucraina (l'equivalente del governo dei Soviet) dichiarò l'indipendenza e chiese di negoziare un patto tra eguali con la nuova Russia socialista. Lenin e Stalin risposero con la decisione di invaderla. La "guerra civile russa" iniziò così, nel dicembre del 1917, con l'aggressione della Repubblica socialista russa alla Repubblica socialista ucraina. Come denunciò il leader del Bund (il partito socialista ebraico), M. G. Rafes, l'Ucraina fu allora invasa da "forze straniere che si diedero a fucilazioni e massacri, per esempio, di giovani ginnasiali nazionalisti.
I bolsevichi soffocarono nel sangue le aspirazioni indipendentiste dell'Ucraina. Figura si spicco di quella tragica storia dell'Ucraina, fu Symon Vasyl'ovyč Petljura (1879-1926). Durante il 1919 fu a capo della Repubblica popolare ucraina, combattendo sia contro i bolscevichi che i Bianchi. La guerra civile fu particolarmente cruenta, e caratterizzata da terribili pogrom antisemiti a opera dei Bianchi, dei nazionalisti ucraini e anche da assassinii operati dai Rossi (contro la classe benestante ebraica). Durante il mandato di Petljura, i pogrom continuarono a essere perpetrati nel territorio ucraino e il numero di ebrei uccisi si aggira tra 35.000 e 50.000. Nell'autunno del 1919 la maggior parte delle forze dei russi bianchi, guidati dal generale zarista Anton Ivanovič Denikin (1872-1947), furono sconfitte dai guerriglieri guidati dall'anarchico Nestor Ivanovič Machno (1889-1934), artefice di un'autentica collettivizzazione delle campagne, secondo i principi dell'autogestione anarchica. Dal 1918 al 1921, Machno fu il leader del movimento di resistenza ucraino contro austro-tedeschi, i russi bianchi e i bolscevichi (e anche lui è stato accusato di violenti episodi di antisemitismo). Il movimento crebbe enormemente e conseguì numerose e importanti vittorie, ma fu infine sconfitto dall'Armata Rossa, che divenne la forza dominante anche in Ucraina.
Lo scrittore Michail Bulgakov (1891-1940), l’autore de Il Maestro e Margherita (pubblicato postumo nel 1966), moderato conservatore, amante del teatro e della musica lirica, descrisse con spietata lucidità la guerra civile in Ucraina, ne La guardia bianca (uscito a Parigi nel 1927-1929 con il titolo I giorni dei Turbin), gli orrori degli scontri, che insanguinarono la sua città natale, tra le truppe nazionaliste di Petljura, l’Esercito Volontario antibolscevico di Denikin (in cui Bulgakov, nel 1919, venne arruolato come medico) e l’esercito bolscevico. Alla sorella Nadja scriverà: “Poco fa dormivo e ho sognato Kiev, volti noti e cari, che suonavano il piano... Ritorneranno i vecchi tempi? Il presente è tale che vivo senza farci caso... non vedere, non sentire”. Dopo la sconfitta dei bianchi, Bulgakov cessò di fare il medico, lasciò l’Ucraina e si recò, nel 1921, in cerca di fortuna a Mosca, consapevole che: “La follia di questi ultimi due anni ci ha spinto su una strada tremenda in cui non c’è tempo di fermarsi, di riprendere fiato. Abbiamo cominciato a bere il calice del castigo e lo berremo fino in fondo”.
Nel 1921, l’Ucraina venne incorporata all’interno delle Repubbliche socialiste sovietiche. E subito, nel 1922, nella regione ci fu la prima terribile carestia. Ma non fu nulla rispetto a quella che accadde dieci anni dopo. Gli ucraini, essendo milioni di piccoli contadini, religiosi e nazionalisti, non erano considerati dai russi “affidabili”, mostrando di andare in direzione opposta ai piani sovietici. I bolscevichi misero allora in piedi un programma di collettivizzazione forzata che si spinse ad affamare un’intera popolazione. L' “Holodomor”, (che deriva dall’espressione ucraina moryty holodom, che significa “infliggere la morte attraverso la fame”), è il nome attribuito alla carestia, non generata da cause naturali, che si abbatté sul territorio dell’Ucraina negli anni dal 1929 al 1933 e che causò circa 7 milioni di morti. O anche di più. Ci sono le testimonianze di qualche osservatore straniero, come il console italiano a Kharkiv, Sergio Gradenigo, che nei suoi rapporti diplomatici sostenne di aver saputo da rappresentanti del governo che i morti erano 9 milioni. Fu un genocidio. Il 23 ottobre 2008 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione nella quale ha riconosciuto l’Holodomor come “un crimine contro l’umanità”.
Lo scrittore Vasilij Grossman (1905-1964), nato nello shtetl ucraino di Berdicev (Berdyčiv), raccontò cosa accadde nel romanzo Tutto scorre…, scritto fra il 1955 e il 1963 e pubblicato postumo in Germania occidentale nel 1970. La sua descrizione della fame contadina ucraina è terribile: “A certi invece dava di volta il cervello, non si calmavano fino alla fine. Li riconoscevi dagli occhi, lucidi. Erano loro quelli che facevano a pezzi i morti e li cuocevano, uccidevano i propri figli e li mangiavano. Si risvegliava in loro la belva, quando l’uomo moriva. Ho veduto una donna, l’avevano portata sotto scorta al centro distrettuale. Il suo viso era di un essere umano, ma aveva gli occhi di un lupo. Dicono che questi li han fucilati tutti quanti. Ma non eran loro i colpevoli, colpevoli erano quelli che riducevano una madre al punto di mangiare i propri figli [...] È per il bene dell’umanità che loro hanno ridotto le madri a quel punto”.
Poi arrivarono, nel 1941, i tedeschi che inizialmente vennero accolti da gran parte della popolazione come liberatori. Il 30 giugno 1941, a Leopoli, i nazionalisti ucraini dell'OUN proclamarono l'Ucraina indipendente, pronta a collaborare con i tedeschi. Ma questi ultimi non erano favorevoli a una nazione indipendente nei territori da loro conquistati: usarono gli ucraini per i loro piani, ma li contrastatono. Il capo dei nazionalisti ucraini, Stepan Andrijovič Bandera (1909-1959), si era distinto negli anni trenta per una violenta opposizione in Galizia contro i polacchi (che lo avevano condannato a morte nel 1936, sentenza poi mutata in ergastolo) e i sovietici, venne più volte arrestato dai tedeschi e poi internato nel lager di Sachsenhausen. Nel 1944 fu liberato affinché conducesse azioni di sabotaggio contro l'Armata Rosa. Bandera come Pertjura è una figura molto controversa e discussa: per molti ucraini è un eroe della lotta per l'indipendenza (venne assassinato il 15 ottobre 1959, mentre era in esilio a Monaco di Baviera, da sicari di Mosca); per i russi, i polacchi e gli ebrei un fanatico nazionalista corresponsanbile dei massacri antisemiti. Dal 1941 al 1944 vennero uccisi un milione ebrei dalle Einsatzgruppen, dalla Wehrmacht e dai collaboreazionisti ucraini inquadrati nella milizia. Nella sola Odessa furono massacrati 50.000 ebrei; nel fossato di Babij Jar, tra il 29 e il 30 settembre sempre del 1941, furono ammazzati 33.771 ebrei di Kyiv (e per molti anni non ci fu nemmeno una lapide commemorativa, come ricordarono il poeta russo-ucraino Evgenji Evtušenko e il compositore Dmitrij Šciostakovič, con la sua Tredicesima Sinfonia, 1962).
Alla fine della guerra, l’Ucraina contò 4 milioni e mezzo di morti e 2 milioni di deportati come schiavi (200.000 rimasero in Occidente). Se ad essi si aggiungono i 7 milioni di morti tra deportazioni, fucilazioni e fame (Holodomor), si ha un quadro del numero enorme di vite che furono spezzate in quella regione. Dopo la guerra mondiale, nelle foreste dell’Ucraina si protrasse fino al 1950 una strisciante, e violenta, guerra condotta dall’esercito e le forze di sicurezza sovietiche contro le formazioni indipendentiste clandestine dell’UPA, l’ala militare dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN) guidati da Stepan Bandera. La parte occidentale dell’Ucraina (Galizia), dove c’è Leopoli, fino al 1939 faceva parte della Polonia. Con gli accordi di Jalta quei territori si ritrovarono all’interno dei ridisegnati confini della Repubblica socialista ucraina e anche allora furono compiuti indiscriminati massacri: i nazionalisti ucraini, con la complicità delle autorità sovietiche, si presero la loro vendetta contro i polacchi, che furono costretti a fuggire (2-3 milioni di persone si trasferiscono in Polonia).
Nonostante che molti dirigenti del PCUS, a cominciare da Nikita Chruščëv a Leoníd Bréžnev fossero ucraini o fortemente legati ad essa, anche dopo la destalinizzazione continuò un rapporto di sfruttamento sconsiderato di quella terra nera che è un “immenso granaio" e un’ industrializzazione senza regole e sicurezze. La tragedia della centrale atomica di Černobyl', il 26 aprile del 1986, è stata la catastrofica punta dell’isberg dell’impossibilità della gestione e del dominio russo-sovietico. Nel film-intervista, del 2018, del regista tedesco Werner Herzog, Gorbacëv dichiara solennemente che “la fine dell’’Urss è iniziata con Černobyl'”.
Con il crollo dell’Unione sovietica, il 24 agosto 1991, la Verkhovna Rada (il Parlamento della Repubblica socialista dell’Ucraina) proclamò l’indipendenza del paese. Questo evento è stato vissuto malissimo dalla Russia, molto più del distacco delle altre nazioni sovietiche. Anche là, come ad esempio in Lettonia, è rimasta una considerevole comunità russofona che si è sentita abbandonata e discriminata. Nel 1994, tre anni dopo l’indipendenza dell’Ucraina, fu firmato il “Memorandum di Budapest”: la Russia, gli Stati Uniti e il Regno Unito garantirono l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio del trasferimento alla Russia dell’arsenale nucleare post-sovietico situato in Ucraina, che consegnò alla Federazione Russa le armi nucleari schierate sul suo territorio. In cambio, l’Ucraina doveva ricevere garanzie di sicurezza, inviolabilità delle frontiere e integrità territoriale. Sulla carta le ottenne. Prima a Mosca (il 15 gennaio 1991), la Russia e gli Stati Uniti elaborarono e firmarono tali garanzie con l’Ucraina. Poi, nel dicembre 1994, a Budapest, sotto gli auspici dell’OSCE, anche il Regno Unito firmò il memorandum, seguita anche dalle altre due potenze nucleari (Francia e Cina). Il memorandum è stato registrato come documento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (doc.S/1994/1399, 19 dicembre 1994). Non è servito a niente.
Il difficile assestamento dell’economia postsovietica ha ulteriormente impoverito le campagne (in certe zone del sud dell’Ucraina si è assistito al crescente fenomeno di donne che hanno lasciano le famiglie e sono andate a lavorare all’estero, mantenendo mariti disoccupati o non interessati a lavorare e dediti spesso all’alcolismo), arricchendo pochi magnati (esattamente come in Russia), ingigantendo la corruzione, dando sempre più spazio a investimenti dall’estero di dubbia natura.
Il crescente malcontento tra la popolazione è sfociato nella cosiddetta “Rivoluzione ucraina” (soprannominata Euromaidan), che iniziò con una serie di manifestazioni filoeuropee, a Kyiv (nella piazza principale: Piazza dell'Indipendenza, in ucraino Maidan Nezaležnosti) nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, all'indomani della decisione del governo di sospendere le trattative per la conclusione di un accordo per una Zona di libero scambio globale e approfondito (DCFTA) in tra Ucraina e l'Unione europea. Poi fu un crescendo di proteste, manifestazioni e occupazioni di edifici pubblici, fino al 20 febbraio 2014, quando i servizi di sicurezza spararono e si innescò una vera battaglia: ci furono oltre 100 morti, 70 tra i manifestanti e 17 tra la polizia, e circa 300 feriti. In quella piazza c’erano varie anime: molti giovani che chiedevano un vero cambiamento della vita politica; intellettuali e professionisti stanchi della crescente corruzione; nazionalisti che pretendevano una maggiore indipendenza della Russia; gruppi paramilitari di destra.
Intanto, proprio 20 febbraio 2014, con un'operazione militare, la Russia si è annessa la penisola di Crimea (sostenendo che fosse sempre stata russa e tacendo sul fatto che Stalin aveva deportato e massacrato i tartari che in maggioranza l'avevano abitata).
Nella notte tra 21 e il 22 febbraio il presidente filorusso Viktor Fedorovyč Janukovyč (1950) fuggì da Kyiv e così decadde dal suo incarico. Non fu un "colpo di stato", come accusarono i russi. Il nuovo presidente, l'imprenditore dolciario Petro Oleksijovyč Porošenko (1965), ha promosso la lingua ucraina, la decomunistizzazione, l'apertura verso l'Occidente e riabilitato il nazionalismo, anche religioso (nel 2018, ha favorito la creazione di una Chiesa ortodossa autocefala ucraina, separando dal dal Patriarcato di Mosca). Inoltre, il 27 giugno 2014 Porošenko ha firmato, assieme ai presidenti di Georgia e Moldavia, l'accordo di associazione tra l'UE e Ucraina (accordo ratificato dal Parlamento europeo, a stragrande maggioranza il 16 settembre, ed entrato in vigore il primo gennaio 2016). Ma non è riuscito ad arrestare la corruzione e lo strapotere degli oligarchi. Inoltre la Russia, resasi conto di star perdendo il controllo sull'Ucraina, ha iniziato a soffiare sul fuoco aizzando i russofoni nella parte orientale del paese, dove ci sono le grandi industrie minerarie e una classe lavoratrice tutto sommato meglio retribuita rispetto ai lavoratori nelle campagne.
Il 21 aprile 2019 il popolare attore comico Volodymyr Oleksandrovyč Zelens'kyj (1978), che rappresenta un po' una buona sintesi della complicata storia ucraina (è di famiglia ebraica e di madrelingua russa), con una sua lista civica dai toni abbastanza antipolitici, ma con posizioni europeiste, filo occidentali e anti-establishment, ha sconfitto al ballottaggio il presidente uscente con il 73% dei consensi. Subito dopo l'elezione, come previsto dalla legge ucraina, ha sciolto il Parlamento e indetto nuove elezioni conquistando la maggioranza assoluta dei seggi. Dal 20 maggio 2019 è presidente dell'Ucraina.
La Duma russa invece ha riconosciuto le regioni orientali dell Ucraina (Donetsk e Lugansk, nel Donbass) come autoproclamate repubbliche popolari, filorusse e quindi “intoccabili” nel loro desiderio di riunirsi alla madrepatria. È così iniziata una guerriglia definita eufemisticamente a “bassa intensità”, con la partecipazione di mercenari e elementi delle truppe speciali russe, che ha anticipato l’ intervento dello truppe di Mosca il 24 febbraio.
Hanno purtroppo ragione gli ucraini intervistati in questi mesi, quando dicono: “la guerra c’era già e durava da otto anni”. E lo rappresenta bene la poetessa di Kyiv, Iya Kiva, autrice di due volumi di poesie (Più lontano dal paradiso, 2018 e La prima pagina dell’inverno, 2019):
“Per otto anni ho continuato a dire: la mia casa è in guerra
per accettare finalmente che la mia casa è la guerra
nel suo lento treno da est a ovest del paese
la morte porta la vita
la notte sta precipitando a terra
con grappoli di fiori appassiti
ed entra con denti marci di silenzio nelle nostre bocche
la nostra lingua ora è una chat tra volontari e rifugiati
in cui le sirene intonano canti a Ulisse
la nostra memoria oramai è la sporca camicia ricamata della libertà
il suo lungo cammino da cuore a cuore”.