È singolare che l’Unione Sovietica – pur essendo riconosciuta
come un’area ad altissima concentrazione di ebrei e come il teatro del
loro sterminio di massa – sia rimasta per molto tempo un territorio
ampiamente inesplorato nella storia della Shoah. Mancano, in
particolare, dati precisi sugli ebrei che, in modo spesso fortunoso,
riuscirono a scappare dai luoghi degli eccidi, talvolta riemergendo
letteralmente dalle fosse comuni, o ad evadere dai ghetti e dai campi
d’internamento. Per sopravvivere, i fuggitivi dovevano celare la propria
identità e allontanarsi il più possibile da località in cui avrebbero
potuto essere facilmente riconosciuti; procurarsi dei falsi documenti
d’identità che comprovassero la loro non ebraicità; trovare dei mezzi di
sussistenza, assicurarsi un rifugio e, possibilmente, ottenere un
lavoro. Tutto ciò poteva realizzarsi solo con il sostegno della
popolazione locale.
È difficile scrivere oggi la storia degli
uomini e delle donne che agirono secondo giustizia sotto l’occupazione
nazista in territorio sovietico. Per decenni le loro scelte sono state
pressoché ignorate a causa dell’occultamento della Shoah da parte
delle autorità comuniste. Non solo le vittime ebree furono accomunate e
confuse con l’insieme delle vittime sovietiche, ma ogni tentativo in
senso contrario fu tacciato di favoreggiamento del “sionismo”. A partire
dagli novanta le restrizioni sono però venute in gran parte a cadere e
si sono potute avviare indagini più ampie sulla consistenza del soccorso
e del salvataggio. Un primo risultato è stato quello d’incrementare in
modo considerevole il numero dei riconoscimenti per coloro che aiutarono
gli ebrei a sfuggire ai nazisti e ai loro collaboratori. Il titolo di Giusti tra le Nazioni, alla data del 1° gennaio 2012, è così attribuito:
Ucraini 2.402
Lituani 831
Bielorussi 569
Russi 179
Lettoni 132
Moldavi 79
Armeni 21
Estoni 3
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totale 4.216
Furono dunque migliaia le persone che, nelle più diverse regioni, rischiarono la propria vita per
soccorrere vicini di casa, amici, semplici conoscenti o profughi del
tutto sconosciuti, nascondendo nelle cantine singoli individui o intere
famiglie, fornendo cibo e abiti, prestando assistenza ai feriti e ai
malati. Si trattò quasi sempre dell’iniziativa di singoli individui, che
agivano in modo spontaneo e non organizzato, perlomeno nelle loro prime
improvvisate azioni, riuscendo a superare i pregiudizi dell’ambiente
circostante e le pressioni della propaganda tedesca. Molti furono coloro
che salvarono dei bambini su richiesta dei genitori naturali, facendoli
passare per propri figli. Spesso si formarono delle vere e proprie
catene di solidarietà, grazie alle quali i fuggiaschi passavano di casa
in casa. Talvolta, queste spontanee fratellanze si tramutavano in gruppi
clandestini di resistenza, che mantenevano una struttura familiare
appena allargata e organizzavano attacchi alle carceri delle città o
“rubavano” gli internati dai ghetti. Frequenti furono le attività di
produzione di documenti falsi, per decine e decine di persone. È
superfluo ricordare che la minaccia della morte incombeva – come scrisse
una testimone – «per ogni parola di pietà, per ogni sguardo
compassionevole, per ogni sorso d’acqua e ogni crosta di pane».
Nell’impossibilità di ricostruire una mappa anche solo approssimativa
delle migliaia di azioni di salvataggio, si possono qui ricordare alcuni
casi esemplari per evidenziare la molteplicità delle forme e ragioni
dell’aiuto, così come la loro disseminazione geografica.
A Riga, furono molti i lettoni e i russi che si prodigarono per mettere in salvo degli ebrei. Il caso più noto è quello del lettone Jānis Lipke,
che sin dai primi giorni di esistenza del ghetto si adoperò per farne
evadere gli internati e trovare loro un nascondiglio. All’origine della
sua scelta vi era il fatto di aver assistito, insieme al figlio di otto
anni, al massacro di migliaia di ebrei nei primi giorni di dicembre del
1941. Perciò egli lasciò il suo posto di scaricatore di porto per
lavorare in una impresa al servizio della Luftwaffe. Approfittando
delle mansioni di sorvegliante della manodopera condotta quotidianamente
fuori dal ghetto, durante i tre anni dell’occupazione, con l’aiuto
della famiglia e di un gruppo di amici, riuscì a nascondere in vari
luoghi 42 persone, permettendone la sopravvivenza. Dopo la guerra
dovette affrontare l’ostilità dei vicini e dei compatrioti, che lo
consideravano un traditore, se non addirittura un mezzo ebreo. Nel 1966,
lo Yad Vashem lo ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni, insieme alla moglie Johanna.
A Kaunas, la dottoressa lituana Elena Kutorgiene-Buivydaite,
autrice di un diario esemplare per dignità e passione civile, mantenne
stretti contatti con ebrei: li ospitò nella propria abitazione, trovò
loro rifugi più sicuri o li fece espatriare, custodì oggetti di valore e
ne favorì la vendita. Prestò anche aiuto sanitario all’interno del
ghetto della città, riuscendo a farvi pervenire quasi ogni giorno il
cibo che riceveva attraverso i propri pazienti, e cooperò con il
movimento clandestino. Fu denunciata dai vicini e sottoposta a
perquisizioni notturne e interrogatori, ma riuscì ad essere rilasciata
dopo aver sottoscritto un documento in cui s’impegnava ad astenersi da
ogni contatto con gli ebrei. Dopo di che continuò ad intrattenere le sue
relazioni pericolose. Dopo la liberazione, nell’agosto del 1944, lavorò
per la commissione d’inchiesta sui crimini di guerra tedeschi. Nel 1982
le è stata attribuito il titolo di Giusta tra le Nazioni, insieme al
figlio Viktoras. La bibliotecaria Ona Simaite prestò invece
soccorso agli ebrei di Vilnius e si recò spesso all’interno del ghetto
non solo per scopi umanitari, ma anche per collaborare al salvataggio
dei tesori (libri e manoscritti) della famosa raccolta Strashun.
Arrestata per aver aiutato e ospitato dei fuggiaschi, fu brutalmente
torturata e deportata a Dachau. In seguito fu trasferita in un campo nel
sud della Francia, dove fu liberata dagli americani nell’agosto del
1944. È stata riconosciuta Giusta tra le Nazioni nel 1966.
Anche negli ambienti ecclesiastici si contarono innumerevoli azioni concrete a favore degli ebrei. A Kiev, il sacerdote Aleksej A. Glagolev
nascose diversi ebrei che erano scampati agli eccidi di Babij Jar e
avevano chiesto il suo aiuto, ospitandoli nel piccolo edificio contiguo
alla parrocchia. Fornì loro falsi documenti d’identità, in particolare
certificati di battesimo, ma anche attestazioni con la qualifica di
corista, sagrestano, custode, senza che i tedeschi si rendessero conto
del fatto che una chiesa piccola e piuttosto povera come la sua non
poteva avere alla proprie dipendenze un così numeroso personale.
Glagolev è stato riconosciuto Giusto tra le Nazioni nel 1991, insieme
alla moglie Tatjana e alla figlia Magdalina.
In Bielorussia, un punto di riferimento per esuli e fuggiaschi fu il contadino Konstantin (Kostik) Kozlowski,
a cui è stato attribuito il titolo di Giusto tra le Nazioni nel 1994,
insieme ai figli Gennadi e Vladimir. Avendo vissuto e lavorato per molti
anni con un calzolaio ebreo, Koslowski parlava bene yiddish, cosa che
gli consentì di assumere un ruolo d’intermediario con i partigiani della
brigata dei fratelli Belski, ai quali era legato fin dall’infanzia. Non
solo fece loro da guida e da corriere, ma mise a disposizione la sua
casa come base dei profughi ed entrò anche a più riprese nel ghetto di
Novogrudok per preparare le evasioni e accompagnare i fuggitivi nei
boschi. La famiglia (era vedovo con cinque figli) condivideva le sue
azioni e uno dei fratelli, che collaborava come poliziotto con gli
occupanti, ben presto iniziò a fornire volontariamente informazioni
preziose ai clandestini.
Sono solo alcuni esempi di «una piccola bontà senza ideologia, che possiamo chiamare bontà insensata» (Vasilij Grossman).