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Storie di Giusti dall'Unione Sovietica

di Antonella Salomoni

È singolare che l’Unione Sovietica – pur essendo riconosciuta come un’area ad altissima concentrazione di ebrei e come il teatro del loro sterminio di massa – sia rimasta per molto tempo un territorio ampiamente inesplorato nella storia della Shoah. Mancano, in particolare, dati precisi sugli ebrei che, in modo spesso fortunoso, riuscirono a scappare dai luoghi degli eccidi, talvolta riemergendo letteralmente dalle fosse comuni, o ad evadere dai ghetti e dai campi d’internamento. Per sopravvivere, i fuggitivi dovevano celare la propria identità e allontanarsi il più possibile da località in cui avrebbero potuto essere facilmente riconosciuti; procurarsi dei falsi documenti d’identità che comprovassero la loro non ebraicità; trovare dei mezzi di sussistenza, assicurarsi un rifugio e, possibilmente, ottenere un lavoro. Tutto ciò poteva realizzarsi solo con il sostegno della popolazione locale.

È difficile scrivere oggi la storia degli uomini e delle donne che agirono secondo giustizia sotto l’occupazione nazista in territorio sovietico. Per decenni le loro scelte sono state pressoché ignorate a causa dell’occultamento della Shoah da parte delle autorità comuniste. Non solo le vittime ebree furono accomunate e confuse con l’insieme delle vittime sovietiche, ma ogni tentativo in senso contrario fu tacciato di favoreggiamento del “sionismo”. A partire dagli novanta le restrizioni sono però venute in gran parte a cadere e si sono potute avviare indagini più ampie sulla consistenza del soccorso e del salvataggio. Un primo risultato è stato quello d’incrementare in modo considerevole il numero dei riconoscimenti per coloro che aiutarono gli ebrei a sfuggire ai nazisti e ai loro collaboratori. Il titolo di Giusti tra le Nazioni, alla data del 1° gennaio 2012, è così attribuito:

Ucraini     2.402
Lituani   831
Bielorussi        569
Russi        179
Lettoni        132
Moldavi          79
Armeni          21
Estoni            3
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totale      4.216


Furono dunque migliaia le persone che, nelle più diverse regioni, rischiarono la propria vita per soccorrere vicini di casa, amici, semplici conoscenti o profughi del tutto sconosciuti, nascondendo nelle cantine singoli individui o intere famiglie, fornendo cibo e abiti, prestando assistenza ai feriti e ai malati. Si trattò quasi sempre dell’iniziativa di singoli individui, che agivano in modo spontaneo e non organizzato, perlomeno nelle loro prime improvvisate azioni, riuscendo a superare i pregiudizi dell’ambiente circostante e le pressioni della propaganda tedesca. Molti furono coloro che salvarono dei bambini su richiesta dei genitori naturali, facendoli passare per propri figli. Spesso si formarono delle vere e proprie catene di solidarietà, grazie alle quali i fuggiaschi passavano di casa in casa. Talvolta, queste spontanee fratellanze si tramutavano in gruppi clandestini di resistenza, che mantenevano una struttura familiare appena allargata e organizzavano attacchi alle carceri delle città o “rubavano” gli internati dai ghetti. Frequenti furono le attività di produzione di documenti falsi, per decine e decine di persone. È superfluo ricordare che la minaccia della morte incombeva – come scrisse una testimone – «per ogni parola di pietà, per ogni sguardo compassionevole, per ogni sorso d’acqua e ogni crosta di pane». Nell’impossibilità di ricostruire una mappa anche solo approssimativa delle migliaia di azioni di salvataggio, si possono qui ricordare alcuni casi esemplari per evidenziare la molteplicità delle forme e ragioni dell’aiuto, così come la loro disseminazione geografica.

A Riga, furono molti i lettoni e i russi che si prodigarono per mettere in salvo degli ebrei. Il caso più noto è quello del lettone Jānis Lipke, che sin dai primi giorni di esistenza del ghetto si adoperò per farne evadere gli internati e trovare loro un nascondiglio. All’origine della sua scelta vi era il fatto di aver assistito, insieme al figlio di otto anni, al massacro di migliaia di ebrei nei primi giorni di dicembre del 1941. Perciò egli lasciò il suo posto di scaricatore di porto per lavorare in una impresa  al servizio della Luftwaffe. Approfittando delle mansioni di sorvegliante della manodopera condotta quotidianamente fuori dal ghetto, durante i tre anni dell’occupazione, con l’aiuto della famiglia e di un gruppo di amici, riuscì a nascondere in vari luoghi 42 persone, permettendone la sopravvivenza. Dopo la guerra dovette affrontare l’ostilità dei vicini e dei compatrioti, che lo consideravano un traditore, se non addirittura un mezzo ebreo. Nel 1966, lo Yad Vashem lo ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni, insieme alla moglie Johanna.

A Kaunas, la dottoressa lituana Elena Kutorgiene-Buivydaite, autrice di un diario esemplare per dignità e passione civile, mantenne stretti contatti con ebrei: li ospitò nella propria abitazione, trovò loro rifugi più sicuri o li fece espatriare, custodì oggetti di valore e ne favorì la vendita. Prestò anche aiuto sanitario all’interno del ghetto della città, riuscendo a farvi pervenire quasi ogni giorno il cibo che riceveva attraverso i propri pazienti, e cooperò con il movimento clandestino. Fu denunciata dai vicini e sottoposta a perquisizioni notturne e interrogatori, ma riuscì ad essere rilasciata dopo aver sottoscritto un documento in cui s’impegnava ad astenersi da ogni contatto con gli ebrei. Dopo di che continuò ad intrattenere le sue relazioni pericolose. Dopo la liberazione, nell’agosto del 1944, lavorò per la commissione d’inchiesta sui crimini di guerra tedeschi. Nel 1982 le è stata attribuito il titolo di Giusta tra le Nazioni, insieme al figlio Viktoras. La bibliotecaria Ona Simaite prestò invece soccorso agli ebrei di Vilnius e si recò spesso all’interno del ghetto non solo per scopi umanitari, ma anche per collaborare al salvataggio dei tesori (libri e manoscritti) della famosa raccolta Strashun. Arrestata per aver aiutato e ospitato dei fuggiaschi, fu brutalmente torturata e deportata a Dachau. In seguito fu trasferita in un campo nel sud della Francia, dove fu liberata dagli americani nell’agosto del 1944. È stata riconosciuta Giusta tra le Nazioni nel 1966.

Anche negli ambienti ecclesiastici si contarono innumerevoli azioni concrete a favore degli ebrei. A Kiev, il sacerdote Aleksej A. Glagolev nascose diversi ebrei che erano scampati agli eccidi di Babij Jar e avevano chiesto il suo aiuto, ospitandoli nel piccolo edificio contiguo alla parrocchia. Fornì loro falsi documenti d’identità, in particolare certificati di battesimo, ma anche attestazioni con la qualifica di corista, sagrestano, custode, senza che i tedeschi si rendessero conto del fatto che una chiesa piccola e piuttosto povera come la sua non poteva avere alla proprie dipendenze un così numeroso personale. Glagolev è stato riconosciuto Giusto tra le Nazioni nel 1991, insieme alla moglie Tatjana e alla figlia Magdalina.

In Bielorussia, un punto di riferimento per esuli e fuggiaschi fu il contadino Konstantin (Kostik) Kozlowski, a cui è stato attribuito il titolo di Giusto tra le Nazioni nel 1994, insieme ai figli Gennadi e Vladimir. Avendo vissuto e lavorato per molti anni con un calzolaio ebreo, Koslowski parlava bene yiddish, cosa che gli consentì di assumere un ruolo d’intermediario con i partigiani della brigata dei fratelli Belski, ai quali era legato fin dall’infanzia. Non solo fece loro da guida e da corriere, ma mise a disposizione la sua casa come base dei profughi ed entrò anche a più riprese nel ghetto di Novogrudok per preparare le evasioni e accompagnare i fuggitivi nei boschi. La famiglia (era vedovo con cinque figli) condivideva le sue azioni e uno dei fratelli, che collaborava come poliziotto con gli occupanti, ben presto iniziò a fornire volontariamente informazioni preziose ai clandestini.

Sono solo alcuni esempi di «una piccola bontà senza ideologia, che possiamo chiamare bontà insensata» (Vasilij Grossman).

Antonella Salomoni, docente di Storia della Shoah e dei genocidi dell'Università di Bologna

Analisi di

5 marzo 2013

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