Gariwo
https://it.gariwo.net/magazine/editoriali/sulla-forza-delle-ideologie-le-riflessioni-di-yehuda-bauer-26316.html
Gariwo Magazine

Sulla forza delle ideologie. Le riflessioni di Yehuda Bauer

di Amedeo Vigorelli

Nel suo ultimo libro, Ebrei. Un popolo in disaccordo, lo storico israeliano Yehuda Bauer ritorna, con una intatta vis polemica, insospettabile in un uomo di ottantotto anni (l’età che l’autore, oggi quasi centenario, aveva nel 2014, all’epoca della pubblicazione di questa corposa raccolta di saggi, ora tradotti in italiano nella collana “Campo libero” di Gariwo insieme alla Libreria editrice veneziana Cafoscarina) sulle origini storiche e la natura dell’evento forse più enigmatico del Novecento: l’Olocausto del popolo ebraico attuato con ingegneristica efficacia nei paesi dell’Europa centrale occupata dai Nazisti.

Non si tratta di un testo di facile lettura, costruito com’è con un gioco di esasperanti sovrapposizioni tematiche e repentine inversioni dialettiche, che sembrano aderire in profondità alla spiritualità dell’autore, bene espressa nel titolo originale: The Jews - A Contrary People. Si direbbe che lo spirito di contraddizione, qui riferito al popolo ebraico – la cui natura di entità collettiva etnico-storica e religiosa rimane indecisa in tutto il corso della magmatica trattazione e tuttora materia di violenti conflitti politici e ideologici – sia sentito intimamente dall’autore. Pur dichiarandosi ateo, Yehuda Bauer adotta in proprio il metodo del pro e contro caratteristico della disputa rabbinica, assorbito nell’infanzia praghese e perfezionato nei lunghi anni di studio e di pratica accademica.

Il bersaglio principale della sua disamina, che non intende pervenire a una soluzione definitiva, perché comprendere (nel significato che gli storici danno a questo termine) l’Olocausto equivarrebbe a razionalizzarlo, e dunque a giustificare l’ingiustificabile, è l’interpretazione teologica di esso come evento unico della storia, che interpella direttamente il rapporto del dio biblico con il suo popolo. A tutte le possibili varianti, ortodosse o eterodosse, di tale lettura deformante dei fatti, Bauer contrappone la tesi invalsa a partire dalla definizione di Raphael Lemkin del termine genocidio: il più adatto a inquadrare la strategia di sterminio etnico concepita da Hitler e coerentemente attuata, da una innumerevole moltitudine di anonimi protagonisti, servi consenzienti e volonterosi di una ideologia razzista radicale, con profonde radici nella storia europea premoderna e moderna. Ma anche il più opportuno per sottrarre al falso mito della unicità una concatenazione di avvenimenti senza precedenti, nella loro temporale evenemenzialità, ma i cui fattori componenti e causali hanno l’aspetto di una tipica ricorrenza, nella lunga durata della storia dell’umanità, e che perciò potrebbero rappresentare un precedente esemplare, da scongiurare con intatta energia morale.

È forse opportuno partire, nella lettura del libro, dal penultimo saggio, Ripensare l’Olocausto, in cui Bauer riassume in poche frasi il risultato di una diuturna interrogazione:

«sostengo che l’Olocausto sia stato il risultato, prima e soprattutto, di un’ideologia antisemita nella sua variante razzista, che si è sviluppata come una mutazione dell’antisemitismo prenazista. È stata allo stesso tempo una continuazione delle forme precedenti di quella patologia e un nuovo inizio» (op. cit. p. 326).

Ripercorrendo la storia dei suoi studi sull’Olocausto, Bauer indica con precisione quale ne sia stato il punto di partenza. Si trattava di dare una risposta allo storico più autorevole della persecuzione razziale nazista, Raul Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa (1961), che aveva dominato le menti per lungo tempo. La sua grande opera, che attribuisce alla burocrazia tedesca la responsabilità maggiore dell’Olocausto, «risponde alla domanda sul come, mai sul perché» (op. cit., p. 324). Analogamente, Bauer respinge l’interpretazione della scuola di pensiero funzionalista, che considera l’ideologia come semplice elemento di sfondo, attribuendo piuttosto a fattori di natura economica o strutturale l’impatto causale decisivo di quell’insieme di eventi. Pur non negando queste evidenze, l’autore sostiene una tesi più radicale, di natura antropologico-morale: «le strutture, siano esse economiche, sociali o sistemiche, non uccidono. Sono le persone a uccidere, e devono giustificare la loro azione criminosa con una o più ragioni» (op. cit., p. 327). L’ideologia non è mai un semplice sfondo. Ma ha un ruolo da protagonista nello svolgersi dell’azione storica. Si tratta cioè di ricostruire quella concatenazione di effetti, unica nella sua accidentalità, ma anche tipica e ricorrente, che ha collegato in un continuum causale ideologia, antisemitismo, guerra e Olocausto e che, in condizioni del tutto nuove, potrebbe anche ripetersi. La natura umana non è infatti modificabile, ed ogni passo realizzato nella direzione omicida e genocidaria è un passo definitivo, per quanto inedito.

Rispetto alle posizioni espresse in passato, Bauer propone in senso autocritico un approfondimento dell’ultima, decisiva, connessione: quella che riguarda appunto il rapporto tra guerra e Olocausto. Non vi è dubbio che le modalità specifiche assunte da quella che i Nazisti concepirono come soluzione finale del problema ebraico furono favorite dalla specificità geopolitica della regione est-europea in cui si svolse il confronto militare tra Germania e Unione Sovietica (le “terre di sangue” contese tra i due imperialismi russo e tedesco). Ma la domanda che si pone preliminarmente lo storico è quella sulla inevitabilità della guerra, sulla responsabilità tedesca nel conflitto e sul rapporto tra guerra e antisemitismo. La Germania fu certamente la responsabile principale del conflitto mondiale; ma chi fu, in ultima istanza, a deciderlo, dal momento che sino al 1938 le potenze europee e la stessa opinione pubblica tedesca si erano illuse circa la possibilità di risolverlo con un compromesso pacifico? Con rinnovato tormento Bauer si interroga con domande che possono sembrare retoriche, ma che vogliono esprimere la reale indecisione e contingenza dei fatti storici, le possibilità che in ogni epoca il tempo mantiene aperte alla decisione degli attori storici: «forse ad auspicare il conflitto erano i grandi capitalisti?» (op. cit., p. 329); «era l’esercito, allora, a volere la guerra?» (op. cit., p. 330); «chi la voleva allora?»: Hitler certamente, ma è una risposta fin troppo banale (op. cit., p. 332).

L’ossessione hitleriana per la minaccia di una sostituzione etnica del popolo tedesco ad opera del bolscevismo internazionale, schermo di un più generale complotto giudaico mirante all’annientamento della linfa vitale della civiltà cristiana dell’occidente, non era soltanto una ideologia, nel significato marxiano del termine (una forma di falsa coscienza, travestimento fantastico di reali interessi pragmatici). Se vogliamo, era piuttosto una paranoia collettiva, una manifestazione inedita di quella psicologia delle masse di cui aveva parlato Le Bon, e la cui effettiva pregnanza di fattore storico operante verrà scientificamente indagata da Freud e ispirerà le amare considerazioni sulla guerra del carteggio fra i due maggiori geni scientifici del Novecento: Freud, appunto, ed Einstein. Bauer indica con precisione la catena di comando attraverso la quale questa forma di delirio collettivo si manifestò nel Terzo Reich, sviluppando una efficienza superiore a quella degli stessi interessi pragmatici delle forze economiche operanti a livello mondiale:

«il nucleo della dirigenza centrale del Partito, e in particolare i Capi delle sezioni locali (Gauleiter), cinquanta o sessanta individui circa, e alcune altre figure centrali del Partito (Himmler, Goebbels, Rosenberg e altri) erano d’accordo [...] e controllavano milioni di membri del Partito, che erano convinti che qualsiasi cosa facesse Hitler fosse giusta. La sua politica fu sostenuta da un’ideologia continuamente inculcata nella testa dei suoi sostenitori, e diffusa tra tutta la popolazione dai media disponibili all’epoca. Era solo propaganda, o erano idee nelle quali le persone, primo fra tutti il dittatore, credevano e in accordo alle quali avrebbero agito, se appunto fosse stato possibile? L’ideologia era uno schermo dietro al quale si possono vedere le reali motivazioni, economiche, sociali, politiche o di ordine militare – in altri termini, considerazioni pragmatiche? O, forse non c’erano ragioni pragmatiche, o erano di secondaria importanza, e quella che chiamiamo propaganda è stata, in effetti, la reale motivazione?» (op. cit. p. 326).

È questo l’interrogativo più inquietante ancora per noi oggi, in un’epoca dominata dal potere incontrollato della tecnologia, indirizzata primariamente alla assicurazione della forza militare e del controllo sulle masse oltre che al dominio (illusorio?) sulla natura, e solo secondariamente all’incremento dei mezzi della civilizzazione: idee, cultura, affetti, bellezza, salute. Ma lasciamo per il momento questo dubbio inquietante, e torniamo all’indagine baueriana dell’Olocausto. Proseguendo nella sua disamina, l’autore giunge in poche pagine alla conclusione:

«Si può rispondere alla domanda su cosa abbia spinto la Germania nazista a iniziare la guerra: le ragioni sono state in primo luogo ideologiche, e l’antisemitismo era il nucleo di questa ideologia. La Seconda guerra mondiale costò la vita a circa 35 milioni di persone solo in Europa. Di queste, 5,7 milioni sono gli ebrei morti nell’Olocausto. I non ebrei sono stati 29 milioni. Sono morti, direi, almeno in parte a causa dell’odio antisemita. Può forse non essere la spiegazione tradizionale di questi avvenimenti storici. Ma sono convinto che sia quella corretta» (op. cit. p. 326).

Ciò che la storia del Novecento insegna è appunto l’impatto devastante di una ideologia genocida. Qui è la metodologia dello storico a venir messa in crisi, e Bauer è costretto a una confessione: «credo sia praticamente impossibile trovare paralleli storici a situazioni del genere, e cioè il prevalere dell’ideologia sulle considerazioni pragmatiche, con il genocidio come esito finale» (op. cit., p. 339). La storia, come ripete il ritornello del buon senso, non si fa con i se e con i ma. Eppure, la eccezionalità dell’evento novecentesco dell’Olocausto giudaico, ci pone di fronte ad una serie di evidenze non aggirabili: «Senza la guerra, non ci sarebbe stato l’Olocausto [...] nessuno previde l’Olocausto, nemmeno coloro che lo perpetrarono, visto che non esisteva nessun piano relativo allo sterminio di massa prima del 1941» (op. cit., p. 362). Non solo non esisteva alcun piano, ma «fino al gennaio 1939 Hitler non minacciò mai gli ebrei di sterminio [...] Non fece cenno a uno sterminio di massa. Con il senno di poi i commentatori rintracciano nelle affermazioni di ebrei e non ebrei cose che loro non intendevano dire, e a posteriori attribuiscono loro il dono della profezia» (op. cit., p. 363). Bauer dedica le ultime pagine del suo ultimo libro agli interrogativi che da sempre inquietano la coscienza ebraica: che cosa si sarebbe potuto fare di diverso, se non per impedire, almeno per attenuare quella tempesta di violenza e, sia pure non assolvendo le pavidità e il cinismo di chi, nell’Occidente liberal-democratico, ritardò troppo a lungo la presa di coscienza di ciò che si stava compiendo, conclude con una ammissione di realismo politico:

«Roosevelt e l’amministrazione statunitense non avrebbero potuto salvare gli ebrei d’Europa. Avrebbero potuto contribuire materialmente a salvarne una piccola percentuale, e hanno scelto di non farlo, fino al gennaio 1944. Poi tentarono. E il fatto stesso che fallirono, tranne piccole eccezioni, dimostra i limiti delle loro possibilità, anche nelle circostanze molto migliorate verso la fine del conflitto» (op. cit. p. 391).

Mi rendo conto di non aver toccato che in minima parte la sostanza del volume di Yehuda Bauer, che intende proporsi come una storia anticonformista della vicenda millenaria degli ebrei. Soprattutto non ho accennato a quello che ne costituisce il nucleo centrale: l’antisemitismo. Ma se ho usato del diritto del recensore, di scegliere in modo un po’ arbitrario l’argomento su cui incentrare un discorso che non si pretende esaustivo, e che non renderà mai giustizia ai meriti dell’autore, è perché ritengo che per la comunità di Gariwo, a cui queste mie righe sono rivolte, più che la lezione dello storico importi la lezione morale che si può trarre dalla lettura di questo libro di Bauer. Ed è una lezione morale incentrata su un dilemma filosofico (a cui lo stesso autore confessa di non voler rispondere). È il dilemma che è al centro della filosofia della storia di Kant (e di tutte quelle che ne sono seguite): qual è lo spazio di intervento che il determinismo storico concede alla libertà? Se la comprensione dei fatti non può venire lasciata ad un idealismo consolatorio, ma deve sapersi calare nello spazio di indeterminazione tra il reale e il possibile, in che misura è lecita una valutazione morale (non necessariamente provvidenziale) degli avvenimenti del passato, che consenta di gettare un fragile ponte tra passato e futuro? È indubbio che se qualcosa è accaduta, era possibile che accadesse. Tra necessario e possibile, a posteriori, non possiamo che scegliere il necessario. Ma vale anche l’inverso? Dobbiamo accettare l’idea che solo il reale è razionale, e che tra possibile ed impossibile tertium non datur? Se ciò fosse vero, dovremmo concludere che le azioni di quelli che noi ci ostiniamo a chiamare i Giusti li relegano nel Limbo degli illusi o dei patetici Don Chisciotte. Ma qualcosa si ribella, nella nostra coscienza, a questa comoda conclusione. Sul piano pragmatico, come insiste Bauer, i realisti hanno sempre ragione, e gli idealisti torto. Ma è poi così vero che nell’agire degli uomini le considerazioni pragmatiche hanno necessariamente la meglio su quelle ideologiche? La storia dell’Olocausto sembra dimostrare il contrario, anche se in questo caso l’imporsi di una ideologia sugli interessi pragmatici prevalenti ha avuto effetti distruttivi tali da fare apparire in una luce addirittura satanica i piccoli uomini che l’hanno implementata. Certo, come anche Bauer riconosce, una politica diversa rispetto a quella dominante, una politica che assuma ad esempio seriamente, tra i propri obiettivi, la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (come auspicato profeticamente da Raphael Lemkin nel libro del 1944 Axis Rule in Occupied Europe) non troverà mai facile attuazione, ma non per questo va respinta come impossibile o velleitaria.

Amedeo Vigorelli

Analisi di Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale Unimi

31 maggio 2023

Non perderti le storie dei Giusti e della memoria del Bene

Una volta al mese riceverai una selezione a cura della redazione di Gariwo degli articoli ed iniziative più interessanti. Per iscriverti compila i campi sottostanti e clicca su iscrizione.




Grazie per aver dato la tua adesione!

Scopri tra gli Editoriali

carica altri contenuti