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Un'isola da Nobel per la Pace

Lampedusa e i soccorsi ai migranti

Oggi in Italia è lutto nazionale, in memoria delle vittime della strage di migranti al largo di Lampedusa. L’immagine delle salme disposte in fila una accanto all’altra sulla banchina del porto e quella delle lacrime di una soccorritrice stanno facendo il giro del mondo.

Si contano a centinaia le vittime dell’incendio del barcone proveniente dall’Eritrea, poi naufragato a poche miglia dall’Isola dei Conigli. È l’ennesima tragedia del mare, di quel Mediterraneo ormai colmo di corpi senza nome.

Di fronte all’egoismo e all’indifferenza delle istituzioni italiane ed europee, da tempo impegnate ad accusarsi reciprocamente della responsabilità per l’emergenza migranti, a Lampedusa è però emerso un elemento di solidarietà umana e di “altruismo” genuino, che ha portato alla richiesta di assegnare il Premio Nobel per la Pace all’isola siciliana.

Al fallimento delle politiche e delle leggi, alla lontananza di uno Stato che ha abbandonato a se stessa un’intera popolazione, gli abitanti dell’isola hanno risposto mettendo in moto una straordinaria catena di solidarietà per salvare le vite dei migranti giunti al largo delle coste lampedusane. Ogni giorno ci sono soccorritori che lottano contro l’indifferenza strappando dal mare, accogliendo nelle proprie case e nutrendo i rifugiati, con un impegno lontano dall’odio e dalle polemiche del resto del Paese.

È il livello più basso, quello del singolo individuo, a farsi carico del destino dell’altro, di chi è nato dal lato opposto del mare. Carabinieri e finanzieri, ma anche uomini e donne comuni, pensano prima di tutto a salvare quante più vite possibili, seguendo solo la propria coscienza, a dispetto di una legislazione ambigua e inadatta alla situazione - va ricordato che i pescatori che soccorrono i migranti in mare portandoli a riva sulle proprie imbarcazioni rischiano di essere accusati di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Uomini e donne che di fronte alla tragedia fanno tanto e vorrebbero fare di più. “Abbiamo tentato di dare a quelle persone dei vestiti asciutti - ha raccontato ieri una soccorritrice - Alcuni di loro si vergognavano, ci stringevano le mani, ci dicevano grazie. Ho pianto, ho pianto tanto, forse il senso di impotenza, di vedere tutte quelle persone e capire che non potevamo salvarle tutte”.

Immagini simili si sono già viste in passato, come pochi giorni fa, quando un barcone con 200 uomini a bordo si è arenato al largo di Siracusa e i migranti sono stati soccorsi dai bagnanti e da un carabiniere. “Non ci ho pensato un attimo - ha dichiarato l’uomo - mi sono tolto la divisa e mi sono lanciato in mare”. O ancora a ferragosto, quando una vera e propria catena umana di turisti ha salvato quasi cento persone sulla spiaggia di Morghella, a Pachino.

Ecco perché il popolo di Lampedusa merita il Premio Nobel per la Pace. Davanti a un Paese - o addirittura un continente - abituato a voltare la testa dall’altra parte, gli abitanti di quel piccolo “scoglio” in mezzo al mare ci insegnano a non farlo, a prenderci la responsabilità della vita dell’altro.

Ogni giorno sull’isola si assiste a una battaglia per l’umanità, di fronte alla “vergogna” - per usare l’espressione di Papa Francesco - e all’orrore dei naufragi. Onorare la solidarietà degli abitanti di Lampedusa è un atto dovuto e un segnale che fa ritrovare un barlume di speranza, ma ci ricorda anche che un tale fardello non può essere affidato a un solo popolo giusto.

Martina Landi

Analisi di Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

4 ottobre 2013

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