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Una ragazzina giovane e ribelle a 90 anni

di Gabriele Nissim

Cara Liliana,

la prima cosa che ti vorrei dire per i tuoi novanta anni è grazie. Grazie di cuore. Sei una grande maestra della memoria. Fare memoria è un’arte perché non bisogna solo ricordare, ma trasmettere un pensiero chiaro e preciso che possa proporre dei nuovi comportamenti. Tu quando giri per le scuole e fai sentire la tua parola lanci sempre un messaggio di una grande chiarezza. Sei, per certi versi, chirurgica. Non fai giri di parole, ma vai sempre decisa al punto.

Ti devo confessare una cosa. Quando ti sentivo parlare le prime volte avvertivo sempre dalla tua presenza una grande severità. Mi toglievi il fiato, perché mai ti lasciavi andare ad una retorica di maniera e non facevi sconti a nessuno. Ti dirò di più: ancora oggi quando tu fai un intervento, mi sembra di sentirti parlare per la prima volta perché non dai mai l’idea di ripetere una storia, ma è come se tu la raccontassi ex novo con sfumature sempre diverse.
Quando sei con i ragazzi mi sembra di ascoltare Primo Levi che diceva sempre con un grande ragionamento una cosa molto definita. “Io vi racconto la storia della Shoah, della zona grigia, dell’indifferenza non solo perché ci sono stato, ma perché dovete conoscere il limite dove può arrivare la condizione umana. Dovete cogliere sempre tutti i segnali e gli avvertimenti che ci porterebbero di nuovo in quella situazione.”

Tu hai sempre cercato di fare comprendere che il male estremo non è al di fuori della storia, ma si può sempre ripetere. Noi viviamo in un piano inclinato dove se si lascia alla forza dell’inerzia e alla gravità il campo libero senza un nostro continuo intervento educativo si rischia sempre di ritrovarsi negli abissi.
Ecco perché non hai mai avuto esitazione nel prendere una posizione contro gli stereotipi sui migranti, sui musulmani, sugli “ultimi”. Hai sempre avuto una grande capacità di comprendere che utilizzare parole sbagliate può dar vita a un meccanismo di disumanizzazione del diverso e così introdurre il concetto pericoloso che esistano uomini di serie A e di serie B, concetto da cui possono poi nascere le cose peggiori.

Hai capito prima di tanti altri che oggi nel linguaggio pubblico - da quello politico all’uso quotidiano nei social - si usano delle espressioni di disprezzo verso l’altro che potrebbero portare ad una degenerazione della società. Le parole malate si trasformano prima o poi in pietre e sono l’anticamera della divisione e dell’intolleranza. Tu sai benissimo che prima delle leggi razziali era cambiato il linguaggio verso gli ebrei, e se oggi si lascia il campo libero a chi ama distruggere l’altro con parole volgari e cerca di creare solo nemici e contrapposizioni per affermare la propria superiorità si può cadere in un clima pericoloso.
Tu non fai differenze tra l’antisemita che odia gli ebrei e chi usa qualsiasi tipo di odio nei confronto degli altri uomini.

Mi ricordi il metodo dell’ebreo americano George Steiner, che sosteneva che i sopravvissuti che portavano delle cicatrici terribili avevano un unico privilegio dopo Auschwitz: dovevano essere indelicati, irritanti e controcorrente ogni qualvolta appariva sulla scena una politica nazionalista, cattiva e disumana.
Il filosofo e teologo Emil Fackenheim scrisse che dopo la Shoah ogni sopravvissuto come ogni suo discendente doveva ubbidire ad un XI comandamento che era una sorta di imperativo divino. Mai nascondere la propria ebraicità e farla rivivere in ogni luogo. Sosteneva che questo era il compito degli ebrei per non permettere mai una vittoria postuma del nazismo. Era questa una misteriosa voce interiore che doveva segnare il destino dei sopravvissuti. Una sorta di patto con chi non era tornato.
Hannah Arendt aveva espresso un concetto più laico, quando sosteneva che per combattere il nazismo bisognava gridare ad alta voce di essere ebrei.
Certamente un punto importante e rispettabile che ha segnato una intera generazione e ha permesso tante battaglie, ma George Steiner è andato oltre. Ha affermato che quella voce interiore deve avere una prerogativa rivoluzionaria. Quando la si ascolta in profondità si arriva soltanto ad una conclusione.
“La nostra differenza è che proclamiamo che non c’è differenza tra gli esseri umani.”
Affermare di essere ebrei non significava costruire un mondo a parte, ma gridare ad alta voce quando l’umanità veniva oltraggiata.
La memoria della Shoah è sempre dirompente quando mette in discussione l’esistente, quando sconvolge la quotidianità delle persone, quando illumina il male del tempo presente che non siamo in grado di cogliere. È un monito per la condizione umana, non una cassaforte identitaria.

David Rousset, torturato e internato a Buchenwald, aveva coniato una espressione sulla sua condizione di sopravvissuto che suscitò molti scalpori.
“Il mio destino dopo quella esperienza che mi è rimasta attaccata al mio corpo oltraggiato è quello di essere diventato uno specialista dei campi. Ogni volta che vengo a conoscenza di una situazione simile sono portato a reagire."
Rousset suscitò grande scandalo a Parigi nel dopo guerra nelle file dei comunisti perché denunciò i gulag e i campi di prigionia staliniani. Non stava zitto. Come Steiner si sentiva una sentinella del male. Diventare fino in fondo un testimone della Shoah non gli rese la vita facile perché cercarono di farlo tacere.
Sono convinto che ci sono tanti che vorrebbero che tu parlassi solo del passato e che diventassi solo una icona della memoria. Ti vorrebbero accondiscendente al Senato, una sopravvissuta che dia lustro alle istituzioni, che faccia comodo a tutti, che permetta di dire che oggi sono tutti innocenti rispetto alla barbarie di nazisti.
Tu però hai lo spirito di una ragazzina ribelle e non ci stai, come Steiner e Rousset, e quando vedi i campi dei migranti in Libia o i profughi morti in mare non hai esitazioni. Reagisci perché sei consapevole che tradiresti il tuo destino. Ricordare e testimoniare significa sempre pensare di nuovo e mettersi immediatamente nei panni di chi soffre. Hai visto in prima persona e quindi sei immediatamente empatica.

Hai colto il problema di fondo quando hai voluto con una grande intuizione che al Memoriale della Shoah ci fosse la scritta “Indifferenza”.
Chi è colpevole di fronte ai crimini contro l’umanità? Certamente chi ha il potere e vara leggi ingiuste e vuole l’eliminazione del diverso. Questi sono i carnefici.
Ma c’è un’altra categoria senza cui i carnefici non potrebbero agire. Sono gli indifferenti che stanno a guardare. Essi sono i veri arbitri della situazione in ogni epoca.
Essi avrebbero la possibilità di reagire, di fare sentire la loro voce, di fare delle azioni di sostegno alle vittime, senza troppi rischi. Ogni uomo senza alcun potere e senza una particolare vocazione all’eroismo o al sacrificio, ha comunque sempre la possibilità di essere umano. E l’umanità di ciascuno, anche nelle situazioni più difficili, si può manifestare con piccoli gesti che possono sconvolgere i piani dei carnefici. Sono quelle azioni che possono creare dei miracoli inattesi, perché non c’è peggior cosa per un carnefice che avvertire il suo isolamento. Si sente forte quando gli altri tacciono e fanno finta di non vedere.
Ecco perché hai sostenuto che gli indifferenti con il loro silenzio fanno la differenza.
Hai compreso più di altri, come Primo Levi, che è la zona grigia che rende possibile il male, perché sono le persone normali, non solo i combattenti o i partigiani, che possono spostare, con azioni umane, il corso degli eventi.
E chi ne ha la possibilità e non lo fa diventa anche lui responsabile del male.
Ha fatto una scelta precisa: la sua complicità per il suo quieto vivere.

Abbiamo discusso tante volte assieme sulla questione dei Giusti. Tu giustamente hai osservato che i Giusti sono stati troppo pochi e che non devono mai fare dimenticare le responsabilità dei carnefici. Ma con quella tua scritta che meriterebbe sotto una tua firma nel Memoriale (la voglio proporre a tutti), hai colto il concetto fondamentale dei Giusti: essi mostrano che in ogni situazione si può comunque scegliere la solidarietà, l’empatia o l’indifferenza.
Il male non è uno tsunami, un evento naturale, qualche cosa di incomprensibile. Il male nasce sempre da delle decisioni e sono sempre delle decisioni di altri uomini che lo possono fermare. I Giusti hanno questa prerogativa che mette sempre in discussione gli spettatori che guardano senza reagire: mostrano che sempre e ovunque gli uomini se lo vogliono possono essere arbitri del proprio destino. Ognuno può essere nel suo piccolo un seme di bene che può ribaltare in un modo inaspettato il corso degli eventi.
È questa sempre l’unica speranza realista a cui dobbiamo tutti aggrapparci.
Tu, con la tua severità che ho voluto ricordare con tanta ammirazione, lanci in ogni tuo intervento ai giovani questo messaggio: ricorderemo la Shoah solamente se saremo capaci di essere Giusti nel nostro tempo.
Siamo chiamati sempre a non essere indifferenti.
Altrimenti faremo soltanto della retorica che ci farà credere di essere sempre buoni ed innocenti.

Nelle tue ultime uscite mi hai ricordato una donna filosofa che amo molto e che prima di morire ha lasciato un diario meraviglioso.
È Etty Hillesum. Lei non odiava i suoi persecutori, anche se li disprezzava moralmente. Lei diceva che le facevano pena perché chi fa del male gratuito rovina non solo la vita degli altri, ma anche la sua esistenza.
Mi ricordano le tue parole sui giovani nazisti nel campo.

Socrate sosteneva che chi fa del male agli altri, fa male a se stesso.
Era perfino arrivato ad una affermazione rivoluzionaria che ancora oggi fa venire i brividi e che la filosofa Agnes Heller ha voluto come fondamento della sua etica. “È meglio subire un torto, piuttosto che fare del male agli altri.”
È anche questa la lezione della Shoah per il XXI secolo. Ogni volta che nella nostra vita quotidiana ci accorgiamo di fare un atto di prevaricazione verso un altro dobbiamo trattenerci a costo di soffrire.
Meglio soffrire che fare del male. Naturalmente bisogna anche resistere, ma anche nella nostra autodifesa non dobbiamo mai dimenticare questo insegnamento.

Grazie Liliana.
Sei una grande amica che ci insegna a vivere. E quindi per questo sei per me una ragazzina ribelle e sempre presente. È questa la vera giovinezza.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

10 settembre 2020

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