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Veil, Primo Levi, Wiesel e gli altri. La necessaria alleanza dei Giusti

di Marcello Flores

Pubblichiamo di seguito la recensione a cura dello storico Marcello Flores del nuovo libro di Gabriele Nissim Auschwitz non finisce mai (Rizzoli, 2022), uscita su Corriere.it

Gabriele Nissim è il fondatore di Gariwo, l’associazione costituitasi nel 2001 per far conoscere i Giusti, coloro che hanno cercato di contrastare un genocidio difendendo la dignità umana. 
I Giardini dei Giusti, dopo il primo creato a Milano, sono ormai un centinaio in Italia e nel mondo. Più volte Nissim è stato criticato e accusato da alcuni gruppi delle comunità ebraiche per avere sostenuto la necessità di confrontare la Shoah con gli altri genocidi e di ridimensionare, di conseguenza, l’unicità della distruzione degli ebrei rispetto ad altre gravi violenze commesse nella storia contro altri gruppi etnici, nazionali, religiosi. 

Auschwitz non finisce mai (Rizzoli) è in qualche modo la risposta di Nissim, come studioso della storia dei genocidi, al dilemma posto dalla sua attività pubblica, e che riassume nel dilemma se la memoria sia una trappola o un salvagente, presi come si è - soprattutto gli ebrei come lui - dalla necessità di non dimenticare la specificità della Shoah e dell’antisemitismo, ma anche dal rifiuto di sacralizzarla come espressione del male assoluto, evitando così di cadere in un’«ossessione nel ribadire la memoria della Shoah come evento unico nella storia» che rischia «di creare una divisione profonda tra me come ebreo e gli altri esseri umani». 

Il rifiuto di rinchiudere in un ghetto la memoria della Shoah, per timore di contaminazioni con gli altri genocidi, è alla base di un racconto costruito con grande intelligenza, originalità e gusto della narrazione. Auschwitz non finisce mai, infatti, si può dire che sia una esposizione tutta interna alla storia dell’ebraismo, della sua tragedia e della sua difficile e complicata memoria. I protagonisti del libro di Nissim, infatti, sono solo ebrei: ma attraverso di essi l’autore intende dimostrare - riuscendoci ampiamente - come la Shoah non possa essere considerata un fatto che concerne solo gli ebrei, un avvenimento ebraico, anche se loro ne sono stati le vittime, ma un evento che riguarda l’umanità intera. 

Le figure attorno a cui si snoda il racconto sono inizialmente Simone Veil, Primo Levi, Eli Wiesel. Attraverso di loro Nissim ricorda come si è costruita pubblicamente la memoria della Shoah, con difficoltà, lentezza, ostacoli. Di Levi traccia un ritratto sintetico ma profondo, mostrando anche la contraddizione insita nella sua convinzione che la Shoah si potesse conoscere ma non comprendere: un punto di vista che trova, a partire dalla fine degli anni Sessanta, una lettura irrazionale e un’interpretazione religiosa di cui l’esempio più noto è Eli Wiesel, e che per altri diventa una visione sacra che può dare finalmente uno scopo (la nascita di Israele) a quel male assoluto. 

Tra i protagonisti del libro vi è Yehuda Bauer, nemico di una «unicità» che poneva la Shoah fuori dalla storia e che vuole inserire, invece, nella tragica realtà - tutt’altro che univoca - dei genocidi. E Avraham Burg, impegnato a fare uscire gli ebrei da una situazione di vittime permanenti, dalla pulsione a far rivivere Hitler per ucciderlo ancora, come avrebbe ricordato nel 1982 dopo l’invasione del Libano Amos Oz a Menachem Begin, che aveva paragonato la Carta dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) al Mein Kampf. La figura centrale del libro, tuttavia, quella a cui è dedicato più spazio, è quella di Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che, fuggito negli Stati Uniti dopo l’invasione della Polonia, aveva inventato nel 1944 la parola, e il concetto, di genocidio, raccontato attraverso le pagine della sua autobiografia non pubblicata in Italia.

Marcello Flores

Analisi di Marcello Flores, storico

1 marzo 2022

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