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Africa

In breve

Al di là del genocidio in Ruanda del 1994, nel continente esistono molti contesti critici in cui l'odio interetnico è causa di violenze e tensioni. L’Africa oggi è afflitta da guerre e crisi che soprattutto negli ultimi due decenni hanno assunto nuove e drammatiche caratteristiche: terrorismo jihadista, malgoverno, corruzione, povertà e malessere sociale, antiche e nuove tensioni politiche, etnico-tribali o religiose, fino all’impatto dei cambiamenti climatici, che hanno aggravato situazioni già fragili, generando veri e propri scontri per le risorse - oltre che crisi umanitarie e flussi migratori.

Sudan e Darfur

Fin dagli anni '80 il Sudan è stato sconvolto da carestie e scontri armati fra reparti governativi e movimenti di guerriglia. Dal 2002 l'epicentro del conflitto si è focalizzato in Darfur, regione del nord ovest del Paese.

Il conflitto era riconducibile a rivalità etniche: da un lato la maggioranza nera, fatta da sedentari, agricoltori o allevatori, dall’altro la minoranza araba (maggioranza nel resto del Sudan), pastori tradizionalmente nomadi. Quest’ultima era appoggiata dal governo sudanese e dai janjaweed, i “diavoli a cavallo”, responsabili di attacchi contro la popolazione civile reclutati fra i membri delle locali tribù nomadi. Tra i gruppi ribelli, contro il governo, figuravano il Justice and Equality Movement e il Sudan Liberation Army Movement.

Tra il 3 settembre 2003 e il 28 maggio 2004 questi movimenti negoziarono diversi accordi di pace con le forze governative, ma le violenze in Darfur si sono fermate solo il 24 febbraio 2010, quando il presidente sudanese Omar Hassan Al-Bashir ha stipulato a Doha un accordo di pace con il Justice and Equality Movement (non con il Sudan Liberation Army).
Altissimi i numeri del conflitto: 300 mila vittime e 2 milioni di sfollati.

Durata delle violenze: 2002 - 2010

Miliziani janjaweed a cavallo vicino al confine con il Ciad, 2004.

Miliziani janjaweed a cavallo vicino al confine con il Ciad, 2004.

Donne sudanesi sfollate in un centro distribuzione cibo in Darfur, 2008.

Donne sudanesi sfollate in un centro distribuzione cibo in Darfur, 2008.

Repubblica Democratica del Congo

Fin dalla sua indipendenza nel 1960, il Paese ha conosciuto un gran numero di violenze e guerre civili. È il caso della crisi del Congo (1960-1964, crisi in cui perse la vita il Segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjold), che portò all'ascesa di Mobutu Sese Seko; poi una serie di conflitti interni; poi ancora la Prima guerra del Congo (1996-1997), fortemente influenzata dal genocidio in Ruanda, con l’invasione del territorio (allora Zaire) da parte del governo di Paul Kagame e gli scontri con Uganda e Ruanda; e infine la Seconda guerra del Congo (1998-2002, con un conflitto “figlio”, quello dell’Ituri, tra il 1999 e il 2007), con Ruanda, Uganda e Burundi da un lato, a sostegno dei ribelli Banyamulenge della regione di Goma, e dall’altro un’ampia coalizione a sostegno del presidente congolese Laurent Kabila, composta da Angola, Ciad, Sudan, Repubblica Centrafricana, Zimbabwe, Namibia e Libia.

Nel Paese in cui il Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege continua a operare e a salvare le donne vittime di stupro di guerra nell’ospedale di Bukavu, proseguono tensioni, violenze e una situazione di conflitto e instabilità che dura ormai da circa 25 anni.
A farne le spese sono soprattutto le regioni orientali, ricche di materie prime (oro, coltan, cassiterite e altri minerali), e la popolazione locale: secondo alcune stime, il clima di costante violenza ha portato a circa 6 milioni di morti per cause dirette e indirette del conflitto - senza parlare di circa 4 milioni di profughi e sfollati che negli anni sono stati costretti ad abbandonare la loro case.

Durata delle violenze: 1960 - 1964; 1996 - 1997; 1998 - 2007 - oggi

Guerrieri baluba si addestrano per la battaglia con armi artigianali nella provincia del Kasai, 1961.Mobutu arriva a Pointe Noire per i colloqui del 1997 con il leader ribelle Laurent Kabila.
Cadavere di un soldato dell'esercito congolese, 2008.

Somalia

La guerra civile che nel 1991 ha portato alla destituzione di Mohamed Siad Barre è stato uno dei conflitti più drammatici di tutta la storia africana. Da allora, il Paese si ritrova senza un governo stabile, in preda a ondate di violenza e attacchi.
Il fallimento della missione UNOSOM delle Nazioni Unite ha reso la Somalia una terra di nessuno, teatro di signori della guerra, traffici illeciti, tratta di esseri umani, fino alla formazione dei campi di addestramento delle milizie jihadiste.

Agli scontri tra clan si mescola infatti, fino a prevalere, la minaccia jihadista guidata dal movimento Al-Shabaab: l’organizzazione, nata a Mogadiscio nel 2005, in pochi anni è riuscita a controllare tutta la Somalia centro-meridionale, concentrandosi sul Corno d’Africa e colpendo chi minacciava direttamente i suoi interessi territoriali. Nel mirino sono in particolare il Governo di Mogadiscio, le truppe dell’Unione Africana, l’Etiopia e il Kenia.

Notevolmente ridimensionati in seguito alle azioni del contingente internazionale guidato da Onu e Unione Africana nel 2012, i jihadisti controllano ancora vaste zone rurali nel Sud del Paese, infiltrando i propri miliziani tra la popolazione civile e intensificando gli attentati.

Durata delle violenze: 1991 - oggi

Un membro di Al-Shabaab tiene sotto controllo la folla durante una manifestazione, 2011.

Un membro di Al-Shabaab tiene sotto controllo la folla durante una manifestazione, 2011.

Le rovine dell'ex parlamento somalo a Mogadiscio, 2013.

Le rovine dell'ex parlamento somalo a Mogadiscio, 2013.

Etiopia

Sempre in bilico tra aspirazioni di leadership regionale e fratture interne, con l’arrivo del premier Abiy Ahmed Ali il Paese sembrava avviato lungo un cammino di riforme e di stabilità. Tuttavia, dal 4 novembre 2020, l’esercito federale e il Fronte di liberazione popolare del Tigray si sono pesantemente scontrati nell’omonima regione nel Nord del Paese.

All’origine del conflitto, le tensioni tra governo centrale e leadership tigrina che, dopo aver combattuto per 17 anni il dittatore Menghistu Hailé Mariam, ha di fatto controllato l’intero Paese ed è poi stata invece ridimensionata nel controllo del potere da Abiy. Questa situazione, che alla guerra vera e propria (durata poco meno di un mese) ha visto succedere un clima di guerriglia, secondo le Nazioni Unite ha provocato quasi un milione di sfollati interni e oltre 60 mila profughi in Sudan. Due milioni di bambini avrebbero bisogno di aiuti urgenti, ma anche agli operatori umanitari - oltre che ai giornalisti - è stato impossibile accedere alla regione.

Durata delle violenze: 2020 - oggi

Ritirata delle forze del Fronte di liberazione popolare del Tigray da Mekelle prima dell'offensiva dell’esercito federale, 2020.

Ritirata delle forze del Fronte di liberazione popolare del Tigray da Mekelle prima dell'offensiva dell’esercito federale, 2020.

Sudan del Sud

Il più giovane Paese africano, nato nel 2011, perennemente in conflitto. Le ataviche rivalità tra dinka e nuer, che hanno segnato anche le nuove generazioni (nate e cresciute in un contesto di guerra) si sono trasformate in pericolosi giochi di potere per mettere le mani sul governo e sulle risorse: petrolio, acqua, terra, oro, diamanti, cromo, zinco, tungsteno, argento.

Dopo due anni dall’indipendenza, il Paese è scivolato in una vera e propria guerra civile: nel 2013 infatti si sono verificati scontri a fuoco nella capitale Juba, tra le forze fedeli al presidente Salva Kir (di etnia dinka) e fazioni ribelli legate all’ex vicepresidente Riek Machar (di etnia nuer). Tuttavia, nonostante gli accordi di pace del 2018 abbiano fatto cessare il conflitto a livello nazionale, questi hanno avuto poco impatto a livello locale: la lotta armata prosegue, con gravissime conseguenze per i civili - dichiarate “sconcertanti” dal rapporto dell’UNHCR del 19 febbraio 2021.
Secondo il Global Conflict Tracker, dal 2013 sono state uccise oltre 50mila persone, mentre coloro che sono stati costretti a sfollare internamente o nei Paesi vicini sono quasi 4 milioni. 

Durata delle violenze: 2013 - oggi

Soldati governativi a Bentiu, 2014.
Riek Machar, a sinistra, e Salva Kiir, a destra, si stringono la mano dopo la prima riunione di un nuovo governo di coalizione di transizione, nella capitale Juba, il 29 aprile 2016.Reclute con le finte pistole in legno con cui si addestrano, durante la visita del ministro della Difesa a un centro di addestramento militare a Owiny Ki-Bul, 2020.

Sahel

In tutta la regione (che comprende Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, sud dell’Algeria, nord della Nigeria, Ciad, Sudan, Eritrea), il fondamentalismo islamico e, sempre di più, il jihadismo si sono inseriti sulle tradizionali rivalità “etniche”, specialmente tra pastori e agricoltori, accentuate anche dai cambiamenti climatici e da governi sempre più fragili.

È la situazione più esplosiva e dilagante presente oggi in Africa, all’interno della quale spicca il caso specifico della Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, con i suoi quasi 200 milioni di abitanti, dove sono presenti in maniera drammatica sia il fenomeno dei fondamentalisti islamici di Boko Haram (che hanno ucciso più di 36 mila persone), sia quello degli scontri tra pastori e agricoltori nella cosiddetta Middle Belt. Corruzione, brutalità della polizia differenze sociali tra super ricchi (la Nigeria vanta diversi primati economici, insieme al Sudafrica, nel continente) e popolazione che vive in estrema povertà complicano il quadro di un Paese che ha visto quasi 2 milioni e mezzo di profughi e sfollati.

Pastori su una pianura arida nel Mali centrale.Una famiglia in fuga da Barsalogho (Burkina Faso) dopo un attacco nella zona, 2020.
Un villaggio nigeriano incendiato visto da un elicottero delle Nazioni Unite in volo tra Maiduguri e Monguno, 2017.

Repubblica Centrafricana

Un conflitto dimenticato, un Paese fuori controllo, in cui si mescolano incapacità e irresponsabilità politiche locali, interessi stranieri e mercenari desiderosi di mettere le mani sulle risorse minerarie. La Repubblica Centrafricana è teatro di scontri dal dicembre 2012. La situazione è tuttavia precipitata a marzo 2013, quando alcuni gruppi ribelli hanno rimosso il presidente François Bozizé - oggetto di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra - per sostituirlo con il loro leader Michel Djotodia.

Gli scontri che ne sono seguiti tra la minoranza musulmana (Seleka) e la maggioranza cristiana (anti-Balaka) hanno lasciato il Paese in uno stato di semi-anarchia, nonostante il ripristino delle elezioni (che nel dicembre 2020 hanno assegnato al presidente uscente Faustin-Archange Touadera un secondo mandato). A farne le spese, ancora una volta, la popolazione locale: scontri violenti, fuga delle proprie case, mancanza di cibo e acqua fanno del Paese il teatro di una vera e propria crisi umanitaria.

Durata delle violenze: 2012 - oggi

Ribelli Seleka persulstrano con un veicolo blindato il territorio a sud di Bangui, 2013.

Ribelli Seleka persulstrano con un veicolo blindato il territorio a sud di Bangui, 2013.

Combattenti anti-Balaka pattugliano la parrocchia di Gambo, 2017.

Combattenti anti-Balaka pattugliano la parrocchia di Gambo, 2017.

Mali

Nel 2012 il popolo tuareg ha lanciato un’insurrezione contro il Governo del Mali, per rivendicare maggiore autonomia politica. A loro si sono aggiunti gruppi di jihadisti islamici (del gruppo Ansar Dine, legato ad Al-Qaeda), che hanno occupato il Nord del Paese e dato vita a un clima di conflitto e instabilità che ha sconvolto gli equilibri tra le varie popolazioni.

Un conflitto che ha colpito l’opinione pubblica mondiale soprattutto per la violenza verso gli altri gruppi etnici e per la distruzione dei grandi tesori di Timbuctu, patrimonio dell’umanità. La città custodiva infatti decine di migliaia di manoscritti risalenti al periodo tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo, che si sono salvati quasi interamente dalla furia jihadista grazie al coraggio del bibliotecario Adbel Kader Haiara. Nonostante gli sforzi di Haiara, tuttavia, nel gennaio 2013 i miliziani di Al Qaeda hanno dato fuoco all’Istituto Ahmed Baba, che conservava quasi 100mila manoscritti. Dopo le biblioteche, i jihadisti sono passati ai monumenti e ai grandi santuari.

Una crisi che ha generato violenze, migrazioni, ritorsioni e rivalità tra i popoli (prima tra tutti quella tra peul, pastori nomadi, e dogon, agricoltori). Nel 2020 il Paese è stato oggetto di un nuovo colpo di stato, avviato da alcuni elementi delle forze armate maliane.

Una guardia dell'Istituto Ahmed Baba al lavoro attorno alle scatole che contenevano antichi manoscritti parzialmente danneggiati dal fuoco appiccato dai miliziani, 2013Un custode in preghiera su una tomba di Timbuktu danneggiata dai miliziani nel 2012.
Il portavoce dei soldati che si identificano come “Comitato nazionale per la salvezza del popolo” tiene una conferenza stampa a Kati mercoledì 19 agosto 2020, il giorno dopo che soldati armati hanno preso in custodia il presidente Ibrahim Boubacar Keita.

Sahara Occidentale

Il conflitto che contrappone il Marocco alle forze del Fronte Polisario è riesploso il 13 novembre 2020, con nuovi attacchi da parte dell’esercito marocchino che hanno di fatto messo fine al cessate il fuoco del 1991.

La “questione saharawi” ha inizio nel 1975, quando il Marocco approfittò della fine della Spagna franchista per cercare di impadronirsi del Sahara Occidentale, zona desertica ma ricca di miniere di fosfati. L’area era tuttavia abitata dalle popolazioni autoctone, inizialmente sopraffatte dall’ondata di coloni giunti nel territorio dal Marocco nel 1976, in quella che venne chiamata “Marcia Verde”. I saharawi tuttavia, insieme al Fronte Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Rio de Oro, dal nome dei due distretti coloniali spagnoli in cui era diviso il Sahara Occidentale), dichiararono l’indipendenza della Repubblica Democratica Araba Saharawi, riconosciuta dall’Unione Africana e da altre nazioni, ma non da UE e Stati Uniti.

Il conflitto, di fatto, lascia i saharawi senza un Paese: dopo 45 anni, la gran parte di questo popolo continua a vivere nei campi profughi in Algeria, separato dalla propria terra dal cosiddetto Berm, una barriera di 2700 chilometri - la più lunga al mondo dopo la Muraglia Cinese - formata da otto muri difensivi costituiti da bunker, fossati, pietre, sabbia, filo spinato e dal più lungo campo minato continuo del mondo, con circa 5 milioni di mine antiuomo.

Durata delle violenze: 1975 - 1991; 2020 - oggi

Una foto aerea del Berm, 2002.
Rifugiati in un campo profughi del Fronte Polisario a Smara attendono l'arrivo del Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, 1998.Ricerca visiva di mine antiuomo a Mehaires, nel Sahara occidentale.

Mozambico

Dal 2017 l’elemento jihadista è esploso anche nel Nord del Paese, nella provincia di Cabo Delgado (al confine con la Tanzania): attacchi kamikaze e decapitazioni che sembrano puntare più alle risorse di questa terra (petrolio, gas, rubini e minerali preziosi) che a un disegno politico-religioso. Alla fine del marzo 2020, la città di Quissanga è stata attaccata dai combattenti di Al-Shabaab, che hanno deliberatamente ucciso civili, bruciato villaggi e città e commesso atroci atti di violenza con i machete, proseguendo rapimenti e saccheggi per settimane.

Stando al rapporto di Amnesty International del 2 marzo 2021, anche le forze governative hanno commesso crimini contro i civili accusati di sostenere Al-Shabaab: esecuzioni extragiudiziali, atti di tortura e mutilazioni di corpi. La provincia di Cabo Delgado è una delle aree più povere del Paese, nonostante la presenza di risorse preziose: malnutrizione, scarso accesso ad acqua, elettricità e servizi igienici, tasso di povertà oltre il 50%.

In questo contesto, l’Unhcr ha denunciato quindi gravi violazioni di massa dei diritti umani, oltre che migliaia di morti e più di 500mila sfollati. Secondo l’UNICEF, 250mila degli sfollati sono bambini.

Durata delle violenze: 2017 - oggi

Una delle prime immagini diffuse dallo Stato Islamico che mostra chiaramente i suoi membri nella provincia di Cabo Delgado, 2019.

Una delle prime immagini diffuse dallo Stato Islamico che mostra chiaramente i suoi membri nella provincia di Cabo Delgado, 2019.

Un villaggio attaccato da Al-Shabaab, fuori Macomia.

Un villaggio attaccato da Al-Shabaab, fuori Macomia.

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