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Dispiegare quel foglio di carta stagnola...

Lezioni e spettacoli su "La banalità del male" di Hannah Arendt

La maestra di mia sorella faceva raccogliere alle allieve la carta stagnola, come ora si fa con i tappi di plastica, per una iniziativa benefica. C’era una cartellina nell’armadio di casa dove erano raccolti i fogli lucidi e stirati, con i segni spianati della stropicciatura. Ci divertivamo a trasformare delle palline minuscole, buttate via, in fogli lucenti imprevedibilmente estesi, nei quali vedevamo noi stessi colorati e sghembi.

In questi anni ho recitato tante volte La banalità del male – sono passati quattordici anni, e tra lezioni e spettacoli ho superato i trecento incontri- e la compagnia del pensiero di Hannah mi ha regalato relazioni, ampliamenti culturali, strumenti pedagogici. Ho conosciuto persone eccezionali per cultura, passione, testimonianza. Ma il regalo più grande che ho ricevuto è stato la percezione della mia libertà, come quando si fa una nuova attività ginnica e si percepisce un muscolo che non si sapeva neanche di avere. Non che questo sia accaduto in situazioni eroiche o clamorose, ma l’ho intravista e l’ho esperita come una delle ebbrezze dell’età adulta. Penso che questo spostamento dal pensiero speculativo all’adesione esistenziale abbia a che fare con il mestiere dell’attore che, attraverso la ripetizione e la proposta di incarnazione di pensieri, concetti, ragionamenti, sentimenti, entra in una relazione intima e speciale con le parole che pronuncia.

Penso che ciò accada anche agli spettatori: essere lettori di un saggio storico-filosofico è molto diverso dall’essere in platea, con tanti compagni, e assistere a una rappresentazione. L’ascolto collettivo è un generatore di domande e significati, e curiosamente di anno in anno sembra che i ragazzi siano preda di una certa ventata specifica, un anno più filosofica, un anno storica – in questo 2016, ad esempio, i ragazzi hanno cercato appassionatamente di trovare rime con la realtà di oggi, e non è mai mancata una domanda sulla liceità della pena di morte comminata a Eichmann. Anche i fatti di cronaca in questi anni hanno tinto diversamente le parole del testo: dalla strage di Erba all’esecuzione di Saddam Hussein, dall’arresto di Mladić ai fatti di Parigi.

A un certo punto, qualche anno fa, ho iniziato a capire che tutti quei giovani in platea erano il mio specchio, e che la ragione del mio raccontare - e raccontarmi- la storia del male banale risiede nell’insegnamento che impartisce a una zona di noi stessi sempre presente, al di là dell’età anagrafica: lo spazio dell’adolescenza, quell’età che a fatica cerca di lasciare le vecchie certezze infantili, e osservare diversamente il bene e il male, anche dentro di sé; che cerca di liberarsi dalle categorie prefissate, dall’obbedienza alle regole e agire con libertà, seguendo la propria coscienza. Ma dove sarà poi, questa libertà? Come spiegare ai giovani, e alla me stessa recalcitrante, che quella famosa libertà la hai sempre con te, come una carta appallottolata che cincischiamo in fondo a una tasca, e di cui non conosci l’estensione? e che non ti porta a fare ciò che vuoi, ma a essere ciò che sei?

In questi anni ho in parte dispiegato quella pallina da buttar via, piega dopo piega, e ne sto scoprendo l’estensione. Sono lì, con le dita da bambina con le unghie corte, a spianare con calma, per non romperlo, questo foglio lucente.

Ma perché non riesco a trovare una metafora migliore? E tu, quale useresti?

10 febbraio 2016

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