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L’eterno inciampo e il metodo della paranoia critica

di Pietro Barbetta

Salvador Dalí

Salvador Dalí

Questo contributo non menziona mai il nome del dittatore, racconta quanto accade in una ripetizione, a partire da un secolo fa. Che la storia si ripeta io non lo so, e forse quel che sto scrivendo è solo un testo di “paranoia critica”, così la definirebbe Salvador Dalí, ma, nelle circostanze di quest’anno, osservo la ripetizione di quanto accadde un secolo fa. Perciò scrivo queste riflessioni al presente o, al più, al passato prossimo. Come stesse accadendo qualcosa qui e adesso.

In una lettera a Tania Schucht, sua cognata, Antonio Gramsci scrive che vuole fare qualcosa per l’eterno: für ewig. È il 1926, il totalitarismo è già pienamente affermato. Il dittatore ha preso il potere, alcuni anni prima, con il voto della maggioranza degli italiani, in pochi anni ha incarcerato e assassinato diversi oppositori e ha sciolto ogni istituzione democratica. Eppure ci sono molti italiani che ancora lo ammirano, molti ebrei, molti cristiani, scienziati e intellettuali, molti di loro sono stati socialisti. Il regime è apertamente razzista, idea contraria alla sinistra e a ogni tipo di religione, eppure gli italiani sembrano essersi convertiti a una sorta di ideologia fanatica. Che cosa sta accadendo? Per comprenderlo, bisogna formulare un pensiero per l’eterno, un pensiero su questo strano animale che uccide all’interno della sua propria specie: l’uomo. 

Il tempo passa e la restrizione delle libertà aumenta, gli oppositori possono subire la pena di morte, molti intellettuali vanno all’estero, eppure, molti dicono che la dittatura sarà transitoria, che un italiano non può essere antisemita. Qualche anno fa si volevano cambiare i cognomi stranieri, farli diventare italiani. Edoardo Weiss, psicoanalista ebreo, è stato più e più volte aspramente sollecitato a cambiare cognome[1]; non perché è ebreo, ma perché deve italianizzarsi, si dice.

È arrivata l’alleanza con la belva umana, ma non è il segno che il dittatore condivida tutto con lui, si dice. E poi non è antisemita, è solo antisionista, dicono.

Siamo nel 1938. Insomma sono passati meno di 20 anni. Solo dopo 20 anni, una parte importante dei cittadini italiani - ebrei - che parla la nostra lingua, con le sue varianti vernacolari, che è di casa qui, anzi che è arrivata a Roma prima di noi, ha perso il diritto di cittadinanza: è diventata straniera. Il mio vicino di casa, tanto cordiale, il mio amico, il mio collega, i miei parenti di parte paterna, materna: non sono più loro. Si disvela, in tutti i suoi aspetti, il totalitarismo: la perdita dell’intimità, della relazione, la perdita della felicità. Tutto a un tratto, io, che sono l’altro, non la parte lesa, ma l’amico, il collega, il parente, mi sento strappare dentro la fiducia, l’abitudine di una frequentazione, di un’amicizia, ma non faccio nulla, mi ritrovo inerme, è troppo faticoso, bisognava farlo prima. Si spegne la luce. 

Rimarrà spenta per otto lunghi anni, nessuno saprà nulla più dell’altroSolo dopo abbiamo saputo ciò che è accaduto.

Lo sappiamo da tante fonti diverse, soprattutto da uno dei più grandi scrittori del secondo dopoguerra: Primo Levi, che racconta che cos’è la “zona grigia”. Siamo stati tutti parte della zona grigia per anni. Quanti anni? Potremmo dire che la zona grigia nasce nel 1920 e continua fino a oggi. La zona degli struzzi, che nascondono la testa sotto la sabbia. Perché? Per paura? Forse, in determinate circostanze, per non perdere il posto di lavoro, ma soprattutto per abitudine. Per contenere, mantenere il proprio Ego intatto, il proprio desco incontaminato. Nulla più della prima parte della poesia Se questo è un uomo, di Primo Levi, lo spiega.

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

voi che trovate tornando a casa

il cibo caldo e visi amici

considerate se questo è un uomo

La zona grigia è composta da tutti coloro che considerano “paranoici” quelli che - come me ora - si allarmano e si preoccupano per gli eccessi di autoritarismo che si annunciano al Paese, per la perdita progressiva delle libertà, perché vedono con chiarezza che la società sta andando a catafascio. Noi siamo i “paranoici”. 

Le discussioni interne al romanzo di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, o al romanzo Tutti i giorni di tua vita, di Lia Levi, sono paradigmatiche. È noto, la storia di oggi, quella di allora, e mille altre ripetizioni, procurano maledizioni a Tiresia, cambiano la lingua di Cassandra. La paranoia resta incomprensibile ai più. Il modo in cui Franco Citti, nelle vesti di Edipo, maltratta Julian Beck, nelle vesti di Tiresia, il modo in cui Edipo spinge la Sfinge nel baratro, nell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini, sono paradigmatici. Pasolini raccoglie le ceneri di Gramsci, come lui scrive per l’eterno. E Gramsci pone una questione chiave, quella dell’egemonia. Che cos’è l’egemonia? Come si manifesta? E come mai accade che masse di uomini subiscano l’egemonia di forze distruttive? 

Nell’egemonia c’è una componente ipnotica: una ripetizione. Inoltre, in essa si sviluppa l’abitudine all’insulto, all’individuazione di un capro espiatorio, e infine, piano piano, tutti gli elementi della zona grigia, coloro che si sono posti come alleati del dittatore, vengono eliminati, fatti fuori. Queste tre componenti: l’ipnosi di massa attraverso la ripetizione, l’insulto e la denigrazione dell’altro e la successiva eliminazione sistematica, sono passi di una escalation. Coloro che creano inciampi, rendono difficile il lavoro del dittatore, sono giusti. Forse sarebbe meglio dire giuste – perché questa attitudine è in gran parte femminile. 

Ma dove stanno i Giusti? Dappertutto. Questa la dannazione del dittatore. 

I Giusti sono come le linee di fuga di un’immagine, possono andare in parallelo o incontrarsi. Se si incontrano possono trovarsi in qualsiasi punto della tela, stanno prima della composizione, ne sono condizione di possibilità. Come in un’immagine barocca, oppure come nei quadri di De Chirico, creano profondità inedite. Come in quelli di Pollock, producono caos e per capirli bisogna pensare a ciò che è accaduto prima, fuori dalla tela. 

Sono gli striscioni ironici, quelli che non dicono neppure più: “non sei benvenuto”, ma già dicono: “venite a prenderci qui al settimo piano, se ci riuscite”, quelli che hanno cambiato la scritta “Padroni a casa nostra”, sostituendo la “P” iniziale con una “L”. Sono quelli che non si stancano di raccontare di quel bambino che si accorse che il Re era nudo. Ma anche quelli che salvano la vita degli altri con coraggio, andando incontro alle vendette del dittatore. Quelli che studiano anni e anni la materia e mostrano al dittatore di turno la complessità umana e sociale della nostra esistenza. Non è necessario essere contro il regime, neppure essere all’opposizione, per produrre gli inciampi. L’inciampo rende il dittatore furibondo, gli fa perdere le staffe, lo rende ridicolo. Perché? Frena il suo impeto ad avere una soddisfazione precoce.

Il Giusto deve sapere usare l’arte della clownerie, che, come spiega una maestra di teatro, fa ridere la gente nel mostrare i propri veri difetti. Deve sapere usare l’arte della vicinanza, perché deve prendersi cura anche del dittatore, come un medico che lo cura e gli salva la vita anche se lo considera il peggiore tra gli aguzzini. Deve saper mentire - come sostiene Jaques Derrida, un altro grande scrittore del nostro tempo - per creare ospitalità, per proteggere la vittima dal carnefice.

Il Giusto non è un moralista, al contrario è un irriverente, purché sia irriverente anche verso la sua propria irriverenza. Più facile a farsi che a dirsi. Chi lo ha fatto, non l’avrebbe mai detto, ma ci vuole intuizione.

[1] Lo ricorda Rita Corsa in un libro sulla nascita della psicoanalisi in Italia.

Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia

Analisi di

22 luglio 2019

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