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Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla

la proposta della GAMeC di Bergamo tra dolore e memoria

La GAMeC di Bergamo

La GAMeC di Bergamo

Scrivere su morte e memoria, spiegare perché come Responsabile dei Servizi Educativi della GAMeC mi sta a cuore l’elaborazione di una risposta, da parte del museo, di fronte al tema del dolore… Certo, perché il museo è memoria, prima di tutto. Ma ogni origine è una storia personale prima che istituzionale. 

Poco prima della Campagna di Russia mio nonno, monarchico e capitano dell’esercito, fece ospitare a mia nonna, in pieno centro di un paese bergamasco, una donna ebrea con la figlia. Lo seppi pochi anni fa per caso, dalle parole di mio padre. Impossibile rintracciarle, ora: troppo poche le tracce, ormai labile la memoria, e la sensazione di un vuoto nella storia della mia famiglia.
Ecco, i Bergamaschi sono così, gente di poche parole, fanno quello che pensano sia giusto e non vanno a farsi pubblicità. L’abbiamo visto nell’ospedale da campo, montato con estrema rapidità, grazie alla forza della città, l’abbiamo visto con il volontariato. Questa è l’altra faccia della città nota a tutti per le immagini dei camion dell’esercito che portano via i morti ai loro familiari, e renderanno urne. “Scatole”, così le ho sentite chiamare: “L’ho salutato e mi hanno portato una scatola”. Ho sentito tante frasi così, nella città che è stata il maelstorm della pandemia. Ma non ha fatto male solo il numero dei morti, ha fatto male la mancanza della ritualità, laica o religiosa non importa. Restituire dignità al corpo, lavarlo, scegliere il vestito della festa – quasi come le due monete d’oro che nell’antichità si mettevano sugli occhi dei morti per renderne sicuro il tragitto – avere di fianco gli abbracci, le lacrime e la compagnia di parenti e amici. Invece il vuoto. Nessun contatto, nessuna carezza. Nessuna dignità. Nessuna prossimità. Questo nelle case dei familiari… penso al quadro Quelli che restano della serie Gli stati d’animo di Boccioni, esposto al Museo del Novecento. Sagome fredde, tristi nella nebbia. E negli ospedali? Nelle comunità, nelle cliniche – e non facciamo differenza tra pubbliche o private perché tutte sono state presenti, a pari grado e senza risparmiarsi - ? Nelle residenze per anziani? Gli ospedali non sono forse luoghi di cura? Le residenze non sono luoghi in cui risiedere piuttosto che morire? Anche lì non si può non pensare a operatori e operatrici, personale addetto alle pulizie, infermiere e infermieri, medici, segretarie e segretari, persone abituate a lavorare nella cura che invece si sono all’improvviso viste circondate da morti imprevedibili.

Io so cosa vuol dire non avere tracce. Rimpiangere di non avere chiesto. Di non aver saputo, o anche solo ascoltato meglio… Forse questo mi ha aiutato in questa progettualità, o così credo. Lavoro in un museo, un luogo che è parte integrante della città. In una metafora che usi il corpo come paragone, il museo è un organo, come la scuola, gli ospedali, il cinema, le attività commerciali, è un organo che cerca di mettersi in relazione con il sentire delle persone, con la loro visione della realtà, creando legami tra artiste, artisti e pubblico. Il museo è in costante dialogo con la storia, quella del passato e quella presente: le annoda, crea figure e immagini, come un arazzo, fornisce strumenti per leggere il proprio tempo, per affinare lo spirito critico, per essere testimoni di cultura, politica, società. Museo figlio delle muse, nipoti del tempo, museo che se non sa attivare la staffetta della memoria e del passaggio di generazione in generazione – secondo i cardini della tradizione ebraica prima, cristiana e islamica poi -, perde di significato e si svuota. 

Siamo un organo della città, siamo in relazione con le persone, e in un momento di sofferenza così atroce, che va affrontata, elaborata e spostata su un binario generativo, noi non possiamo tirarci indietro. Così è nata, in un dialogo frenetico nei mesi dell’urto più forte del Covid, quando il nostro quotidiano locale veniva citato dalla stampa estera per le dodici pagine dedicate ai necrologi, la decisione di attivare otto laboratori: ne parlavamo su meet io, Filippo Vanoncini e Giulio Russi, mediatori umanistici di Caritas, a cui già mi legava un progettualità pregressa. Si è aggiunto l’aiuto dell’Assessora alla Cittadinanza e alla pace, Marzia Marchesi, e di un socio del Rotary Club Bergamo Città Alta, Maurizio Bertuzzi, per garantire l’assoluta gratuità di questa proposta, in nome di un’attenzione alle cittadine e ai cittadini e a un loro bisogno, all’interno di un operato della GAMeC che in questi medi ha messo le persone al centro di ogni singola azione.

Due incontri con i mediatori e uno con un’artista, anche nostra educatrice museale, Camilla Marinoni, per fare del dolore non una forza che ci depriva di tutto, ma un evento da capire, medicare e da cui ripartire, mettendo a un tavolo chi ha perso i familiari e si tormenta per non essere stato lì e chi invece era lì, nelle strutture sanitarie, a fare le veci dei familiari, a dire “quelle parole”, a fare “quei gesti”, sentendo su di sé una grande responsabilità che non sempre è stata compresa o riconosciuta. Il museo promuove questi laboratori perché vuole davvero essere luogo di memoria generativa e non di ricordo sterile e retorico. In questo momento ci interessa la relazione con le persone, interessa a noi e agli artisti – come Antonio Rovaldi – che stiamo esponendo. E l’artista? Serve? O è lì solo perché siamo un museo? L’artista è necessaria, come i mediatori umanistici, è indispensabile come loro, perché anche lei farà nascere dal dolore un oggetto capace di dare forma alla tempesta, alla fatica, ma anche alla volontà di ripartire, in modo taumaturgico. Nulla a che fare con l’arte terapia, tutto a che fare con la capacità dell’arte di dare forma. Non dimentichiamoci che la prima volta che la figura compare, secondo Plinio il Vecchio, è quando la figlia di Butade, vasaio di Sicione, traccia il contorno del volto dell’amato che sta per partire, perché teme di non rivederlo. 

Per questo è stato scelto l’incipit della poesia di Montale. Che nessun volto sia reciso. Che la memoria non si sfolli, che la vita non si fermi. Il museo esiste per questo. Esiste per tutti, anche per chi nel museo non ci è mai andato.

25 giugno 2020

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