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​Coltivare il gusto dell’altro per salvarsi dal fanatismo

intervista a Marie Rose Moro

Marie Rose Moro è Professore di Etnopsichiatria e Psicologia Transculturale all’Università Paris Descartes e Primario del servizio ospedaliero "La Casa degli Adolescenti" nel pieno centro della capitale francese. Gariwo le ha chiesto di spiegarci quali sono le molle che spingono i giovani a subire la fascinazione del terrorismo e della violenza. Inoltre la professoressa ci ha spiegato delle sue attività con Medici senza Frontiere, a partire dal 1988, e i punti in comune che hanno con la pratica clinica in Francia. 

Che cos’è l’Etnopsichiatria?

E’ una maniera di considerare le cure ai migranti e ai loro figli il più possibile adattata alla specificità delle loro culture, quindi alla lingua, alla storia, al modo di pensare e di agire che è culturalmente codificato. Si utilizzano la psicanalisi, l’antropologia, le scienze sociali, la linguistica, l’etnografia e quant'altro. Si utilizzano la linguistica, e l’antropologia insieme alla psichiatria per comprenderli e aiutarli.

Lei ha pazienti musulmani?

La Francia è uno Stato laico e dunque i giovani vengono da noi indipendentemente dalla loro religione. Ma certamente tra i nostri pazienti migranti, che provengono dal mondo intero, alcuni arrivano dal Maghreb, dall’Africa, dall’Indonesia e sono di religione o di tradizione musulmana, perché la questione della religione è anche una questione di appartenenza. Si può appartenere alla comunitàcomunità, pregna anche di tradizione religiosa, ma personalmente non credere in Dio. Quindi la questione è complicata.

Ma ci sono dei giovani musulmani che soffrono di islamofobia, che si sentono perseguitati o discriminati come musulmani?

Non come musulmani. Oggi giorno si parla di musulmani come un blocco unico, ma ci sono diversità nelle credenze, nelle tradizioni, bisogna distinguere anche coloro che non credono in Dio. Troppo spesso vengono considerati a priori come musulmani, come se fosse deterministicamente scontato. Ma ci sono giovani migranti che provengono da certi ambienti culturali e che sono oggetti di prese in giro, soggetti a prese in giro, discriminazioni ed esclusione anche per l’appartenenza religiosa.

Secondo lei perché alcuni giovani musulmani, o di ambiente culturale islamico, aderiscono al terrorismo? Come mai proprio degli adolescenti?

Io credo che per tutti gli adolescenti, la questione centrale sia l’ingresso nell’età adulta. Questa fase è un periodo in cui si ha bisogno di avere degli ideali, dei desideri, degli interessi. In particolar modo l’adolescente ha bisogno di sviluppare il sentimento di appartenenza a un gruppo. Per questo gli adolescenti, soprattutto se si sentono discriminati, cercano nuove cose importanti a cui credere e nuovi valori. Li cercano anche attraverso le difficoltà, per dare un senso alla propria vita. Anche un senso violento, latore di morte. A volte si tratta di un senso violento, latore di morte, ma bisogna riconoscere una certa "verità di fascinazione" agli ideali di certe organizzazioni terroristiche.

I jihadisti degli attacchi a “Charlie Hebdo”, ai poliziotti e ai cittadini ebrei erano tutti giovani cittadini francesi. Esiste un problema di seconda o terza generazione dei migranti?

Le cose gravi che sono successe in Francia a gennaio sono state compiute da ragazzi nati in Francia, chiamati “di seconda generazione”. Credo che esista un reale rischio che queste persone aderiscano agli ideali del terrorismo perché sono fragili. D’altra parte anche i giovani che aderiscono al Fronte Nazionale (estrema destra in Francia) hanno qualcosa in comune con questa ricerca di valori violenti. La discriminante non è affatto la religione. Magari i loro genitori sono fedeli dell’islam, ma la questione è una ricerca di una ragione di fierezza. Naturalmente l'affiliazione che così si produce è sbagliata, però diventa particolarmente pericolosa perché trasmette al giovane quel sentimento di valore tanto ricercato e fragilizzato in lui.

Parliamo della vostra attività nei Paesi colpiti da guerre e catastrofi, con Medici Senza Frontiere, che va avanti dal 1988. Qual è la caratteristica comune ai vostri interventi nelle zone di crisi?

Un altro filone del nostro lavoro sono i ragazzi vittime di violenze durante sia le catastrofi naturali che le guerre o nella povertà estrema. Ragazzi che non potrebbero crescere in questi contesti così estremamente violenti. Medici Senza Frontiere ha creato dei programmi appositi per questi ragazzi, perché possano consolarsi, riparare le loro ferite e riprendere in mano le proprie esistenze. E che possano diventare adulti. Ma c’è una cosa in comune tra il lavoro qui in Francia e quello in quei Paesi: aiutare i ragazzi a crescere, con un lavoro di prevenzione della violenza.

In quei Paesi è possibile che i giovani si sentano in collera con l’occidente? E questa rabbia può secondo lei spiegare scelte come l’adesione al terrorismo? Che cosa si potrebbe fare per riconciliarli con l’Occidente?

Non solo gli adolescenti, ma anche le popolazioni possono non essere d’accordo con il nostro modo di fare diciamo “colonialista”, di voler imporre con la forza agli altri popoli il nostro modo di pensare e di vivere. E può darsi che alcuni sviluppino della rabbia. Ma la cosa più grave secondo me è lo sviluppo di sentimenti di frustrazione, quando non vengono rispettati gli individui e i loro bisogni. In ogni caso, perché un individuo aderisca al terrorismo, o accetti di partecipare ad atti malvagi, devono succedere diverse cose, esserci diverse fasi, devono essere superati diversi livelli che coinvolgono la politica e i rapporti di forza. E ci vogliono dei giovani disperati, senza più niente da perdere. E’l’incontro tra questi diversi fattori che è pericoloso.

Che cosa si può fare per la riconciliazione?

Io credo che si debba accettare l’idea di un’uguaglianza tra le persone, che non siamo noi i civili e gli altri i barbari. Ci sono dei meccanismi di protesta e di collera che possono trasformarsi in ideologie mortali e di prevaricazione del piùforte. Ma conoscendo e riconoscendo le diversitàpossiamo prevenire questi sviluppi.

Gabriele Nissim ha parlato del “gusto dell’altro” per imparare a prendersi le proprie responsabilità e ad agire giustamente. Può servire questo alla riconciliazione?

Certo. Purché si tratti veramente di gusto dell’altro e non “di aiutare l’altro”. Spesso anche nelle operazioni umanitarie vorremmo aiutare i giovani di un Paese e invece ci rendiamo conto che la cosa più importante è di accompagnarli, sostenerli e comprenderli mentre fanno le loro scelte. In questo indispensabile lavoro transculturale, mi sembra che la cosa fondamentale sia di poter riconoscere la bellezza di vivere e fare delle cose insieme all’altro, non necessariamente per “assisterlo”.

Alcuni dei libri di Marie Rose Moro tradotti in italiano 

Baubet T, Moro MR (Eds), Psicopatologia transculturale. Dall'infanzia all’età adulta. Roma : Koiné ; 2010.

Moro MR. Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura. Milano : Franco Angeli ; 2005. 

Moro MR. Bambini immigrati in cerca di aiuto. I consultori di psicoterapia transculturale. Torino: Utet Libreria; 2001.

Moro MR. Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni. Milano: Raffaelo Cortina Editore; 2002.

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