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Eredità del “secolo breve”: l’uomo spirituale e l’intellettuale. Il valore degli uomini liberi resiste al tempo e si ripropone come esempio su un terreno universale.

di Amedeo Vigorelli

Nella fortunata opera di Eric J. Hobsbawn sulla storia del XX secolo – Il secolo breve – si individua nel ristretto arco temporale di poco più un settantennio – 1914-1991 – l’elemento di contemporaneità a partire dal quale si può tentare una storicizzazione del nostro presente attuale. All’orecchio di una tradizione culturale come quella italiana, educata da Benedetto Croce a pensare che ogni narrazione storica e dunque «ogni storia è sempre storia contemporanea», un simile assunto non deve suonare estraneo. Ecco tuttavia come Hobsbawn lo giustifica, in apertura del suo libro:

«la distruzione del passato. O meglio, la distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono. Questo fenomeno fa sì che la presenza e l’attività degli storici, il cui compito è di ricordare ciò che gli altri dimenticano, siano ancora più essenziali alla fine del secondo millennio di quanto mai lo siano state nei secoli scorsi»1.

Questa pericolosa dimenticanza del passato e assenza di saldi punti di riferimento valoriali è spiegata dall’autore mediante la definizione del XX secolo come l’età degli estremi (così suona il titolo inglese completo del libro). Un’epoca, cioè, segnata dal conflitto tra opposte ideologie, tra cui non era possibile alcuna conciliazione dialettica. «Il mondo che è andato in frantumi alla fine degli anni ’80 era il mondo formatosi a seguito dell’impatto della rivoluzione russa del 1917»2. Era un mondo di «opposizioni binarie»: capitalismo-socialismo, mercato-stato, democrazia-totalitarismo, che si espressero nella forma di opposizione assoluta della guerra. Il conflitto tra «religioni secolari antagoniste» non poteva che risolversi in una finale rimozione della sostanza etico-politica del XIX secolo, che tutti i protagonisti all’opera nel secolo breve si erano illusi di poter abbattere senza conseguenze. Una linea di continuità tra le fasi in cui si può suddividere quell’arco temporale: età della catastrofe (1914-1945), età dell’oro (1945-1973), la frana (1973-1991) è offerta bensì dalla storia economica, dal ritmo ciclico di crescita e decrescita, crisi e sviluppo, a cui un modo di produzione capitalistico sopravvissuto a se stesso e divenuto ormai senza alternativa e senza nome ci ha da tempo assuefatti. Ma si tratta di una continuità apparente, intessuta in una trama lacerata di nodi irrisolti, che si ripresentano nel presente come un passato non compreso e non superato, destinato dunque a ripetersi.

Una interpretazione per certi versi parallela a quella di Hobsbawn è stata fornita, circa un decennio prima, dal filosofo cèco Jan Patočka nei suoi Saggi eretici sulla filosofia della storia. In particolare nell’ultimo saggio, intitolato Le guerre del XX secolo e Il XX secolo come guerra. Come farà in seguito Hobsbawm, anch’egli focalizza l’interpretazione delle dinamiche epocali del Novecento intorno al conflitto insanabile inaugurato dallo scoppio della Grande guerra, e che raggiunge la sua acme nel 1917 e nell’Ottobre russo. Gli uomini che entrarono nel conflitto con le idee del XIX secolo (quelle che Patočka qualifica poeticamente come le idee del Giorno) ne uscirono trasformati dalla esperienza di quella lunga Notte della civiltà europea. O piuttosto, ne uscirono solo in parte, se si considerano le due guerre mondiali come un unico conflitto irrisolto (che, con parola greca, l’autore definisce polemos), che proietta la sua ombra di nichilismo anche sui successivi decenni di ricostruzione e guerra fredda. Con un linguaggio che si rifà in parte a Heidegger, egli parla della verità storica come di una violenta e improvvisa apparizione della luce della verità, che subito viene oscurata dal buio della dimenticanza. A ciò allude la metafora, ripresa da Eraclito, del fulmine, che squarcia le tenebre notturne, svelando un contrasto difficilmente componibile. Metafora che Patočka riferisce alla situazione dei contendenti, nell’aspro conflitto bellico. Riprendendo l’espressione da Ernst Jünger e da Teilhard de Chardin l’autore ci parla della esperienza del Fronte. Esperienza di una Vetta valoriale, di un affratellamento al di là della morte, che è possibile far rivivere e coltivare in tempo di pace, come solidarietà degli scossi, ma ben presto dimenticata o rimossa nella luce diurna e nei miraggi di una nuova età dell’oro.

I «buoni europei» di cui parlava Nietzsche, cederanno il passo ai trionfatori della Forza, a quelli che Patočka, (alludendo ai rivali Russi e Americani, vincitori del conflitto mondiale) chiama gli eredi ipertrofici della civiltà europea. Il prolungato Viaggio al termine della notte, la catastrofica scossa tellurica che ha sconvolto il vivere europeo, non ha portato a una diversa consapevolezza e a una nuova solidarietà collettiva, ma si è incanalato nei comodi letti di quella che l’autore cecoslovacco chiama superciviltà. Con questa originalissima espressione, da lui coniata negli anni Cinquanta, si intende la razionalizzazione funzionale della vita collettiva, la promessa di una felicità garantita dall’accesso universale alla ricchezza e ai beni di consumo, secondo una duplice versione, radicale o moderata, che ha interessato i pur diversi regimi socio-politici dell’Est e l’Ovest del mondo. Il primo modello (quello del socialismo reale) puntava a realizzare un dominio totalitario della ragione tecnico-scientifica sull’irrazionale, con la creazione dell’uomo nuovo. In tale versione di superciviltà, non si fa più differenza tra sacro e profano, tra vita quotidiana e festa rivoluzionaria, ma tutto viene finalizzato alla promessa di un benessere collettivo a venire. La seconda versione (quella liberal-democratica) puntava piuttosto su una separazione tra pubblico e privato, in grado di compensare la necessaria alienazione lavorativa della massa, con l’assicurazione all’individuo di un tempo liberato (anche se, nella realtà, colonizzato dal consumismo, dalla noia, o dalla fuga nell’anomia).

Ho voluto richiamare – anche se in forma molto abbreviata – il punto di vista del filosofo della storia, non in polemica con la prospettiva storiografica dello storico professionale (qual è Hobsbawm), ma piuttosto per allargarne e approfondirne la prospettiva. Se già lo storico individuava la difficoltà, per un presente senza memoria, di recuperare l’eredità problematica del XX secolo, il filosofo ci indica con maggiore precisione il rimosso che dobbiamo sforzarci di interrogare, se intendiamo fare memoria (e dunque ereditare) la lezione del secolo breve. Sappiamo che una delle maggiori rimozioni, che ha reso difficile il riemergere di una attiva solidarietà degli scossi, nei decenni che sono seguiti alla conclusione delle due guerre mondiali, ha riguardato la memoria dei genocidi e degli etnocidi europei. Il genocidio degli armeni, che ha interessato la Grande guerra. La soluzione finale della Questione ebraica, la cui tragica messa in opera, da parte di Fascisti e Nazisti, ha assunto le forme tipiche della guerra di sterminio, in quella parte d’Europa che è divenuto consuetudine definire come Terre di sangue3. Per quello che riguarda la memoria della Shoah, sappiamo come essa sia stata a lungo oscurata dalla falsa contrapposizione di due diverse figure memoriali: quella della vittima e quella del resistente. Ci è voluto molto tempo, perché venisse superata la contrapposizione tra l’esaltazione del comportamento eroico dei resistenti e il disprezzo del presunto comportamento passivo o corrivo delle vittime ebraiche nei Lager nazisti. Per quanto riguarda poi la memoria del Genocidio armeno, sappiamo come essa non sia neppure oggi divenuta patrimonio universale, a causa principalmente della difficile integrazione tra Europa e Turchia. È come se le più antiche memorie si frapponessero a quelle più recenti, in quella che un arguto filosofo italiano, Giuseppe Rensi, descrive nelle sue lettere come la «lotta darwiniana per la sopravvivenza tra i morti», per ottenere un posto riconosciuto nella memoria dei vivi. Ed è quello che ci ricorda Primo Levi nella celebre distinzione tra sommersi e salvati. Può l’espressione usata da Patočka, per riferirsi a una necessaria solidarietà degli scossi, aiutarci ad affrontare la difficoltà?

Con la metafora della scossa, nel suo primario riferimento al carattere traumatico dell’esperienza del Fronte, Patočka allude evidentemente alla morte come quella esperienza-limite di cui parla l’esistenzialismo tedesco, come modalità universale dell’essere nel mondo e apertura a una possibile libertà trascendentale. Attraversare questa esperienza ed esserne all’altezza, significa frapporre un momento di rottura e di scelta, nella continuità passivamente vissuta dell’esistenza quotidiana, pronunciare un «no» consapevole, un «mai più» deciso alle logiche scontate, che hanno prodotto la situazione tragica della reciproca uccisione, dell’immane massacro, in cui si è stati gettati. Nell’oscurità notturna, alla luce abbagliante e onirica dei bengala, che accompagnano il bombardamento dell’artiglieria e preparano l’assalto delle fanterie, matura una coscienza della impossibilità morale di accettare un futuro, che sia il mero prolungamento delle logiche del giorno (le quali presentavano la guerra come giusta e necessaria o addirittura come mezzo per arrivare alla pace). Nella disponibilità al sacrificio che intere masse di uomini, ridotti al ruolo di semplici mezzi della mobilitazione totale, maturano è implicita un’apertura ad un sentimento di responsabilità etica universale, che si indirizza alle generazioni future. Nella vissuta esperienza corporea, fisica e materiale, dell’affrontamento bellico, si fa strada l’incipiente consapevolezza di un possibile diverso accomunamento; l’appello a una fraternità tra diversi, che superi definitivamente la logica ostile amico-nemico. A tutto questo vuole alludere l’espressione solidarietà degli scossi. Ma, col successivo ritorno alla pace, ben presto nuovamente governata dalle logiche utilitarie e pragmatiche della sopravvivenza, la memoria ufficiale di questi sacrificati, delle vittime militari e civili dell’immane olocausto verrà trasmessa alla generazione dei sopravvissuti, solo nella modalità retorica e statica del ricordo e del suffragio (il culto del milite ignoto, il sacrario o il monumento ai caduti). In tale esito si riconfermano e perpetuano gli pseudo-valori del patriottismo, della bandiera, della nazione, che proprio a quelle tragedie avevano contribuito.

La responsabilità di approfondire e coltivare quelle memorie, sino ad attingerne le autentiche vette valoriali (o gli abissi di disvalore) celati in quella vicenda collettiva, è alla fine delegata al ruolo professionale di una intellighenzia di tipo tradizionale, che ha però perduto il rango, un tempo riconosciuto, di guida spirituale o di élite sacrale dirigente. Una intellettualità nella maggioranza compromessa con le responsabilità (non sempre scandagliate a fondo) del passato e coinvolta dalle nuove logiche di mercato, dalla divisione e specializzazione del lavoro intellettuale. Una intellighenzia alla ricerca di una facile collocazione nel coté ideologico di volta in volta vincente. O resa inquieta dalla rincorsa di una missione culturale, che non è più legittimata ad auto-assegnarsi. Talvolta coinvolta nel lutto per la scomparsa dell’aura di un primato morale perduto; talora inquieta o in rivolta contro un presente di cui tuttavia non riesce ad essere parte in causa responsabile. Pur nella dichiarata volontà di engagement politico e morale dell’intellettualità occidentale, è evidente una sua dipendenza dalle grandi narrazioni ideologiche del secolo breve, che non conoscono una storica consumazione, ma si ripropongono nel secondo dopoguerra come Weltanschuungen reciprocamente escludentesi.

Una presa di coscienza dei limiti di tale modello di intellettuale si fa però strada in quella parte minoritaria dell’intellettualità dell’Est europeo, tuttora alle prese con la lotta di liberazione dai totalitarismi novecenteschi. In quello che resta probabilmente il più attuale dei suoi libri (benché concepito nel contesto degli anni Settanta del secolo scorso), Guido Davide Neri, filosofo milanese allievo di Banfi, Paci e Formaggio, ha tentato una ricostruzione di questa autentica Odissea dello spirito europeo, artatamente diviso, nei decenni di guerra fredda, in sfere ideologiche contrapposte, ma unito nella rivendicazione di un ruolo autonomo e critico della filosofia contro la sua trasformazione in apparato ideologico di legittimazione dell’esistente. Aporie della realizzazione (così si intitola il libro di Neri4) ricostruisce la vicenda intellettuale di due generazioni intellettuali: la vecchia generazione dei Lukács e Bloch, legata indissolubilmente alla eredità della rivoluzione socialista dell’ottobre sovietico e quella più giovane, impegnata nella lotta per l’emancipazione dello spirito rivoluzionario dalle pastoie dello stalinismo. Due generazioni legate, ma anche separate, da quello che Neri individua come «lo spirito del 1956», che non coincide con la storia ufficiale della cosiddetta destalinizzazione. Questa riproporrà – sino al finale processo dissolutivo del regime comunista dell’URSS – le aporie insuperabili dello storico tentativo di attuazione statale di un’utopia egualitaria e di una scienza materialistico-dialettica, il cui limite dialettico non era rappresentato da un mero difetto di impostazione teorica o dalle oggettive difficoltà nella realizzazione di un socialismo in grado di offrire una alternativa credibile al capitalismo. Tale limite era piuttosto rappresentato della costante mistificazione ideologica della verità e nella assenza di un autentico fondamento morale di un progetto, dalla cui implementazione veniva esclusa proprio la coscienza e la responsabilità personale di quelle masse popolari invocate retoricamente come soggetto di quella edificazione. Dalla lettura di Neri emerge come tra i protagonisti più rappresentativi di due generazioni –Lukács e Bloch, Kolakowski e Kosik – sia possibile rintracciare un discorso comune, un polemos autentico per la verità. Una dialettica tra fede e scepsi, utopia e realismo, tra una cattiva e una buona prassi, che non ha perso di interesse per noi contemporanei, ancora alle prese con la problematica eredità del secolo breve.

L’interesse di Neri si indirizza, nel decennio successivo, verso un recupero della lezione etico-politica di uno dei maestri misconosciuti di quella generazione di svolta: Jan Patočka appunto. Per due volte (nel 1939 e nel 1947) costui avvertì sulla propria pelle la sofferenza della esclusione da un ruolo intellettuale pubblico, con l’allontanamento dall’insegnamento universitario decretata, la prima volta dagli occupanti Nazisti, la seconda dai protettori sovietici. La sua imponente attività scientifica e di riflessione filosofica si svolse nel silenzio e sotto il costante stigma del sospetto impostogli dall’autorità di Stato. Solo nella breve parentesi del 1968, si poté realizzare un incontro e un reciproco riconoscimento intellettuale, tra un filosofo di tradizione come Patočka e la nuova generazione rivoluzionaria, prontamente messa a tacere dall’intervento militare sovietico (come era già prima accaduto nel 1956 ungherese). Lo spirito di rivolta e di libertà del 1956, risorto con la Primavera praghese, non andrà però smarrito e verrà, ancora una volta, ad incarnarsi nell’esempio dato dall’ormai anziano filosofo. Nel ruolo di primo firmatario di Charta 77 egli affronterà impassibile la sfida del Regime, restandone vittima. Non tuttavia a difesa di un privilegio intellettuale, ma del diritto di ogni singolo cittadino di dire la verità, di difendere l’universalità dei diritti naturali e costituzionali, assumendosi in prima persona una responsabilità, che non può essere semplicemente delegata allo Stato, specialmente se di natura dispotica e illiberale.

Per il discorso che intendiamo sviluppare è di particolare interesse uno scritto di Patočka degli anni Settanta: L’uomo spirituale e l’intellettuale. In tale scritto l’autore, pur prendendo le mosse dalla definizione weberiana dell’intellettuale come professionista, estende la tradizionale idea di un’etica della responsabilità su un più ampio spettro di storica attualità, che tende ad eclissare la distinzione tra etica formale della responsabilità ed etica sostanziale della convinzione, unificandole nella nuova idea di uomo spirituale. Attraverso questa figura Patočka universalizza, estendendola alla totalità concreta delle vite personali, l’esperienza della scossa, primariamente riferita al trauma del Fronte, e via via allargata alla dimensione esistenziale del vivere autentico. Un modo di vivere inteso come apertura all’esperienza del negativo, in cui trova alimento la moralità della persona. L’uomo comune, sia esso o no intellettuale di professione, è un uomo in cammino (homo viator) verso una verità che sa essere per principio problematica e relativa, ma che non lo esime dalla ricerca di un assoluto valoriale personale. Ad esso lo vincola una responsabilità ontologica in quanto essere naturale, libero tuttavia di scegliere tra un esistere meramente naturalistico o un esistere storico, di cui egli si assume integralmente il peso e la responsabilità. In tono autobiografico, Patočka richiama quelle esperienze che «mostrano come questo mondo evidente che ci è stato tramandato sia destinato a deluderci, esponendoci a dei risultati negativi»5 . Presto o tardi, ognuno si rende conto «della incoerenza e della discordia in cui si dibattono le persone con cui viviamo, con le quali abbiamo a che fare, lavoriamo, pensiamo, impariamo». Con profonda delusione diveniamo allora consapevoli del fatto che «queste persone vivono nella contraddizione, che si scoraggiano a vicenda, frustrando i propri progetti di vita; vediamo che esse dissentono proprio su quello in cui credono». Ma vi sono esperienze ancora più dure, cui a nessuno è consentito sottrarsi, «come l’inaspettato termine della vita, la morte, il crollo di un intero sistema»6 . La differenza tra uomo ordinario e uomo spirituale è che il primo si abbandona alle evidenze superficiali e alle verità apparenti, il secondo sceglie consapevolmente di esporsi all’esperienza del negativo, in cui matura una più profonda esperienza della verità. Egli non dà nulla per scontato, ma si espone allo stupore che è in grado di suscitare il proprio contingente essere al mondo. Egli non rifiuta la presenza del negativo e del male, ma vi si espone, assumendone su di sé il peso e alleviandone, per quanto è possibile, le spalle degli altri.

Come nel caso della solidarietà tra gli scossi, si intravede qui l’apertura dell’uomo spirituale a una concreta solidarietà con l’altro, diverso ma anche simile, in quanto sottoposto a un comune destino. In altri scritti, più direttamente politici, egli assocerà questa figura di uomo spirituale a quella di concrete personalità del dissenso politico, come il premio Nobel Sacharov. Il suo rifiuto a collaborare ad un operare scientifico di cui detiene il sapere, ma non il controllo, e che può quindi essere indirizzato a fini contrari al comune interesse umano, viene da lui proposto ad esempio di scelta giusta, nella oscurità e nella incertezze dei destini futuri. La scelta apparente di Patočka di figure legate al ruolo tecnico-scientifico, anziché a quelle del tradizionale intellettuale umanista dell’occidente, non è casuale. Ben consapevole della bancarotta della scienza del XX secolo, egli ne rintraccia la radice proprio nella separazione di queste due figure intellettuali. In Patočka troviamo sia il suggestivo parallelo tra la missione culturale dello scosso e quella dell’uomo spirituale; sia il voluto richiamo al modello antico del filosofo socratico, in cui la pratica della cura dell’anima garantiva dal pericolo di una dissociazione tra sapienza e saggezza, competenza epistemica e responsabilità etica. Tale dissociazione ha segnato gli sviluppi moderni della scienza e della relativa metafisica, fino all’esito tragico di un dominio incontrastato e minaccioso della tecnica e della forza, sulla vita e il suo libero indirizzarsi verso il bene o verso il male. Anche tralasciando questi sviluppi particolari, che rimandano al debito contratto dal filosofo praghese nei confronti della duplice lezione fenomenologica ed ermeneutica di Husserl e Heidegger, ci preme sottolineare la prossimità di questa figura di uomo spirituale alla prassi di storica rilevanza di quei giusti del mondo, di cui siamo impegnati con Gariwo a fare memoria, nel nostro limitato orizzonte presente.

Qui la lezione di Patočka si incontra, senza saperlo, con quella di un altro filosofo che ha attraversato non senza scosse la prima parte del secolo breve, e a cui ci collega una eredità più vicina e diretta: Piero Martinetti. Nel recente riconoscimento alla sua biografia silenziosa e appartata del titolo di giusto dell’umanità non si è inteso tributare un omaggio alla figura dell’intellettuale professionale, di cui pure Martinetti è raro esempio nella filosofia italiana novecentesca, non ricca di grandi individualità. Bensì a quella dell’uomo spirituale, di cui si trova traccia teoretica nella sua filosofia popolare, ma di cui poi egli stesso, come limpido esempio di intransigenza morale e di resistenza alla tirannide totalitaria del Fascismo seppe dar prova, quando le imprevedibili contingenze storiche lo chiamarono a rispondere di sé, anche col sacrificio della propria individualità egoistica. Nel suo Breviario spirituale (raro esempio di breviario morale per laici e spiriti liberi), scritto nel 1923, troviamo l’iconica raffigurazione del Buddha solitario che, nella ascetica rinuncia ai frutti dell’azione, esercita la forma più alta di contemplazione e di agire. Egli la avvicina ai grandi esempi della filosofia stoica (Epitteto e Marco Aurelio), riletti in chiave attuale come modelli etici ancora validi e necessari nel presente storico. Ma la sua simpatia si indirizza maggiormente a versioni più umili e quotidiane di saggezza pratica, incarnate dalla anonima figura del giusto:

«vi è – scrive – nello spirito del giusto che soffre una secreta convinzione che il suo sacrificio non sia per essere invano: e vi è nella bontà degli uomini la tacita persuasione che nella verità profonda delle cose la loro opera oscura abbia un valore più alto che gli splendori e le grandezze del mondo. Ogni spirito veramente e compiutamente morale porta con sé, in modo più o meno conscio, questa specie di presentimento: esso è come la conclusione alla quale giunge invincibilmente la ragione che ha meditato sulla vita e disciplinato la volontà. Questa convinzione poco o nulla può aggiungere per sé al contenuto morale della vita, ma conferma, fortifica e compie tutta l’opera della ragione: in essa ha la sua origine la virtù suprema della saggezza»7 .

Non è tuttavia solo per questi accenni teoretici, ma soprattutto per la risolutezza della sua risposta all’appello della storia contemporanea, che Martinetti stesso può essere riproposto nelle vesti del Giusto. La sua biografia, povera di avvenimenti esteriori, in cui si potesse facilmente caratterizzare ideologicamente la sua professione di fede filosofica, si illuminò improvvisamente in tre date cruciali: il 1926, il 1931, il 1938. La prima è la data del VI Congresso di filosofia – l’ultimo ad essere tollerato da un regime, sempre più impegnato nell’opera di fascistizzazione della cultura – che si tenne a Milano e che Martinetti fu chiamato a presiedere. In presenza delle esplicite sollecitazioni delle autorità politiche ed ecclesiastiche (Gentile da un lato, Padre Gemelli dall’altro) ad accettare un compromesso tra filosofia e potere, Martinetti diede prova di assoluta intransigenza nel difendere il diritto alla partecipazione e alla libera manifestazione del pensiero di personalità chiaramente invise al fascismo e al clericalismo. Innanzi tutto Ernesto Buonaiuti, scomunicato e segnato come eretico vitando, la cui sola presenza al Congresso bastò a provocare lo scandalo del ritiro della componente cattolica. Ma anche Francesco De Sarlo, scienziato umanista e psicologo di spicco, bollato dagli attualisti con lo stigma del superato, la cui infiammata difesa della Libertà della cultura fornì viceversa l’occasione della accusa di manifestazione sovversiva, rivolta ai congressisti e al suo presidente, con la conseguente conclusione anticipata del congresso e il suo scioglimento, decretato dall’autorità accademica di concerto con l’intervento repressivo dell’autorità prefettizia. Inoltre il filosofo scettico Giuseppe Rensi, approdato sulla sponda del materialismo critico e dell’ateismo, dopo una prima fase di consonanze con la Filosofia dell’autorità del primo fascismo legalitario. Per non parlare di Benedetto Croce, che sia pure di mal voglia, non volle fare mancare la propria presenza, manifestamente invisa al Regime, a una libera riunione di filosofi e uomini di cultura.

La difesa della libertà di coscienza e della libera espressione del pensiero costò a Martinetti una umiliante giustificazione, di fronte all’autorità accademica, che intentò nei suoi confronti un procedimento disciplinare che avrebbe potuto avere più gravi conseguenze sulla sua carriera, ma che si dovette arrestare di fronte alla evidente buona fede di Martinetti. E di fronte alla sua fama di studioso, alieno da ogni condizionamento politico e totalmente assorbito negli studi severi e nell’indagine razionale disinteressata, cui assegnava personalmente una diretta funzione religiosa. Questa fu tuttavia la premessa di un nuovo appuntamento con la storia: l’imposizione del giuramento fascista, nel 1931, a tutti i professori universitari ordinari, cui Martinetti si rifiutò senza esitazione. Unico tra i filosofi e tra i pochissimi professori, che fossero ancora disposti ad ammettere una responsabilità sostanziale, che coinvolgeva direttamente la loro coscienza, dietro il paravento della imposizione formale, cui la quasi totalità degli scienziati e degli accademici del tempo si adattarono per conformismo o accampando giustificazioni vergognose. La scelta intransigente di Martinetti gli costò l’allontanamento dalla cattedra e l’anticipato ritiro nella rétraite meditativa della campagna (egli volle polemicamente scrivere agricoltore, al posto di professore, nella intitolazione della sua proprietà di Spineto di Castellamonte). Ogni sforzo per proseguire, anche dal volontario esilio interno la propria missione filosofica, gli costò la duplice censura, politica e religiosa, dei suoi libri più maturi, dedicati alla ricostruzione storica e filosofica del fenomeno religioso. Ciò avvenne con la messa all’Indice dei libri proibiti del Santo Uffizio romano del suo Gesù Cristo e il cristianesimo, del Vangelo e di Ragione e fede, e con il conseguente intervento del braccio secolare, che decretò il ritiro dalla circolazione e la distruzione delle copie superstiti delle sue opere, in accordo con le disposizioni concordatarie vigenti.

Un episodio meno noto, e solo di recente scoperto dall’indagine storiografica, è però forse il più importante: la sua reazione indignata alla infamia delle leggi sulla razza nel 1938. Benché sottoposto a continui controlli di polizia e con rischio di più gravi conseguenze legali, egli si rifiutava di compilare il censimento razziale obbligatorio per tutti gli Accademici (anche se a riposo dal servizio), rispedendolo al mittente. Martinetti, che stava dedicando le sue ultime forze al completamento della propria Metafisica e al rifacimento di una fondamentale monografia sull’ebreo Spinoza, non poteva concepire di sottostare a un obbligo in apparenza burocratico, ma di cui la sua sensibilità non si nascondeva le più gravi e prevedibili conseguenze. Il suo rifiuto fu messo a tacere, la sua firma addirittura falsificata, nel documento – compilato da mano anonima – che venne comunque inviato al Ministero. Ma di tale gesto (di cui si ricordava finora solo quello analogo di Benedetto Croce) non andò probabilmente smarrita del tutto la memoria: con una più stretta sorveglianza sulla sua attività, la soppressione di alcuni numeri della Rivista di filosofia di cui era l’ispiratore e il dominus indiscusso, perfino l’arresto e la breve reclusione nel carcere di Torino, per la falsa accusa di coinvolgimento nell’attività clandestina di Giustizia e libertà. Ma vi fu anche una memoria in positivo: nel coinvolgimento di alcuni tra gli allievi a lui più vicini, come Piero Carando, Maria Venturini, Eugenio Colorni, Ludovico Geymonat, nella guerra partigiana, in cui furono (con vari livelli di responsabilità) attivi protagonisti o vittime eroiche. Questi esiti finali gli rimasero (anche per la prematura morte) estranei, ma non mancarono di influenzare (in positivo o in negativo) le riletture post-belliche della sua lezione morale e civile, rimasta senza seguito e reali continuatori nella seconda metà del secolo. Il lascito più vivo della sua lezione pedagogica si può riassumere nella bella definizione di Anna Maria Samuelli, che ho scelto come sottotitolo per questo mio intervento: il valore degli uomini liberi resiste al tempo e si ripropone come esempio su un terreno universale.

E. J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991, Mondadori, Milano 2018, pp. 14-15.
Op. cit., p. 16.
Cfr. T. Snyder, Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011
4 G. D. Neri, Aporie della realizzazione, Feltrinelli, Milano 1980. Nuova edizione: Unicopli, Milano 2015.
J. Patočka, La suoerciviltà e il suo conflitto interno. Scritti filosofico-politici, a cura di F. Tava, Unicopli, Milano 2012, p. 159.
Ivi, p. 160.
P. Martinetti, Breviario spirituale, Utet, Torino 2006, p.158.


Amedeo Vigorelli, docente di Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano.



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