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Fare il bene, non per sacrificio. Dialogo con Massimo Recalcati

di Gabriele Nissim

Decalcomania, dipinto di René Magritte

Decalcomania, dipinto di René Magritte

Massimo Recalcati, interprete acuto di Jacques Lacan, nel suo ultimo libro, Contro il sacrificio (Cortina Editore), spiega in modo chiaro la funzione dello psicanalista e dell’educatore nei confronti dei soggetti affetti da distorsioni della personalità, incapaci di vivere serenamente la loro vita e di ascoltare la legge del loro desiderio e schiacciati dalle inibizioni del loro super-io. 
Due sono i compiti del terapeuta indicati come fondamentali.
- Stimolare il paziente ad accettare una sorta di autolimitazione che Recalcati definisce come il sacrificio simbolico: bisogna contenere una parte delle nostre pulsioni per accedere alla dimensione umana e sociale della vita. È quanto, del resto, sosteneva Epicuro (vedi l’interpretazione di Pierre Hadot) il quale descriveva l’impossibilità di avere tutto e invitava i suoi adepti a sapersi limitare per relazionarsi con gli altri e non diventare così schiavi di una valanga di desideri a getto continuo.
- Lavorare nell’analisi per liberare il paziente dal fantasma sacrificale che in maniera per certi versi del tutto opposta lo porta ad una rinuncia totale della propria vocazione e fa del sacrificio fine a sé stesso il metro della sua vita, facendolo dipendere dagli altri e distogliendolo così da una responsabilità nel mondo.

La domanda che mi pongo è se questa duplice sfida indicata da Recalcati possa diventare una proposta utile per la società di oggi, dove l’identità delle persone è profondamente scossa dalla questione complessa dei migranti ed è diventata un vero e proprio campo di battaglia in cui i populisti alimentano una cultura dell’odio e del nemico. Forse mai come oggi il meccanismo del disprezzo e dell’intolleranza nei confronti dell’altro va di pari passo a una fuga da ogni responsabilità.

Ma procediamo con ordine, e vediamo come Recalcati definisce i due traumi e le loro conseguenze sul comportamento delle persone.
Se un individuo si muove con lo spirito del marchese De Sade, rimane sempre un infelice, perché si fa inghiottire dalle sue pulsioni, trasforma l’altro in un suo oggetto personale, fino ad annientarlo. In questo modo è impossibile una vita sociale. Ecco perché l’uomo deve accettare un compromesso con il proprio ego per realizzare assieme agli altri una vita umana.
È quella rinuncia pulsionale che Recalcati definisce come il sacrificio simbolico, un prezzo da pagare per la realizzazione di una vita comune.

Più complesso è invece il freno inibitore che provoca negli esseri umani quello che lo psicoanalista definisce come il fantasma sacrificale, che descrive il comportamento di chi vive sacrificando in modi diversi la propria esistenza.
Apparentemente l’idea di sacrificio può sembrare un percorso positivo e ci fa immaginare la donazione della propria vita nei confronti dell’altro.
In realtà il soffocamento del proprio desiderio e della propria personalità, tipica dello psicotico, porta a degli effetti contrari, quali l’invidia, lo spirito di vendetta, un meccanismo perverso di superiorità nei confronti del prossimo, una rinuncia alla responsabilità nei confronti dell’altro, una aggressività continua.
Chi fa di questo sacrificio distorto lo scopo della sua vita, alla fine odia gli esseri umani perché si sente continuamente in credito nei confronti degli altri e non vede mai arrivare un riconoscimento. Ricatta così il prossimo con il suo sacrificio e vive questo stato distorto come una sfida masochista con se stesso, di cui non è mai soddisfatto.

Recalcati ci ricorda due figure metaforiche descritte da Frederick Nietzsche: il cammello e il prete. Il primo è per il filosofo tedesco l’animale che più somiglia ad un tipo particolare di uomo che vive per servire, rinunciare e obbedire. Rappresenta l’incarnazione dello spirito di sacrificio, è colui che rinuncia alla libertà e si rende schiavo del potente. Questo può sembrare un comportamento che nasce da uno spirito di servizio e da una indole votata alla modestia.

Invece chi, come il cammello di Nietzsche, mortifica i propri interessi, le proprie inclinazioni e i propri affetti, ed è disponibile a servire e a prostrarsi, è in realtà un uomo che per paura e viltà rinuncia all’esercizio della propria libertà.
Egli ama l’uomo forte nelle dittature e invoca il demiurgo nelle situazioni più difficili perché preferisce delegare la propria responsabilità a qualcun altro per non doversi assumere un rischio personale. Sfugge così in questo modo al peso della scelta e della libertà. Come scrive Erich Fromm, è questo il segreto della seduzione dei totalitarismi su degli individui rinunciatari. L’essere umano cerca la libertà, ma molte volte ha paura di esercitarla. Si prostra al dittatore, perché sogna che qualcuno risolva per lui tutti i suoi problemi. È dunque un sacrificio interessato, perché chi lo pratica si illude di trovare la strada più vantaggiosa.
Il prete per Nietzsche è invece colui che rinuncia a tutti i piaceri della vita terrena per poi ottenere un risarcimento definitivo da Dio nell’aldilà.
Apparentemente si muove con uno spirito di abnegazione, ma in realtà può cosi manifestare uno spirito di superiorità nei confronti degli altri uomini. Egli infatti fa della sua rinuncia il meccanismo del suo potere: uno scambio molto redditizio nel presente, come nel regno dei cieli. Nella vita terrena può fare il moralista fustigatore e guardare gli altri dall’alto in basso; in quella futura sarà premiato da Dio.

Si comporta come un prete il terrorista pronto a sacrificare la sua vita per la beatitudine nel paradiso delle vergini e che prima di immolarsi si sente moralmente superiore agli altri uomini che per lui vivono nel mondo dei vizi della decadenza occidentale; ma si comportava allo stesso modo il comunista pronto a sacrificare tutti i suoi amici e tutti suoi affetti, fino al punto di praticare la delazione, perché il bene della causa esigeva la rimozione dei propri sentimenti.

Come osserva Nietzsche, ci si può sacrificare non solo ad un Dio, ma anche a chi esercita la sua stessa funzione. È stata questa l’attrazione delle ideologie, dal comunismo al nazionalismo, dove gli uomini hanno accettato di sacrificare la loro umanità con la speranza di ottenere in cambio un paradiso in terra.
Così l’uomo, dopo la morte di Dio, ha cominciato ad adorare la sua ombra e ha fatto di quell’ombra un nuovo Dio e ha continuato così a comportarsi nello stesso modo.

Chi vive di sacrifici, oltre a ricattare subdolamente gli altri, ha fatto della mortificazione del proprio corpo un piacere perverso, come è il caso delle anoressici, ma anche di tante pratiche religiose che hanno trasformato in virtù i digiuni, la rinuncia alla propria sessualità, l’occultamento del corpo femminile, la dura vita monastica.
Potremmo forse anche parlare di uno strano esercizio mentale rappresentato dalla mortificazione della coscienza. È una sfida personale che alla fine può persino dare soddisfazione.

Pensiamo alle parole del nazista Himmler, quando si congratulava con i tedeschi che dopo uno sforzo non indifferente erano capaci, per il bene superiore della Germania, di non provare compassione per la sorte degli ebrei. Li definiva uomini altruisti, perché erano disposti a vincere un sentimento di pietas naturale di fronte all’annientamento sistematico di esseri umani. Per lo stesso motivo i terroristi dell’Isis amavano mostrarsi a volto scoperto davanti ai cellulari, quando sgozzavano le loro vittime. Non lo facevano soltanto per incutere terrore, ma per mostrare il loro eroismo nell’occultamento dei loro sentimenti umani. Il sacrificio di sé diventava piacere e valore morale. Un comportamento di cui sentirsi orgogliosi.

Come allora liberarsi del fantasma sacrificale e ritrovare la propria vocazione e la propria autenticità? In psicanalisi, spiega Recalcati, si tratta di sollecitare il paziente ad ascoltare la voce del proprio desiderio, rimossa dalla azione censoria del super-io. Bisogna restituire la singolarità del desiderio alla responsabilità etica del soggetto, disfacendo l’economia utilitarista del fantasma sacrificale.
L’uomo deve così tornare ad essere se stesso e non dipendere più dagli altri. Ritrovando la sua piena autonomia e mettendo a frutto la forza che è dentro di lui il soggetto non ha più bisogno di sentirsi in credito, di censurarsi, di sacrificarsi, di invidiare gli altri, di odiare il prossimo e di sentirsi superiore.
È il punto di partenza da cui un individuo può diventare un soggetto morale e decidere cosa è bene e cosa è male, diventando arbitro del proprio destino.

Come osserva Agnes Heller (in Breve storia della mia filosofia) “se una persona sceglie se stessa, nulla potrà determinarla dall’esterno” e così diventa causa delle sue azioni. Una persona diventa ciò che ha scelto di diventare quando parte dalla sua vocazione. Essere fedeli a se stessi è la norma principale di ogni etica della personalità.
È lo stesso punto di partenza di Baruch Spinoza, il quale sostiene che un comportamento etico nasce a partire dallo sviluppo della propria potenza. E in quel momento che l’uomo comprende che può ottenere la massima potenzialità facendo delle cose assieme agli altri.
Sono due prospettive che in sintonia con la riflessione di Recalcati mettono in discussione quella visione distorta della vita basata sul sacrificio che non porta mai ad una vera scelta morale.
Molto pertinente è l’interpretazione sulla morte di Cristo. Gesù non si sacrifica e nemmeno si aspetta di essere salvato dal padre, ma decide di morire sulla croce perché resta fedele al suo desiderio. Vuole insegnare agli uomini a non avere paura

È un punto importante di riflessione sulla filosofia dell’uomo giusto nelle situazioni difficili. Chi agisce in un certo modo non lo fa per uno spirito di sacrificio, ma perché vede compiuta la sua umanità e pensa che sia giusto farlo, in fondo con lo stesso spirito di Cristo. Siamo noi ex post che raccontiamo che gli uomini giusti si sono sacrificati per l’umanità. In realtà, quando si assumono una responsabilità, ascoltano il loro desiderio e realizzano prima di tutto se stessi.

Ma torniamo al punto di partenza. Perché la riflessione di Recalcati può servire nel nostro tempo complicato?
Se vogliamo vincere la battaglia sui migranti e sull’accoglienza in Europa, sbaglieremmo se la presentassimo come un nostro sacrificio ed una rinuncia al nostro benessere in nome di una solidarietà astratta. Sono i populisti come Salvini che spaventano la gente, sostenendo che saremo costretti a sacrificarci per loro. Non dobbiamo cadere in questo tranello.

Non c’è sacrificio nell’accoglienza, ma ricchezza morale e rivitalizzazione della nostra identità con l’apertura all’altro, in un Paese dove è caduto drammaticamente il tasso di nascita. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro per riempire tanti vuoti in tanti mestieri che rifiutiamo di fare. Sono sempre le società aperte quelle che mostrano la maggiore creatività e diventano le più dinamiche. I muri e i ghetti sono sempre l’anticipazione della decadenza.
I migranti non sono il nuovo fantasma sacrificale che ci punisce, ma sono la realizzazione della nostra vocazione. 
Naturalmente dobbiamo accettare un sacrificio simbolico quando il loro arrivo ci provoca pulsioni incontrollate. Quante volte quando li vediamo accattonare nelle nostre strade proviamo un senso di fastidio. È normale, ma lo dobbiamo superare, immaginando la ricchezza che potremmo costruire attraverso il dialogo e l’incontro.

Gabriele Nissim

Analisi di Gabriele Nissim, Presidente Fondazione Gariwo

11 luglio 2018

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