Una giovane giornalista di nome Yael si reca in un quartiere, tra Jaffa e Bat Yam, in cui israeliani e palestinesi convivono, per realizzare un reportage sulla famiglia di una donna ebrea morta da poco. Si chiamava Hanna Klibanov ma per tutti era Ana Arabia (io, l'araba), perchè dopo essere sopravvissuta ad Auschwitz, si è convertita all'Islam per sposare un arabo.
Il regista Amos Gitai sceglie un caso limite, tratto dalla realtà, per girare il suo film non tanto sull'atipicità della relazione, ma sull'accettazione da parte della famiglia e della comunità che hanno scandito la vita della protagonista, in contrapposizione all'odio, alle divisioni ed alla violenza di un mondo che non era il suo, perchè non lo viveva.
La particolarità di questa pellicola sta nella scelta stilistica con la quale il regista la confeziona; un lungo piano-sequenza, senza stacchi né tagli, per calare lo spettatore all'interno di un'intervista, ma ancor di più all'interno di una realtà. La macchina da presa segue Yael in ogni suo spostamento senza mai intercedere con la narrazione. Un film che va ascoltato con attenzione e non solo guardato, nel quale il microcosmo familiare di Hanna, diventa qualcosa su cui riflettere.