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Sono dappertutto

di Yvan Attal Francia, 2016

Un presidente immaginario francese di estrema destra svela il suo piano per salvare l’economia del Paese: “Dato che gli ebrei sono ricchi e si uniscono", dice al suo gabinetto, "diventiamo tutti ebrei!"

A Tel Aviv il Mossad si interroga sul momento esatto in cui è iniziata la rovina degli ebrei e decide che è la nascita di Gesù. Così mandano un sicario indietro nel tempo per ucciderlo. Ma le cose si complicano quando i locali pensano che l’uomo sia il messia.

Nella periferia di Parigi un uomo depresso e con i debiti fino al collo litiga con i genitori ebrei osservanti e mette in dubbio le sue origini ("Non esistono ebrei poveri"), per poi tentare una riconciliazione quando il padre vince al lotto e diventa, finalmente, un ebreo ricco.

Sono dappertutto (Ils sont partout) è un film grottesco a episodi che ha fatto parlare molto di sé all’uscita nelle sale cinematografiche, in una Francia tormentata dagli attentati terroristici riconducibili a Daesh. Ogni storia, così eccessiva da sembrare verosimile, racconta gli aspetti tipici dell’antisemitismo annaspando in tutti i luoghi comuni più comuni: sono dappertutto, sono ricchi, tramano contro di noi e hanno il monopolio della sofferenza. “E allora gli armeni, i polacchi, gli italiani, i neri? Non hanno sofferto anche loro?”, si chiede un personaggio del film con i capelli rossi, che finirà per organizzare una “giornata dei rossi” ispirata a quella dedicata alla Shoah.

Del resto, “cosa significa essere ebreo?”, si domanda il regista Yvan Attal, che nel film interpreta un ebreo che durante una seduta dallo psicanalista ammette di essere ossessionato dall’antisemitismo. Le sue paure sono il filo rosso tra i vari episodi della pellicola ma anche il sostrato che nella realtà lo ha portato a pensare questo lavoro.

Yvan Attal ha dichiarato di averlo realizzato "in risposta a un malessere che sento, come ebreo, nel mio paese". Da una parte questo malessere si fonda sui succitati terribili eventi: quattro persone uccise nel 2015 nel supermercato kosher di Parigi; l'attacco del 2012 alla scuola ebraica di Tolosa; circa 800 denunce a sfondo antisemita segnalate ogni anno in Francia.

Ma non solo. Il film si interseca con le vicende private del regista Attal, nato in Israele da migranti ebrei algerini che si trasferirono in Francia quando lui era bambino. "I miei genitori mi hanno sempre ripetuto che il nostro giudaismo era una storia privata e intima", ha raccontato recentemente Attal, soffermandosi sul fatto che nel suo contesto famigliare l’ebraismo non andava oltre al mangiare couscous tutti insieme il venerdì sera. “In pubblico, dovevi integrare e agire come ‘francese’”.

Eppure, spiega Attal, diventato adulto gli altri, in modo preoccupante e senza il suo consenso hanno iniziato a sottolineare il suo ebraismo o a vederlo come centrale nella sua identità. Basti pensare che alcuni giornalisti lo hanno descritto come franco-israeliano, "perché non possono dire che sono ebreo". Nelle cene si è sentito "ebreo designato", chiamato a dover prendere posizione nelle nefandezze del governo israeliano.

Approfondire l’identità religiosa o l’origine etnica di qualcuno nella Francia contemporanea è una questione estremamente delicata. Gli ebrei ne sono particolarmente sensibili, ricordando che imprimere "Juif" sui passaporti delle persone durante la seconda guerra mondiale fu il primo passo verso le espulsioni e i campi di concentramento. E del resto il titolo francese del film, "Ils sont partout" è un riferimento al raccapricciante quotidiano collaborazionista Je Suis Partout.

L’altra faccia dell’antisemitismo francese, ben sottolineato nel film, è il pregiudizio stesso verso altre identità spesso tacciate di odiare gli ebrei. In una scena una giornalista ferma per strada un ragazzo nero e gli chiede se il complotto giudaico esista; l’uomo si arrabbia e si chiede se la domanda gli è stata posta a causa del colore della sua pelle. La stessa intervista viene fatta a un ragazzo dalle sembianze arabe, che in realtà si rivela essere un insegnante ebreo.

Giocando con l’eccesso, il film ci insegna che tutti gli stereotipi sono sbagliati e pericolosi. Come quello che gli ebrei sono ricchi. Quando nel 2006 una banda di criminali rapì, torturò e uccise brutalmente Ilan Halimi, i perpetuatori rimasero sorpresi dal fatto che la famiglia del ragazzo, pur essendo ebrea, non fosse ricca e quindi non potesse pagare un riscatto, che invece chiesero a un rabbino.

Il film si chiude con Attal che racconta allo psicanalista di aver accettato di recitare in un film in cui deve interpretare un musulmano integrato nella società ma costretto a dover convivere con tutti i clichè sull’islam. “Il vero problema è che veniamo classificati come ebrei, musulmani, omosessuali” fa dire Attal al suo personaggio. “Mi piacerebbe solo recitare la parte di un uomo”. Una sfida molto difficile in un paese in cui aumentano i disagi sociali e l’identità viene usata per cercare nemici a cui attribuire la propria infelicità.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

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