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The Social Dilemma

di Jeff Orlowski Documentario distribuito da Netflix sulle contraddizioni sociali dei social media

Il documentario esce in un momento storico particolare: a un passo dalle elezioni USA che hanno in mano le sorti del mondo - o almeno di una parte - mentre Donald Trump impegna l’attenzione pubblica con la decisione se vietare o no il social cinese Tik Tok, facendo passare per necessario il fatto che sia lui, presidente al termine del mandato, a scegliere per la terza volta un giudice della Corte Suprema statunitense, con una favorita conservatrice che sbilancerebbe ulteriormente l'organo (6 conservatori, 3 liberali).

Un quadro dai colori drammatici a tratti ironico, diretto e firmato da Jeff Orlowski, già autore di Chansing Corals (a caccia di coralli) - denuncia della sparizione dei coralli girata sotto il mare -, con Davis Coombe, Vickie Curtis. È un contenuto — che l’autore ci sfida a guardare senza toccare nemmeno una volta il nostro cellulare - sulla manipolazione degli impulsi, sulla dipendenza dai social media non come conseguenza ma come obiettivo delle grandi piattaforme, attuata con la profilazione degli utenti, notifiche push, induzione allo scrolling compulsivo; che non dice molto di nuovo per chi mastica la materia ma che certamente è singolare nelle modalità di realizzazione.

Partendo dalla forse più teatrale che significativa frase “If you are not paying for the product then you are the product” (se non stai pagando per un prodotto vuol dire che il prodotto sei tu), viene messo in scena in modo diretto e chiaro un continuo passaggio da interviste (purtroppo dai protagonisti quasi esclusivamente uomini) a “pentiti” ex componenti illustri di Google, Facebook, Pinterest e altri colossi, che hanno contribuito a costruire i social media come li conosciamo oggi, alla storia verosimile di due adolescenti che subiscono le conseguenze negative del loro utilizzo incontrollato dei social media, mentre una specie di scienziato folle, interpretato da un convincente Vincent Paul Kartheiser, segue spasmodicamente tutti i movimenti della sue “creazioni” per tenerle costantemente incollate allo schermo.

Le parole degli intervistati ci mostrano le contraddizioni pericolose di un sistema in cui, come dice Tristan Harris, esperto di etica del design ex dirigente di Google, “per la prima volta nella storia 50 designer hanno preso decisioni che avrebbero avuto un impatto su due miliardi di persone”, una realtà in cui poche ricchissime aziende private governano ciò che ogni giorno vediamo e leggiamo. Si parla dell’aumento della depressione e dei suicidi nei giovani, dell’assuefazione alla sovrabbondanza di notizie e prodotti che non ci fanno vedere sfide più urgenti come quella del clima, della crisi della democrazia spinta anche dalla mancanza di dialogo positivo e dalla lettura di punti di vista guidati, sempre uguali al nostro, che ci vengo propinati perché “ci piacciono”. I nostri dati personali diventano quindi un immenso patrimonio su cui costruire guadagni in cambio dell’apparente soddisfazione del nostro bisogno di connessione interpersonale.

Tutto vero, ma questa narrativa spaventosa ci viene però presentata nel film priva di contesto, come una maledizione calata dall’alto, e non inserita in un insieme di fattori e responsabilità che concorrono alle conseguenze citate; l’indebolimento generale dei principi fondativi delle società democratiche non è stato prodotto solo dai social, da aziende cattive, ma anche, per esempio, da governi che essi stessi hanno messo la logica del profitto di fronte alla collaborazione internazionale per il bene delle persone. È giusto che il documentario sia disturbante… ci fa riflettere che i protagonisti delle interviste siano i primi a proibire ai loro figli di usare gli strumenti che hanno lavorato per rendere irresistibili, ma non si dice molto a proposito di come potrebbero essere utilizzati in modo migliore, più umano. Basti pensare a chi li ha usati per far emergere violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. Tra chi estremo dice “cancellate subito i vostri account social” e chi ha fiducia che si possa ancora trovare un modo etico di usarli, il nodo sta quindi nella mancanza di una presa di coscienza globale del problema da parte di chi ha il compito di tutelare le persone e i diritti, di una reazione concreta. Non bastano leggi a compartimenti stagni e non possono essere realtà private a regolamentare un qualcosa che ha conseguenze così impattanti. E ancora, sta nella troppo marginale educazione alla conversazione, al mondo digitale, in cui tutti, adolescenti per primi, dobbiamo sapere di avere anche dei doveri.

Quella di Orlowski non è una presentazione esaustiva della questione, ma ci stimola a pensare. Per questo vale la pena di guardare The Social Dilemma. Anche se, messo a disposizione da Netflix, entra a far parte esattamente di quel sistema di algoritmi da cui ci mette in guardia e non stupisce se alla fine di questa recensione avrete già ricevuto una notifica che dice “forse ti potrebbe interessare…”.

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

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