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La vita intellettuale della violenza

di Brad Evans e Richard J. Bernstein

Il pensiero di Tzvetan Todorov, l'attacco al Louvre di Parigi, l'insensata violenza della polizia contro un giovane nero in Francia, le incertezze e i timori dell'era Trump. Che cosa hanno in comune? Forse c'è un filo conduttore nella Filosofia di pensatori come Hannah Arendt e Walter Benjamin che porta a definire le tappe di una sorta di "storia della violenza", che aveva interessato anche Todorov. Una storia che ha visto le peggiori tragedie, ma che non è esente da un filo di speranza nel futurocome mostra questa conversazione tra Brad Evans e il professor Richard J. Bernstein, docente alla New School for Social Research a New York. Il suo ultimo libro è “Violence: Thinking Without Bannisters.” (Violenza: pensarci senza paraocchi). Le sue parole sono illuminanti.

Brad Evans: Una parte considerevole del suo lavoro è dedicato all’analisi dettagliata delle dimensioni intellettuali, piuttosto che fisiche, della violenza, comprese le strutture della violenza come quelle che intendono affrontare movimenti come Black Lives Matter (movimento contro le uccisioni dei neri da parte della polizia) e anti-Dakota Access Pipeline (una protesta particolarmente riuscita di stampo ecologista, per difendere i diritti dei nativi americani su una terra interessata dalla costruzione di un oleodotto – Ndt). Perché?

Richard J. Bernstein: Questi gruppi sono importanti perché stanno ponendo una sfida a livello delle difficoltà che si affrontano normalmente quando si cerca di criticare la violenza strutturale, che spesso sfugge all'attenzione, anche se in bella vista.

Prima di tutto mi sia permesso di parlare di una questione che è implicita nella sua domanda. Penso che dobbiamo fare attenzione al contesto storico nel quale parliamo della violenza, compresa quella strutturale. Troppo spesso prendiamo il danno fisico o l’uccisione come unico paradigma della violenza, ma questo può fare sì che non vediamo altre forme di violenza che comportano umiliazione e sofferenza.

Ma ciò che è ancora più importante è che ci sono comportamenti che non sono considerate violenti in una certa fase della storia, ma sono denunciati come tali in un’altra. Mi si lasci fare un esempio classico. Molte persone leggono “I dannati della terra” di Franz Fanon come una glorificazione della violenza rivoluzionaria, ma io penso che questa sia una lettura gravemente errata. Il punto chiave del libro è di esporre la cruda brutalità della violenza coloniale contro la quale erano dirette a resistere quelle lotte. Per lunghi periodi della storia, il colonialismo era visto come un modo “legittimo” di civilizzare le popolazioni native. Finché quella violenza non fu almeno riconosciuta dagli imperi coloniali, rimase “giustificata” come strumento per fare valere la legge e l’ordine.

Oggi, per effetto delle opere come quelle di Fanon e di altri autori dell’epoca del post-colonialismo, tutto l’orrore della violenza coloniale è stato denunciato. Possiamo dire lo stesso anche per molte forme di abuso sulle donne, che oggi vengono riconosciute come forme di violenza. È necessaria sempre una lotta politica per sensibilizzare le persone dalle forme nascoste e nuove di violenza, e sui modi di opporsi.

L’elemento più importante dei movimenti Black Lives Matter e anti-Dakota Access Pipeline è precisamente il fatto che essi politicizzano questioni che riguardano la violenza. Negli Stati Uniti, è esistito un mito prevalente per cui il movimento dei diritti civili e l’elezione di un Presidente nero hanno mostrato un progresso significativo nell’affrontare e risolvere “il problema della razza”, ma la verità è che gli afroamericani sono da sempre (e continuano a essere) soggetti a tutti i tipi di violenza esplicita e nascosta, mentre la violenza strutturale contro le popolazioni aborigene dell’America è stata a lungo una caratteristica della politica americana.

Non si può mai prevedere il sorgere di nuovi movimenti politici che denunceranno e sfideranno nuove forme di violenza, ma ripeto, la lotta politica (perfino quando fallisce) è necessaria per denunciare e sfidare la violenza.

B.E.: Lei conosceva Hannah Arendt, verso la quale oggi abbiamo senza dubbio ancora un considerevole debito intellettuale, specialmente in termini di pensare all’oppressione e alla violenza. Come pensa che la Arendt vedrebbe il mondo oggi?

R.B.: Sì, effettivamente ho conosciuto Hannah Arendt nel 1972, e abbiamo avuto molti scambi prima della sua morte avvenuta tre anni più tardi. Sono sempre stato coinvolto nel suo pensiero. Senza dubbio se fosse viva, penso che sarebbe orripilata da quello che sta avvenendo negli Stati Uniti e in tutto il mondo adesso. I fatti di questi giorni confermerebbero le sue peggiori paure circa le tendenze disastrose e degradanti dell’età moderna.

Quando Arendt parlava di tempi oscuri, non si riferiva esclusivamente agli orrori del totalitarismo. Nel suo libro “Uomini in tempi oscuri”, scrive: “È funzione del regno pubblico gettare luce sui casi degli uomini fornendo uno spazio di presenza in cui possono apparire con le loro azioni e parole, nella buona e nella cattiva sorte, e con quello che possono fare, quindi l’oscurità viene quando questa luce si estingue a causa dei “divari di credibilità” e del “governo invisibile”, a causa del discorso che non svela la propria natura ma la nasconde sotto il tappeto, con esortazioni, morali e di altro genere, che con il pretesto di affermare vecchie verità, degradano tutta la verità a banalità priva di senso”. Arendt scrisse queste frasi nel 1968, ma penso che esse siano ancora più attuali oggi.

Ma questo è un altro aspetto della Arendt. Lei rifiutava del tutto la facile attrattiva del catastrofismo e del determinismo storico. Sottolineava la possibilità di nuovi inizi politici, ciò che definiva “natalità”. Era profondamente convinta che le persone possono unirsi, creare uno spazio pubblico in cui deliberare e agire, e in cui possono cambiare il corso della storia.

Ecco perché avere un approccio concettuale alla violenza è così importante. Arendt traccia una netta distinzione tra il potere e la violenza come pure tra libertà e necessità.

Che cosa significa ciò? Nel suo lessico, il potere e la violenza sono antitetici. Questo all’inizio sembra paradossale – e lo è, se pensiamo al potere in modo tradizionale, in cui si intende chi ha il potere su chi o chi governa o chi sono i governati.

Max Weber definiva lo Stato come il governo degli uomini basato su una violenza che si presume essere legittima. Se questo è il modo in cui pensiamo al potere, allora Arendt ci dice che C. Wright Mills aveva ragione da vendere quando dichiarava: “Tutta la politica è una lotta per il potere; l’ultima forma del potere è la violenza”.

Contro questa filosofia del potere così radicata, Arendt oppose un concetto di potere che è strettamente legato a quello che chiameremmo “empowerment”. Il potere viene a esistere solo se e quando gli esseri umani si uniscono con lo scopo di compiere azioni deliberative. Questo tipo di potere scompare quando, per qualunque motivo, essi si distaccano gli uni dagli altri.

Questo tipo di potere è stato esemplificato nel primo movimento dei diritti civili negli Stati Uniti e in quei movimenti nell’Europa Orientale che hanno contribuito a causare la caduta di certi regimi comunisti senza ricorrere alla violenza. La violenza può sempre distruggere il potere, ma non può mai creare questo tipo di potere.

La distinzione della Arendt tra potere e violenza è anche strettamente collegato alla sua distinzione tra arbitrio e libertà. Secondo il suo concetto, l’arbitrio (liberty) è una libertà da — che sia dall’oppressione della povertà o dalla tirannia. E la libertà dai tiranni e dai governanti totalitari può richiedere la lotta armata. Ma questo tipo di libertà da o di arbitrio dev’essere nettamente distinta dalla libertà pubblica (public freedom), che per Arendt significa una realtà mondana che viene in essere quando le persone partecipano attivamente agli affari pubblici e agiscono di concerto, insieme.

Quindi, che cos'ha a che fare tutto ciò con il “mondo reale”? Un sacco di cose! Un’illustrazione dolorosa è il modo in cui l’amministrazione Bush ha “giustificato” l’intervento militare in Iraq nel 2003. Agli americani è stato detto che una volta che Saddam Hussein fosse stato rovesciato con la violenza, la democrazia e la libertà sarebbero fiorite, non solo in Iraq, ma anche nel più ampio Medio Oriente. Questo era e rimane puro non-senso.

Purtroppo, dobbiamo sempre reimparare che la libertà dagli oppressori non è mai sufficiente a creare spazi pubblici nei quali fiorisca la libertà. Raggiungere la libertà pubblica significa coltivare pratiche nelle quali le persone hanno la volontà di incontrarsi come pari, di formarsi e verificare le proprie opinioni e agire in maniera responsabile.

B.E.: Ora vorrei parlare di Walter Benjamin, un altro pensatore la cui opera è stata importante per l’analisi della violenza. Come potremmo usare il suo lavoro per sviluppare la nostra propria critica della violenza, adeguata ai nostri tempi attuali?

R.B.: Walter Benjamin è un pensatore molto complesso. Il suo primo saggio “Critica della violenza” è stato uno dei testi più discussi su questo argomento. Io credo che l’intervento di Benjamin sia importante perché egli in modo pertinente solleva le domande, e non le risposte, fondamentali che bisogna porsi a proposito della violenza. Per esempio: qual è la definizione della relazione tra legge e violenza e quando la legge causa ulteriore violenza? Qual è il ruolo della polizia nella violenza, e come gli stati tendono a ricorrere alla violenza in tempi di crisi percepita?

Piuttosto che proporre risposte facili a questi e altri interrogativi, il modo di interrogarsi di Benjamin ci mette in contatto con alcune verità capaci di sfidarci, compresa la difficoltà di definire una distinzione tra la violenza legittima e illegittima, o di spezzare i cicli di violenza sistemici.

Hannah Arendt, che era un’ottima amica di Walter Benjamin, una volta disse che l’unico modo di insegnare alle persone a pensare era di contaminarle con le perplessità che si stanno affrontando. Ciò che trovo così valido in Benjamin è che ci infetta (in quanto suoi lettori) con le perplessità che lo toccavano così a fondo a proposito della violenza.

B.E.: Lei ha parlato delle difficoltà di spezzare i cicli della violenza. Che cosa possiamo imparare dalla storia della violenza per sviluppare relazioni più pacifiche con le persone, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo?

R.B.: Io non penso che la violenza sparirà mai completamente dal mondo. Nel futuro diventeremo consapevoli di nuove forme di violenza che ora non siamo in grado di prevedere. Ma certamente non sono pessimista. Quello che impariamo dalla storia della violenza è che abbiamo bisogno di essere specifici e concreti quando ne parliamo. Non credo nel Progresso con la P maiuscola, ma credo nel progresso con quella minuscola.

Prima ho citato l’opera di Fanon e di altri che hanno criticato le forme “tradizionali” di violenza coloniale e hanno partecipato a movimenti politici e sociali per opporsi a e superare la violenza coloniale. Certamente, ci possono sempre essere regressioni, e alcuni sosterranno che ora abbiamo nuove, più sottili forme di violenza coloniale. Non contesto ciò, ma il collasso del vecchio sistema coloniale è stato un progresso nel superamento di una forma disumanizzante di violenza. Negli Stati Uniti, il linciaggio dei neri un tempo era una pratica diffusa. Ci sono voluti decenni per combattere questa forma di violenza. Questo è progresso con la p minuscola, anche se ci sono oggi nuove forme insidiose di violenza contro le popolazioni nere.

E lungo tutto il 20° secolo, abbiamo molti casi dove il potere di movimenti nonviolenti ha portato a superare la violenza dello Stati, da Gandhi in India a Solidarność in Polonia. Scopriamo simili progressi nel superare la violenza nei movimenti femministi e LGBT. Ci saranno sempre coloro che dicono che il progresso fatto è trascurabile perché la violenza non viene eliminata ma solo spostata e trasformata in nuove forme di violenza. Questo può portare a quello che il mio collega (e moderatore di questa serie di interviste) Simon Critchley chiama “nichilismo passivo”. Io non accetto le risposte nichiliste o ciniche.

Per questi motivi, credo che dobbiamo costantemente vigilare sul presentarsi di nuove (e vecchie) forme di violenza insidiosa, opporci e resistere a esse quando possiamo con la piena consapevolezza che molti dei nostri sforzi falliranno. Non dovremmo mai sottovalutare l’importanza di superare la sofferenza, il dolore e l’umiliazione di coloro che sono vittime di violenza. Mi si lasci concludere con la definizione di speranza di Christopher Lasch, che io penso sia particolarmente pertinente alla questione di identificare, opporsi e resistere alla violenza:

“La speranza implica una radicata fiducia nella vita che appare assurda a coloro che non ce l’hanno... Il peggio è sempre quello a cui lo speranzoso è preparato. La sua fiducia nella vita non varrebbe molto se egli non fosse sopravvissuto a delusioni nel passato, mentre la conoscenza che il futuro presenterà altre delusioni dimostra il continuo bisogno di speranza... L’incoscienza, una cieca fede che le cose in qualche modo si metteranno al meglio, fornisce un misero sostituto alla disposizione a vedere come si evolveranno le cose anche mentre sembrano statiche.”

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