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Il richiamo del sangue

di Kegham J. Boloyan Vision Editore, Bari, 2012

Una famiglia, due sorelle, il destino di un popolo. Il genocidio armeno, che secondo la storiografia moderna può essere considerato il primo genocidio del XX secolo, fa da sfondo alla vicenda umana della famiglia Boghosian e alle sofferenze di coloro che ne condividono la sorte. Villaggio dopo villaggio, il popolo armeno subisce la violenza dei Giovani Turchi. Intere famiglie vengono allontanate dalle loro case e costrette a trasferirsi in presunti “campi speciali” appositamente costruiti per loro. La realtà si rivelerà ben diversa: gli uomini vengono separati con la forza dai loro cari e trucidati, mentre le donne e i bambini sono costretti ad affrontare estenuanti “marce della morte” attraverso le montagne e l’infuocato deserto siriano di Der-Es-Zor. Circa 1.500.000 persone perdono la vita in questo massacro.
 “Dalla sera alla mattina, tutti gli abitanti del quartiere, grandi e piccoli, si prepararono alla partenza”. Ha inizio così, in questa “alba di sangue”, il dramma della famiglia Boghosian, che come migliaia di famiglie armene vede in pochi istanti la distruzione della propria normalità. Il capofamiglia, un bottegaio rimasto vedovo, è costretto ad allontanarsi dalle due figlie, Aghavni e Shakeh, rispettivamente di otto e sei anni, e dalla nonna delle bambine, figura centrale della famiglia.
Da questo momento l’autrice ci accompagna nella estenuante marcia delle donne e dei bambini del villaggio di Adazapari. Gli occhi della piccola Aghavni ci guidano attraverso la fatica del viaggio e ci trasmettono le immagini della tragedia. Riusciamo a sentire l’aria calda del deserto e vediamo l’infanzia delle sorelle Boghosian fare spazio a una consapevolezza quasi adulta. L’innocenza della giovinezza viene strappata alle bambine insieme ai loro giocattoli preferiti, producendo uno strappo che solo il tempo e il “richiamo del sangue” riusciranno a ricucire. Giorno dopo giorno la fatica sfinisce la triste carovana armena, e i corpi vengono abbandonati nell’arido deserto e depredati dai banditi. Ogni tentativo di fuga si rivela vano e chi tenta di sopravvivere deve resistere a sofferenze e violenze continue.
Aghavni e Shakeh presto scoprono il coraggio necessario per sopravvivere e restare unite. Dopo aver seppellito con le proprie mani l’amatissima nonna e aver dovuto abbandonare il corpo esanime del padre appena ritrovato, le due sorelline ormai sole trovano la forza di combattere il loro destino. Lasciato ogni segno dell’infanzia cercano cibo, raccolgono i beni di cui necessitano dai corpi senza vita che trovano sul loro cammino e cercano rifugio tra gli aridi cespugli per non essere catturate. Questo “mondo a due” è però destinato a dissolversi: nella città siriana di al-Bab, presso Aleppo, Shakeh scompare, rapita da alcune zingare. La stessa sorte tocca poi ad Aghavni che, dopo essere stata marchiata sul viso viene venduta a un ricco arabo di Aleppo, Hamid Bey, che si rivelerà la salvezza per la giovane. Aghavni infatti entra a far parte della famiglia di Hamid Bey, e per questo resterà sempre grata ai suoi ospiti musulmani: “È vero che parlavano una lingua diversa dalla mia, ma mi avevano trattato come una figlia. La differenza tra il popolo arabo e il popolo turco era notevole. La famiglia di Hamid Bey apparteneva ad un popolo nobile a cui il [nostro] popolo tributerà ogni onore negli anni venturi”.
Pagina dopo pagina seguiamo la vita di Aghavni, e sentiamo sulla pelle il peso del tatuaggio che lei porta sul viso. “Portavo in fronte quel tatuaggio che incideva nel mio volto il segno dell’infelicità e della spoliazione di un intero popolo”. Il marchio ricorda a lei e al mondo le sofferenze causate al suo popolo, ed è un segno indelebile sul suo corpo e nella sua memoria. Lo stile della narrazione riprende quello del cammino, della marcia nel deserto. Il percorso è però interiore, e segue la riconciliazione di una Aghavni ormai donna con il suo viso e con il suo passato.
È solo quando viene nominata direttrice della Facoltà di Infermieristica dell’Università di Damasco che si attiva “il richiamo del sangue”, riportando momenti mai rimossi dalla memoria. Una sua studentessa, Layla, la riconosce come sua zia, rivedendo in lei i tratti del viso della madre. Aghavni può quindi riabbracciare ad Aleppo la sorella Shakeh, ormai sposata con un arabo musulmano e madre di sette figli. La riconoscenza al popolo siriano non verrà mai dimenticata dalla donna, che nel 1945 durante l’insurrezione contro il mandato francese, non esita ad allestire e curare un ospedale per le emergenze a Damasco. L’atto è una conseguenza del debito di gratitudine: “In Siria abbiamo trovato una terra e una Patria, e abbiamo convissuto con il popolo arabo al quale siamo sempre riconoscenti per averci permesso il riscatto di una vita nuova”.
Vicende umane che si scontrano con la realtà. La Turchia si rifiuta tuttora di attribuire al Metz Yenghern (“il grande male”) lo status di genocidio, lasciando al popolo armeno un “lutto incompleto”.
 “Il richiamo del sangue” – pubblicato per la prima volta nel 1998 dalla Casa Editrice Cilicia di Aleppo, nella versione originale araba dal titolo “Nida’ ad-Damm” – esce ora in Italia in un’edizione curata da Kegham Jamil Boloyan (Aleppo, 1960), arabista armeno naturalizzato siriano, attualmente docente di Lingua e Traduzione Araba presso l’Università degli Studi del Salento (Lecce). Il volume inaugura una nuova collana dell’editore barese F.A.L. Vision, “I volti e le tracce”, diretta dallo stesso Boloyan, che ospiterà opere utili a promuovere la conoscenza del Vicino Oriente nei suoi molteplici aspetti: storia, società, lingua, letteratura, arte, fede e tradizioni.
Il richiamo del sangue. Ricordi… dal Genocidio armeno 1915, introduzione e cura di Kegham J. Boloyan, traduzione dall’arabo di Sabrina Coletta e Kegham J. Boloyan, revisione del testo italiano di Francesca Piccoli, F.A.L. Vision Editore, Bari, 2012, pp. 96, € 10,00.

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