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Daesh. Viaggio nella banalità del male

di Sara Montinaro Meltemi, 2020

Molti dei nostri media danno l’impressione di aver archiviato la stagione del fondamentalismo islamico. Almeno fino all’attentato europeo di turno, quando si riciclano sciatte analisi sugli scontri di civiltà e su eventuali legami tra radicalizzazioni e migrazioni. Abbiamo totalmente dimenticato quello che succede in Siria e in Iraq e relegato lo Stato Islamico al passato, quasi fosse un brutto sogno dal quale ci siamo svegliati.

Eppure la stagione di Daesh non è mai finita, il terreno socio-culturale che ha portato al-Baghdadi al potere è ancora fecondo. E, soprattutto, la guerra è ancora viva.

Per queste e per una lunga serie di altri motivi è importante leggere Daesh. Viaggio nella banalità del male di Sara Montinaro (Meltemi, 2020).

Freschissimo di stampa - è uscito lo scorso dicembre - il libro interseca alla perfezione un lungo lavoro sul campo (con interviste a ex foreign fighters e ad altre figure che, volenti o no, hanno di fatto reso reale l’immaginario distopico di uno stato islamico) ad un’attenta analisi scientifica sull’organizzazione parastatale di Daesh, i suoi strumenti propagandistici, le affinità e le divergenze con le altre interpretazioni di “islam politico”.

Scritto dal nord-est della Siria, dove Montinaro è impegnata come project manager per una organizzazione umanitaria nel Rojava, il libro è un viaggio nella banalità del male. Ma è anche un monito: i nostri schemi interpretativi sono fallaci, non sappiamo comprendere le evoluzioni di Daesh e la fluidità con cui questa e altre organizzazioni si muovono e si riorganizzano quando sono apparentemente sconfitte.

Il primo grande errore che si fa è ignorare i nazionalismi, gli intrecci con il baathismo e i collegamenti con i servizi di intelligence di mezzo mondo. Al di là dei complottismi, sono tematiche scivolose che tuttavia non possono non essere affrontate. Così come le relazioni con le mafie nostrane o gli effetti del mercanteggiare in armi e idrocarburi con partner le cui politiche hanno conseguenze devastanti sulle società civili.

La genealogia dell’Isis non può non passare dal carcere di Camp Bucca a Umm Qasr nel governatorato di Bassora, dove Baghdadi - ritenuto prigioniero di basso livello - solidarizzò con l’entourage del regime di Saddam. Né si può parlare della nascita dello stato islamico senza studiare gli altri tentativi di istituzionalizzazione dell’Islam politico.

D’altra parte, tracciare gli albori dello Stato islamico e analizzare i rapporti di potere che hanno creato il terreno fertile per il suo sviluppo sono esercizi fondamentali ma non sufficienti per capire i meccanismi di una macchina così oliata.

C’è una fortissima componente simbolica che Montinaro analizza approfonditamente, dall’utilizzo di riferimenti religiosi in ogni aspetto della governance agli elementi di “ricerca di mercato che l’Isis aveva condotto attraverso i social media prima della proclamazione del Califfato, al fine di valutare le reazioni dei fedeli”. In quest’ottica va studiata Dabiq, la rivista in più lingue che diffonde l’ideologia e la propaganda di Daesh e che sovente invita a vivere una sorta di romantica età dell’oro islamica tramite la guerra santa. Un luogo inclusivo, aperto a tutti i veri musulmani. “Correte nel vostro Stato! La Siria non è per i siriani e l’Iraq non è per gli iracheni. Lo Stato è uno Stato per tutti i musulmani!”, diceva al-Baghdadi nel suo discorso di autoproclamazione a Califfo.

Ancora più profondo e subdolo è l’uso di internet, dove è possibile “fare jihad con un click” e dove il terrore si propaga anche dal basso, “una sorta di franchising facilmente esportabile ed emulabile”.

Ma come funzionava lo Stato Islamico? L’autrice esamina tutti gli aspetti di welfare della struttura parastatale intersecando le testimonianze di diversi abitanti dello Stato islamico. Se all’apparenza può sembrare che lo stato garantisse un equilibrio di base alla popolazione attraverso gli ingranaggi dei diwan, i “ministeri”, Montinaro ne analizza tutte le incongruenze al di là del racconto della propaganda.

Molto significativo è il paragrafo dedicato ai cosiddetti “cuccioli del Califfato”: bambini maschi tra gli undici e i diciotto anni, orfani o “donati” dai genitori, addestrati a diventare la nuova generazione di jihadisti.

Da segnalare infine, un ricco capitolo sul rapporto tra donne e Daesh, probabilmente il cuore del lavoro di Montinaro. Nonostante emergano normali contraddizioni nelle interviste raccolte, è evidente come lo Stato islamico abbia reso la donna parte integrante del suo progetto politico. E probabilmente è la prima organizzazione jihadista a farlo, al netto dei terroristi ceceni in Russia. L’arrivo dalla Turchia, dove passare il confine era facilissimo, le strutture di integrazione e di insegnamento dei precetti, il matrimonio con un combattente: il pattern delle “spose di Daesh” emerge nella sua solida semplicità. Non solo succubi quindi, per lo meno non all’inizio, ma parti importanti di una struttura attraente, in cui alle donne musulmane provenienti da Occidente (e non solo) veniva promesso una sorta di “empowerment” basato sul cameratismo femminile e sulla promessa di sposare l’uomo dei sogni con cui costruire una famiglia. Dietro, ovviamente, “si nasconde in realtà una motivazione religiosa e una connessione patriarcale”. Soprattutto nel vegliare verso le altre donne e nel punirle. Un’attività non concessa agli uomini se non in caso di adulterio. L’altra faccia della medaglia è la schiavitù sessuale come arma di guerra, a partire dal “bottino” delle donne yazide. Nel libro sono presenti diverse testimonianze raccolte nei campi di Al-Hol Camp e Roj Camp.

Il volume termina con molte questioni aperte, che la fine dello Stato Islamico non ha dissipato. Ad oggi manca un vero dibattito pubblico su come comportarsi nei confronti dei foreign fighter, quello che succede in Nigeria e nel Sahel è totalmente lontano dall’interesse dei nostri media, la spettacolarizzazione dell’emergenza dei migranti non ha avuto successo nel cambiare le politiche della “Fortezza Europa” verso le migrazioni, continuano i tumulti in Iraq e a Beirut, mentre l’Egitto sprofonda nell’autoritarismo militare.

Il mondo sembra totalmente impreparato a una nuova stagione di terrore. Eppure “a questo tipo di politica bisogna trovare un argine. Una risposta che sia capace di essere l’alternativa. Dei semi sono stati già sparsi e si intravedono esperimenti di convivenza nascere qua e là”.

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

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