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V13. Cronaca giudiziaria

di Emanuel Carrère Adelphi, 2023


Durante il massacro di Srebrenica (luglio 1995), i serbi di Mladic impiegarono più di una settimana a uccidere 8000 prigionieri musulmani. Mentre li tenevano legati per notti intere con le mani sulla testa, per stancarli prima dell’esecuzione, imposero loro di non guardarli negli occhi. La maggior parte delle vittime e dei carnefici si conoscevano, erano ex-vicini di casa, ex-compagni di scuola, a volte ex-amici, quindi l’ordine di non alzare lo sguardo, oltre che ad umiliarli, serviva forse a scongiurare qualsiasi eventuale esitazione nei carnefici.

"In realtà, l’omicidio è possibile - scriveva Emmanuel Levinas nel libro Difficile libertà - ma lo è quando non si è guardato l’altro in faccia: l’impossibilità di uccidere non è reale, è morale".

"Il volto dell'Altro – chiosa un testo della Pastorale giovanile - ti viene incontro e ti dice: ‘Tu non ucciderai’. Nonostante il divieto può esserci l'assassinio, ma la malignità del male riapparirà nei rimorsi della coscienza dell'assassino".

Sarà vero? Una delle scene centrali di Shindler's List mostra un ufficiale nazista che uccide i prigionieri del lager sparando dal balcone, quasi che il cannocchiale faciliti la “caccia” perché consente di non guardare in faccia il bersaglio, ma il personaggio reale, che ispirò la scena, l’ufficiale nazista Amon Göht, oltre a sparare dal balcone, non esitava a uccidere i prigionieri sparando loro in testa a bruciapelo o colpendoli con un mattone. Göht uccideva per un nonnulla, "infastidito da un gesto insignificante o una fisionomia particolare".

Il tema dello sguardo della vittima ritorna in V13, il libro di Emanuel Carrère (Adelphi editore) che racconta il processo ai complici e all’unico sopravvissuto del commando islamista che, il 13 novembre del 2015, insanguinò Parigi, causando 130 morti e oltre 350 feriti, con una serie di raid contro lo Stade de France, i bistrot e il Bataclan. "Tutti nel parterre (del Bataclan, ndr.) hanno creduto che la loro unica possibilità di sopravvivenza fosse evitare ogni interazione con i terroristi – racconta Carrère - quando un uomo, all’inizio, si è alzato dicendo: ‘Basta, perché lo fate?’ è stato subito ammazzato. Una parola, e sei morto. Un gesto, e sei morto. Ti squilla il cellulare in tasca, e sei morto. Uno sguardo, non parliamone nemmeno".

Una scena simile avvenne nel villaggio di Ljubenic in Kosovo nel 1999.

"Era una normale operazione militare – racconta Zoran Raskovic, uno dei pochissimi criminali di guerra serbi che si siano pentiti – siamo entrati nel villaggio e abbiamo costretto gli abitanti a lasciare le loro case e a raccogliersi in centro, vicino alla moschea. Erano da 60 a 100 persone. Terrorizzate come pecore prima di essere sgozzate. A quel punto uno di loro si alzò e ci chiese: Perché vi comportate come banditi?’. Allora il comandante Nebojsa Minic (detto Il Morto) lo uccise e disse: Chiunque cerchi di offendere la polizia Serba farà la stessa fine!’. A quel punto è iniziato il massacro".

In una situazione simile, quella del Bataclan, dove la strage Jihadista ha già falciato dozzine di corpi, l’unico che viene risparmiato si salva proprio per uno sguardo. Un ragazzo, un tal Guillaume, incrocia gli occhi di uno dei killer che lo sovrasta dal palco col kalashnikov, "Ho incrociato lo sguardo di Samy Amimour (verrà ucciso poco dopo da un poliziotto, ndr) e lui mi ha fatto capire che non mi avrebbe ucciso, non per il momento almeno. Mi ha detto: Tu sei con noi. In piedi’". Si domanda – prosegue Carrère - "per quale capriccio un tizio che uccide chiunque senza distinzioni sceglie all’improvviso, fra tutte le sue potenziali vittime, qualcuno a cui fa capire con una sola occhiata che non lo ucciderà, a cui dice: Tu sei con noi’?. Forsedice con calma Guillaume, è perché quella sera non ha incrociato molti sguardi". Che gli undici ostaggi trattenuti in galleria nelle due ore successive ne siano usciti vivi, confermerebbe l’idea, sviluppata da Emmanuel Lévinas, che diventa molto più difficile uccidere un essere umano dopo che se ne è scrutato il volto. ("Ciò detto – conclude Carrère – gli atroci video delle decapitazioni dello Stato islamico contraddicono in pieno questa idea rassicurante").

V13 può essere letto come un prolungamento ideale del lavoro di Annah Harendt. Indaga la “banalità del male” dei giovani islamisti, si interroga su quella "mutazione" che ha trasformato dei giovani europei di origine araba (che non erano affatto dei relitti sociali) in spietati assassini. In Siria, alcuni mesi prima di tornare per morire da martiri a Parigi, decapitavano gli ostaggi o li bruciavano vivi, accadde col pilota giordano Muadh al-Kasasibah o con altri prigionieri sciiti o turchi.

A Sanliurfa, nel sud della Turchia, nel 2015 avevo intervistato dei profughi siriani che erano fuggiti dallo stato islamico e avevo chiesto loro come la gente "amministrata" dall’Isis, reagisse a quelle esecuzioni spettacolari, filmate come serie di Netflix e proiettate in piazza, su grandi schermi. Uno di loro rispose: "Stavamo in silenzio. Non volava una mosca. Eravamo tutti terrorizzati".

Seguendo il processo, Carrère dedica 10 mesi a cercar di cogliere negli imputati qualsiasi esitazione, qualsiasi faglia, traccia di pentimento, residuo di umanità, che contraddica la mutazione che aveva trasformato in boia e in kamikaze quelli che, pochi mesi prima di partire per la Siria, erano al massimo dei giovani sbandati dediti alla marijuana. Quando Carrère, per descrivere la conversione al Jihadismo e le tecniche per dissimularla, evoca un capolavoro della fantascienza, L’invasione degli ultracorpi, getta in qualche modo la spugna. Si scontra con la potenza della vera fede, di cui parlava Michel Foucault: quella fede che durante i secoli dell’Inquisizione permetteva ai "fedeli" di bruciare vive intere famiglie di "eretici", di ebrei o di musulmani.

"Mohamed Abrini è uno di quegli imputati che a priori non hanno niente da perdere – scrive Carrère - processato in Francia e fra poco in Belgio, prenderà due volte il massimo della pena: inutile cercare di fare buona impressione".

Di seguito, un florilegio delle sue idee: "Voi dite che io sono radicale, io invece dico che la sharia è la legge divina, ed è al di sopra della legge degli uomini. La compassione per le persone la capisco, ma gli attentati sono una risposta alla violenza. È normale, quando vi uccidono in Siria, venire a uccidere in Francia". 

I video delle esecuzioni? "Vanno contestualizzati. È come i giovani che, oggi, seguono le serie su Netflix. E poi è ora di finirla con la paranoia. C’erano un sacco di video sulla costruzione di scuole, sulle opere pubbliche, il sostegno alle popolazioni bisognose...". Il presidente, un po’ spiazzato: "Le decapitazioni, però...". "Ma è pazzesco, non pensate ad altro! Da voi fate lo stesso! Avete decapitato perfino il vostro re!". "E gli stupri sistematici di donne yazide, ridotte a schiave sessuali?". "Voi potete chiamarli stupri. Io invece li chiamo programma di natalità".

Due ore così, a sentirsi spiegare che bisogna essere veramente in malafede per vedere soltanto gli aspetti negativi nel massacro di centotrentuno persone. Due ore di cui per parte mia conservo questa immagine di grande potenza onirica: una mezza dozzina di uomini barbuti che scendono nello scantinato del caffè Les Béguines per riunirsi intorno a un computer ed eccitarsi, con gli occhi che brillano, guardando video in cui vengono costruite scuole a Raqqa. Epperò: i video in cui vengono costruite scuole a Raqqa esistevano davvero. Quelli che hanno raggiunto lo Stato islamico non erano tutti sadici. Qualcuno ci era andato per costruire un intero paese, una società frugale e spirituale secondo gli insegnamenti del Profeta.

Mimmo Lombezzi, giornalista

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