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Nonostante la paura

di Jean Paul Habimana Terre di mezzo, 2021

“I cani lo localizzarono in un baleno, e tra i latrati sentimmo gridare: ‘Nguwo, nguwo’ (‘Eccolo, eccolo’) e subito dopo ‘Nimuntabare wee, nimuntabare wee’ (‘Aiuto, aiuto!‘). Poi il silenzio della morte”.

È 1994 e il piccolo Jean Paul, dieci anni, è nascosto in un convento. La terribile milizia paramilitare degli Interahamwe sta massacrando tutta la popolazione tutsi che capita davanti ai propri occhi. Dentro al convento, per ora, i tutsi protetti dalle suore sono al sicuro. Ma la situazione può cambiare da un momento all’altro. Come quando, ad esempio, un disperato (“alto, sporco, con la barba non rasata da giorni”) fugge dalla caccia dei cani dei genocidiari, scavalca il recinto e si ritrova nel cortile del convento.

Le suore devono prendere una decisione terribile: mandare via lo sventurato, condannandolo a morte certa, oppure permettergli di rimanere nel convento mettendo a rischio l’incolumità di tutti. Optano per la prima e l’uomo, dopo aver opposto una prima resistenza, accetta coraggiosamente il suo destino, di fatto consegnandosi a morte certa.

Nonostante la paura di Jean Paul Habimana, docente di religione a Milano, è un racconto autobiografico intenso, catalizzante, che catapulta il lettore nella testa e nel cuore di un bambino solo contro l’orrore più grande. La violenza genocidaria sgorga come un fiume in piena, ma lo sguardo prezioso e onesto di un ragazzino costretto a diventare uomo troppo presto ne restituisce piccole pieghe di umanità altrimenti difficili da percepire. Al contempo, il volume scritto da Habimana racchiude anche un altro sguardo, quello pacato ma fermo di un educatore che ripensa alla violenza in funzione della prevenzione. In questo modo il male viene contestualizzato in un’immagine più ampia, che parte dalle ingiustizie coloniali e si concretizza attraverso le dieci famose tappe genocidarie coniate da Gregory H. Stanton.

Se da un lato, come ha scritto il giornalista Luciano Scalettari nella prefazione, in quei maledetti cento giorni furono uccise un milione di persone (416 ogni ora, numeri fuori da ogni comprensione), dall’altra il genocidio in Ruanda ha fatto emergere tante figure di Giusti, hutu che hanno saputo dire di no alla follia omicida promossa dalla Radio Télévision Libre des Mille Collines rischiando la propria vita per salvare dei tutsi. Così come è emersa la zona grigia, popolata dai collaborazionisti e dalle persone che salvarono per secondi fini. È il caso, ad esempio, di Théobald, cugino di Jean Paul, che dopo l’omicidio del padre fu salvato da uno degli assassini perché lo voleva far diventare suo schiavo.

Nel libro emergono con forza due Giusti. Si chiamano Silas Habiyambere e Maria Urayeneza (si vedano le loro schede in calce alla recensione), all’epoca coniugi quarantenni cattolici genitori di tre figli. Silas era parente di Bagambiki, il prefetto di Cyangugu, e sfruttò questo legame per ospitare almeno 54 persone nella loro casa (di queste sopravvissero 31), incluso Jean Paul. 

Quando, dopo un incredibile esodo e senza sapere se la sua famiglia è ancora viva, il piccolo raggiunge la tenuta di Silas e Maria si sente in paradiso. “Finalmente potrò passare un minuto senza uccidere un pidocchio”. In realtà la situazione è ben più complessa: per non farsi scoprire dagli Interahamwe, Jean Paul passa le giornate intere sotto l’erba conservata per alimentare le mucche e tuttavia questo non basta per non attirare l’attenzione di vicini assetati di sangue. “Gli Interahamwe mi cercarono ovunque mettendo a soqquadro la casa ma, per fortuna, tralasciarono la buca delle banane e se ne andarono parecchio seccati per non avermi trovato”.

Il passaggio successivo è nel campo profughi di Nyarushishi, già usato da rifugiati del Burundi l’anno prima. Una distesa di disperati sfamati alla meno peggio dalla Croce Rossa, costretti a litigare per le scarse razioni d’acqua, “ma la vita che avevamo lasciato alle spalle ci faceva apprezzare quella situazione ancorché precaria”. Per accedere all’acqua Jean Paul si finge muto, con la speranza di avere un minimo di compassione dagli altri disperati, in un contesto dove vige la regola del mors tua vita mea. La vita nel campo è descritta con una incredibile densità di dettagli, restituendo uno degli aspetti forse meno noti del genocidio ruandese. Perché oltre alla vita, alle vittime è stata tolta la dignità. Un esempio sconcertante è quello degli adulti costretti a espletare i propri bisogni in fosse scavate all’aperto. Oltre all’evidente diffondersi di malattie infettive, questo portava a conseguenze psicologiche difficilmente comprensibili, tenendo conto che “nella nostra cultura, il senso del pudore ricopre un ruolo di primissima importanza”.

Ma c’è un altro aspetto importantissimo, nella sezione di volume dedicato alla vita a Nyarushishi: l’arrivo dei francesi. Se Jean Paul serba tuttora il bellissimo ricordo dei profughi scortati dall’esercito francese, non può non vedere il quadro nella sua completezza. I francesi prendevano le ragazze nel campo con la scusa di andare a fare la pulizia nelle loro tende, “in realtà era per violentarle”. Le donne tornavano “senza fiato, distrutte dalle violenze sessuali”.

Molti dei lavori prodotti in questi anni sul genocidio del Ruanda si fermano al 15 luglio 1994, data che per convenzione ne segna la conclusione. Al contrario, il libro di Habimana riesce a restituire il clima di incertezza, lutto e paura che ha contraddistinto la transizione verso la riconciliazione. Non è facile comprendere cosa vuol dire rientrare nel proprio villaggio ridotto in macerie, con la famiglia decimata; dormire con il rumore dei sassi che sbattono sui tetti di lamiera, lanciati da qualche reduce ormai non più protetto dallo stato nella furia omicida; avere le bocche appoggiate ai fischietti per attirare l’attenzione dei vicini quando alcuni di questi sassi sembrano essere piovuti più vicino.

E poi il rientro a scuola, in silenzio assoluto, sapendo che i figli degli assassini e gli orfani di guerra devono riprendersi la vita insieme, anche se non ci si può fidare di nessuno.

La ricchezza dei gesti quotidiani restituisce la complessità del momento: a casa si balla e danza fino a notte fonda per esorcizzare il dolore, mentre bambini e donne devono darsi a lavori durissimi di ricostruzione perché i capi famiglia sono stati uccisi e le case distrutte fino alle fondamenta, come simbolo di un odio che nel pensiero dei perpetuatori deve oltrepassare le barriere generazionali.

Il cambio continuo di ritmo narrativo permette al lettore di vivere in simbiosi con l’autore e di capirne il processo di crescita e consapevolezza. All’affanno della fuga segue la ponderatezza della riflessione che accompagna la vita spirituale. Ciò che non cambia, nelle quasi 200 pagine del volume, è l'attenzione ai dettagli, la visione d’insieme e l’onestà intellettuale.

I messaggi arrivano, in questo modo, in maniera inequivocabili. E questo ci costringe a dover comprendere le vite degli altri, delle famiglie degli aguzzini. Se a Jean Paul adolescente basta sapere che un ragazzo ha entrambi i genitori per capire da che parte della barricata fosse la famiglia durante il genocidio, ascoltare i racconti degli hutu scappati in Congo restituisce umanità ai parenti dei carnefici, a dimostrazione che durante i genocidi non vince nessuno.

Al liceo Jean Paul ascolta i racconti dei figli degli hutu, in un momento in cui le etichette etniche erano state messe al bando eppure “era già più forte di me e non riuscivo a fare amicizia senza conoscerne l’etnia”. In questo frangente conosce Pino (nome di fantasia), figlio di un uomo imprigionato con l’accusa di genocidio. Un giorno in seminario arrivano i carcerati costretti ai lavori forzati e tra questi c’è proprio il papà di Pino. Si aprono dei varchi nella sua storia e scopriamo che se suo padre ha ucciso delle persone, sua madre è una tutsi alla quale avevano sterminato la famiglia e risparmiato la vita solo per l’appartenenza etnica del marito.

“Chi commette un genocidio”, scrive Habimana, “non solo distrugge gli altri ma anche la sua progenie”. Tramite Pino, Jean Paul conoscerà quindi la cugina Marie Lousie, che molti anni dopo sposerà. “Ebbene sì, questo libro è anche una storia d’amore”, scrive sempre nella prefazione Scalettari. La storia tra Jean Paul e Marie Lousie (di cui viene raccontata anche la durissima esperienza personale durante i Cento giorni) “ha quella forza simbolica universale che ci fa sperare”.

C’è tanto amore, nelle pagine di Nonostante la paura. C’è amore per Marie Lousie; c’è amore per il genere umano attraverso il percorso della riconciliazione, che costa fatica e dolore (“mi domandavo per quale motivo un tale di cui non conosco né il nome né la faccia uccise mio padre”). Ma c’è anche amore per la verità.

Perché Habimana non è solo un sopravvissuto. È un intellettuale che non può accettare che il genocidio venga raccontato come un evento slegato da un flusso storico preciso. “Si può spiegare un genocidio?”, si chiede nell’appendice del volume. “Molto si è raccontato, di quei giorni. Poco si è spiegato”.

Secondo Habimana non si può parlare del genocidio senza raccontare il colonialismo. Dall’arrivo dei primi esploratori europei al genocidio passarono esattamente cento anni: dal 1894 al 1994. In cento anni il Ruanda è stato svuotato, prima i tedeschi poi i belgi avviarono un processo inesorabile di distruzione culturale, segregazione, razzismo antropologico. Habimana riporta date, eventi, contesti che hanno portato all'odio. Perché la prevenzione non può non passare dalla conoscenza della storia e dal coraggio di saper intersecare gli eventi. Non farlo è un'offesa alla memoria dei morti e al racconto dei sopravvissuti. 

Joshua Evangelista, Responsabile comunicazione Gariwo

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