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Una madre

di Vera Politkovskaja Rizzoli, 2023

I dittatori hanno bisogno di offrire sacrifici umani per consolidare il loro potere. L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità. In Russia la libertà manca, eppure non me ne sarei mai voluta andare… Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori compresi” (p. 10-11)

Vera, la figlia di Anna, è scappata dal suo Paese dopo l’inizio dell’”operazione speciale militare” voluta da Putin, per proteggere sua figlia Anja dagli atteggiamenti aggressivi dei compagni di scuola, per provare a sopravvivere fuori dalla Russia, dopo che il 7 ottobre 2006 le hanno ucciso la madre e negli anni occultato la memoria, per cercare, in un esilio volontario molto doloroso, un luogo dove, per una figlia che porta il nome di una nonna così speciale, quella promessa di libertà possa realizzarsi subito.

Questo libro è intenso e molto sincero, un affascinante, dolcissimo e terribile racconto di vita, quasi tutto al femminile. Il titolo, “Una madre”, già lo annuncia. Vera ha lasciato il suo Paese, chiuso l’appartamento della sua casa nella quale non sa se o quando potrà tornare ed è partita in macchina senza il suo amato violino e tutto ciò che non è veramente utile. Però non ha rinunciato ai ricordi e alla lezione della madre: portare, ovunque si abiti, la verità.

E Vera racconta Anna, non solo la giornalista ma soprattutto la madre esigente, dal carattere non facile, ma attenta agli studi dei figli, al cibo genuino, al tempo da dedicare alla loro formazione. Una madre che, quando Vera e il fratello Il’ja sono più grandi, li protegge insegnando loro come ci si difende dalle situazioni di pericolo e dalle minacce sempre incombenti su quella famiglia con due genitori così esposti.

Una madre che un giorno fa una promessa inattesa: “Quando Vera o Il’ja mi comunicheranno che sto per diventare nonna, alloro smetterò di andare in Cecenia. Per amore del mio nipotino o nipotina”. Vera era all’inizio della gravidanza quando Anna è stata uccisa.

Il libro contiene delle foto che ci permettono, quasi in punta di piedi, di entrare nella vita familiare di Anna Politkovskaja: ci sono le immagini di lei bambina con i genitori (è nata a New York perché il papà, Stepan, lavorava presso la rappresentanza ucraina dell’ONU, la mamma, Raisa, era per metà russa e per metà ucraina), del suo matrimonio, giovanissima, con Aleksandr, dei figli piccoli, dei momenti a casa di amici o al ristorante, insieme ai cani Martyn o Van Gogh…

Le attese di cambiamento, democrazia, libertà che questa giovane coppia innamorata di giornalisti ha maturato durante gli anni della perestrojka, si sono infrante con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, quando Vera, undicenne, riceve “le prime istruzioni su come mi sarei dovuta comportare se le cose avessero preso una piega del tutto negativa”. Prima del colpo di Stato e la destituzione di Gorbacev , l’ironia critica dei genitori verso il sistema politico russo non aveva impedito ai figli di sentirsi sicuri nella loro famiglia e nelle loro vite. Con l’avvento del “regno di Putin”, dal marzo 2000, le cose sono cambiate radicalmente attraverso il passaggio di potere nelle mani di un ex agente del KGB che ancora oggi controlla il Paese, che ha continuato la guerra in Cecenia, ha mosso guerra in Georgia per alcuni territori di confine (definendola “operazione di pace”), ha occupato la Crimea nel 2014 e invaso l’Ucraina il 24 febbraio 2022. “Mia madre l’avrebbe chiamata guerra”!

Vera, da giornalista, ci parla della macchina della propaganda che ogni sera convince i cittadini russi delle “bugie ucraine”, che enfatizza il “buon soldato russo”, che presta soccorso agli oppressi del regime di Kyiv, che nega i fatti di Buca. “Non ci sono stupri, non ci sono torture, non ci sono civili morti, non ci sono saccheggi” (p. 52).

E’ impossibile, in Russia, manifestare liberamente: per noi occidentali è difficile comprendere perché i russi non scendano in piazza protestando. Il motivo è semplice: noi, dopo una manifestazione pacifica possiamo tornarcene a casa, un russo finisce in una stazione di polizia, se va bene paga un’alta sanzione amministrativa o si fa quindici giorni di cella, oppure rischia un processo penale. Troppo per una popolazione che è “impegnata a sopravvivere in condizioni di povertà” e che non potrebbe pagare le sanzioni per la partecipazione a picchetti e manifestazioni. “La libertà, nel mio Paese, è un lusso che si possono permettere in pochi” (p. 57)

Anche Vera ha dovuto scegliere: sua figlia è ancora troppo piccola per restare senza di lei.

E così la guerra di Putin la combattono i ragazzi provenienti dalla periferia del Paese, giovanissimi, poveri e senza addestramento minimo: carne da macello. “Questi ragazzi sono nati quando stava tramontando l’idea di una Russia democratica e liberale, quella che Gorbacev, forse inconsapevolmente, aveva lasciato in eredità a tutti noi. Fin dalla nomina a primo ministro, nel 1999, Putin puntellò il suo potere, allora precario, riaccendendo l’orgoglio e l’onore russo grazie alla campagna contro i terroristi ceceni”. I ragazzi di oggi hanno conosciuto solo la “democratura “, una via di mezzo tra democrazia e dittatura. Un’intera generazione, dice Vera, che pagherà un prezzo altissimo, come dopo il secondo conflitto mondiale, la guerra in Afghanistan, la guerra in Cecenia. Morti o invalidi nella mente e nel fisico che non sapranno di che vivere. Ad ogni militare, che spesso deve comprarsi di tasca propria stivali, giubbotto antiproiettile, kit di primo soccorso, viene però consegnato un sacco di plastica nero altezza uomo.

Anna Politkovskaja ha cominciato ad occuparsi della guerra in Cecenia, senza essere corrispondente di guerra né esperta di quella regione: “L’idea del direttore della “Novaja Gazeta” era semplice: il mero fatto che io fossi una civile mi avrebbe permesso di comprendere l’esperienza della guerra più a fondo di chi, vivendo nelle città e villaggi ceceni, la subiva ogni giorno, tutto qui. E così sono tornata in Cecenia ogni mese, a partire dal luglio 1999….In molti mi telefonano in redazione o mi inviano lettere, ripetendo sempre la stessa domanda: «Perché stai scrivendo questo? Perché vuoi spaventarci? Perché dobbiamo sapere?» Sono certa che il mio compito sia necessario per una semplice ragione: in quanto contemporanei di questa guerra, ne saremo considerati responsabili” (p. 71). Così scriveva Anna nel suo libro “Un piccolo angolo d’inferno”.

Anna ha guardato in faccia la guerra dalla parte della gente, delle famiglie e dei ragazzi che la stavano subendo. Quando partiva, i nonni andavano a casa dei nipoti ormai grandi, più per coccolarli con gesti di gratuita attenzione che non per reale necessità. “Perché devi andare lì, Anjutik? E’ pericoloso, figlia mia” le diceva suo padre. Ma lei rispondeva a lui, ai parenti e agli amici: “È necessario…Perché nessuno lo fa e quelle persone hanno bisogno di aiuto!…E chi ci andrebbe se non io?”(P. 91). Spesso le conversazioni diventavano discussioni politiche molto accese: nessuno prendeva le parti di Anna.

Vera però rimaneva in silenzio: sentiva di non avere argomenti validi agli occhi di sua madre.

Si può condannare una madre perché si è “presa cura” (con le parole dei suoi articoli e con la sollecitudine degli aiuti materiali di cui si è fatta carico) degli altri, di chi ha maggiormente bisogno? Si può condannare la sua coraggiosa difesa della verità, il chiamare le cose con il loro nome, anche se spaventa? Eppure Anna è rimasta sola. “Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me” (p. 105)

Era diventata la “pazza di Mosca”: l’unico sostegno e comprensione arrivavano dai colleghi della redazione, da pochissimi altri mezzi di informazione e dalle tante persone che aiutava. “Perché solo questo contava per lei: fare il proprio lavoro, raccontare quello che vedeva, dare asilo a quanti non sapevano dove altro andare. Le loro storie non coincidevano con la versione ufficiale dei vari uffici competenti legati al Cremlino” (p. 105). Il suo modo di raccontare aveva una priorità: mettere al primo posto le ingiustizie, la barbarie, la testimonianza della gente che le stava subendo. Nessuna sottomissione alle gerarchie. “Un concetto forse banale per chi vive in una democrazia, ma in Russia era pura follia: significava dare per scontato la libertà e sfidare il sistema irritando tutti, compresi i colleghi che avrebbero dovuto farsi carico della stessa responsabilità, raccontando a loro volta la verità. Invece mia madre era sola, profondamente sola”. (p. 106)

Non poteva rinunciare a fare giornalismo così, il mestiere che amava. Temeva solo che i suoi figli non fossero pronti per l’eventualità della sua morte. Senza fare discorsi strappalacrime. “Le mie amiche , quando tornavano a casa da scuola, magari si sentivano chiedere dai genitori: «Vuoi un po’ di gelato?». Io invece mi sentivo dire: «In quel cassetto ci sono alcuni documenti importanti», oppure: «Lì trovi i soldi nascosti». Mamma mi guardava negli occhi, restavamo entrambe in silenzio per secondi interminabili e poi lei snocciolava sempre la stessa motivazione: «Non si sa mai»” (p. 108).

Anna è stata uccisa il giorno del compleanno di Putin, il 7 ottobre 2006. Nessuna autorità russa presenziò al suo funerale: solo gente comune in lacrime che le voleva bene e che sapeva che per tanti di loro si era spenta l’ultima possibilità di avere giustizia.

Era ben conosciuta fra i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani e in Occidente. Ciò nonostante, la sua influenza sulla vita politica russa era minima”, così disse Putin poche ore dopo la notizia della sua uccisione. Nel processo farsa per il suo assassinio non è emerso chi siano stati i mandanti. Ramzan Kadyrov, ora presidente della Repubblica cecena, nonostante Anna affermasse che volesse la sua morte, non è mai stato interrogato nell’ambito del processo penale.

“Non è cambiato niente. Gli uomini che mia madre ha combattuto con la sola forza delle parole sono ancora lì”. Putin, asceso al potere con la seconda guerra cecena, ha sferrato il suo ultimo attacco all’Ucraina e all’Occidente, come afferma nell’enfasi del “culto della vittoria” delle celebrazioni del 9 maggio, della “denazificazione”, del “vittimismo” di una nazione umiliata dal crollo dell’Unione Sovietica.

Il 6 maggio 2022 qualcuno ha voluto cancellare un altro ricordo di Anna: la dacia di famiglia, in cui la giornalista si rifugiava con i suoi cari, dove scriveva e aveva piantato le carote per la nipotina che sarebbe nata.

I muri possono bruciare ma il giardino di Anna è rifiorito: iris, peonie ed edera raccontano ancora di lei, del suo prendersi cura della vita. “Proprio quello che avrebbe voluto mia madre”.

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