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Grigio è il colore della speranza

di Irina B. Ratushinskaja Rizzoli, Milano, 1989

Internata a ventott’anni in lager per aver scritto poesie religiose. Non è una storia del periodo staliniano, si è svolta negli anni ’80, alla vigilia della perestrojka. La protagonista è la poetessa Irina Ratušinskaja.

I sette anni di lager e 5 di confino a cui era stata condannata nell’autunno 1982 erano dovuti alle sue poesie religiose, alla sua attiva collaborazione alla circolazione del samizdat, al suo “dissenso” nei confronti del regime. La sua condanna fece scalpore perché si trattava della pena più dura inflitta in quegli anni a una donna. 

Irina Ratušinskaja, ha dato tutto per amore senza prendere troppo sul serio se stessa, i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma prendendo tremendamente sul serio l’umanità dolente, ferita che le stava intorno, fino al punto di intitolare il libro di memorie sugli anni trascorsi nei campi di lavoro forzato della Mordovia, “Grigio è il colore della speranza”. Perché in quel mondo grigio di giacconi scoloriti, di muri scrostati, di polvere e di sbarre, non aveva mai visto venir meno un’umanità, una solidarietà, che le lasciava sperare nella rinascita della persona e della società.

Non importa che le condizioni di vita nella baracca del lager fossero effettivamente durissime (una volta in libertà, Irina ha dovuto sottoporsi a varie operazioni, e curarsi per anni per poter avere dei figli), ciò che importa è il riaffermare la dignità del vivere, anche in condizioni disumane.

Il primo grande pubblico di Irina era stato il vagone che la trasportava dal carcere istruttorio al lager - stipato all’inverosimile di detenute, mai sazie di ascoltarla. Una volta, dopo una di queste “serate poetiche”, a Irina si avvicina una vecchietta, baba Tonja, che dal fagottino toglie una mela avvizzita: “Mangia, figliola, sei giovane. Io tanto in lager morirò, ma tu devi vivere e scrivere!”.

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