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Ho scelto la libertà

di Victor Kravchenko Longanesi, Milano, 1948

Nel 1946 uscivano negli Usa le memorie di Kravchenko, “I choose Freedom”, pubblicate in Italia nel 1948 dalla casa editrice Longanesi, con il titolo “ho scelto la libertà”. 

L’opera fu forse il più grande affronto che un ex cittadino sovietico avesse potuto fare contro il dittatore Stalin e lo stalinismo. "Una guerra selvaggia contro il suo stesso paese e il suo stesso popolo, è quella che la cricca del Cremlino ha condotto tenacemente fino alla fine”, scrive Kravchenko.

Non ci si riesce a spiegare come sia stato possibile che una rivoluzione nata per liberare il proletariato e le masse contadine dalla tirannia degli Zar, abbia poi dato vita alla schiavitù di quelle stesse masse. Perché questo ha fatto lo stalinismo, ha legalizzato la schiavitù. 

Il suo racconto comincia con la rivoluzione del 1905, a cui partecipò il padre Andrei Fiodorovic Kravchenko. Questi era un rivoluzionario socialista, ma essenzialmente un libero pensatore, che non volle mai prendere nessuna tessera di alcun partito. Combatté sulle barricate, subì il carcere zarista, la deportazione, evase più volte, fu ripreso, ma infine poté godere della grazia e tornare dalla sua famiglia. “Durante i primi nove anni della mia vita, mio padre restò per me uno straniero, un eroe da leggenda (…) Le visite che ci faceva tra una evasione e l’altra mi riempivano di un’animazione febbrile; io le attendevo, anticipavo con impazienza il loro rinnovarsi, quasi che avessero fatto parte del ciclo normale della nostra esistenza” . Stiamo parlando del periodo degli Zar, noti per essere stati poco teneri con i propri sudditi. Tuttavia, sotto gli Zar, si andava in crcere per ragioni politiche, con Stalin si rischiava di sparire perché ci si riuniva tra amici per ballare.

Kravchenko ha vissuto in prima persona tutti gli orrori del comunismo sovietico, dalla guerra in Persia alla collettivizzazione. Ha subito due epurazioni. Il suo processo alla seconda epurazione durò diciotto mesi, e consisté in interrogatori notturni a cui doveva presentarsi lui “spontaneamente” e firmare poi un documento che lo obbligava a non parlare con nessuno dell’interrogatorio subito. Dopo la nottata passata negli uffici della polizia politica, doveva andare a lavorare per dodici ore perché la sua assenza poteva essere denunciata come un tentativo di sabotaggio.

Nel libro descrive anche la schiavitù. Ogni singolo membro del Politburo, aveva sotto di sé una piramide di protetti. Quando il membro del Politburo cadeva in disgrazia, quando cioè non piaceva più Stalin, cadeva lui con tutti i suoi protetti e le famiglie dei protetti. Per ogni bolscevico che veniva condannato e giustiziato, sparivano fette di popolazione, perché da lui partivano catene di “clientelismi” e amicizie che giungevano fino al più disperato e povero contadino ucraino o chissà di dove. Tutti i dirigenti industriali, per forza di cose, dovevano avere un protettore, quindi quando questi veniva arrestato, loro cominciavano a subire interrogatori. La pressione della polizia segreta sui dirigenti, creava problemi in fabbrica. Diminuiva la produzione, quindi spuntava l’accusa di sabotaggio. Assieme al dirigente e alla sua famiglia, sparivano anche i collaboratori. Poteva anche succedere che il collaboratore sparisse prima del dirigente, e quando si trattava di un collaboratore importante era difficile rimpiazzarlo, allora ecco che c’era un calo nella produzione e il dirigente veniva accusato di sabotaggio. Si era creata un' industria carceriera. Queste persone andavano a finire nei campi di concentramento e venivano usate per i lavori forzati presso le industrie che pagavano gli “affitti dei corpi” alla polizia segreta che prosperava né più né meno dei mercanti di schiavi. E parliamo di milioni di persone. 

Kravchenko ha testimoniato nelle sue pagine di avere visto morire di lavoro – sotto i suoi occhi – decine di persone. Per morire di lavoro si intende: denutrizione e lavoro forzato al gelo, vestiti di stracci, fino al collasso delle funzioni vitali. Queste unità di produzione creavano torba, che andava a bruciare per dare luce e riscaldamento alle fabbriche, ma non alle baracche dove vivevano gli operai “liberi”. Riscaldamento e luce giungevano nelle case dei nuovi padroni – politici e militari – ma non nelle stamberghe del proletariato in nome del quale era stata fatta la rivoluzione.

A detta dei figli di Kravchenko – che in America si sposò e visse sotto falsa identità – il padre non morì suicida come fu creduto da tutti. Fu il Kgb a sparargli un colpo alla tempia il 25 febbraio 1966, a Manhattan.

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