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La mia Russia

di Dimitrij Lichachev Einaudi, Torino, 1999

Dmitrij Sergeevic Lichacev è stato non solo il maggiore studioso della cultura russa medievale, ma anche una figura morale straordinaria che ha attraversato decenni di persecuzioni politiche senza perdere limpidezza di coscienza, libertà interiore, partecipazione lucida e appassionata alla vita del suo Paese. In Russia la figura di questo studioso riveste un grande significato simbolico: là dove intere generazioni di intellettuali vennero falcidiate in nome di un’ideologia e utopia stravolte, egli rappresenta il ponte tra il grande patrimonio culturale del passato e la realtà presente, il patriarca capace di serbare la memoria profonda della nazione, l’ultimo saggio a cui rifarsi per immaginare una nuova dimensione di civiltà nella quale cultura e doti morali si esaltino reciprocamente. Per queste ragioni oltre che per la natura e l’ampiezza del quadro storico le sue memorie costituiscono una testimonianza eccezionale. La storia della sua famiglia – alta borghesia intellettuale radicata a Pietroburgo fin dal Settecento – si mescola ai ricordi di un’infanzia felice dove la fantasia veniva alimentata tanto dalle fiabe quanto dagli spettacoli del Teatro Mariinskij, dalla fervida vita di una scenografia capitale come dal contato con la natura: il mare del Baltico, i parchi lussureggianti della Crimea, gli orizzonti sconfinati del Volga. E se attraverso la storia di un’educazione intellettuale si delinea il profilo dell’autentica intelligencija russa, indipendente dal potere, consapevole dei valori nazionali, cosmopolita, il racconto degli anni trascorsi nel primo lager sovietico, il monastero-prigione delle isole Solovski, restituisce senza mediazioni la misura del “secolo duro, assassino, tremendo” con cui quel mondo eletto fu costretto a misurarsi. Pagine altrettanto memorabili sono quelle dedicate all’assedio di Leningrado, una cronaca unica nel suo genere, dettata dalla sua antiretorica crudezza da un testimone diretto che mai dimentica di essere anche uno storico.

Tratto dal sito Einaudi.it

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