Il 23 novembre 1970 Andrej Alekseevich Amalrik è stato condannato alla deportazione in Siberia per il suo «dissenso solitario» al regime.
I sistemi coercitivi, la politica di repressione e di intimidazione delle autorità, hanno fatto esclamare allo scrittore al termine del processo: «Questo è un clima da Medio Evo, da processo alle streghe», era la seconda condanna subita da Amalrik. La prima risale al 1965, quando fu deportato in uno sperduto kolchoz siberiano nella regione di Tomsk. La «cronaca» di quel periodo, il lungo racconto di quasi due anni di prigionia costituiscono la trama del Viaggio involontario in Siberia.
La vicenda viene riferita dall’autore con fredda precisione e mentre sfiora la dimensione kafkiana del «colpevole senza colpa» svela ai lettori i meandri del «pluralismo burocratico» sovietico, smitizzando quella che vuol apparire la perfezione di un «sistema Viene quindi il «viaggio» vero e proprio. La descrizione accurata, minuziosa, di ambienti e situazioni dà un’immagine della realtà kolchoziana assai diversa da quelle stereotipate, e ufficiali, della «vita radiosa» che si vive nelle campagne collettivizzate sovietiche: incapacità e insufficienze aggravate da un’indifferenza fatalistica e passiva; l’assoluta mancanza di iniziativa, l’abbruttimento dato dall’alcool, l’indifferenza verso il bene comunitario (o che tale dovrebbe essere), l’incredibile ignoranza di tutto ciò che è al di là dei confini del kolchoz e della sua esistenza vegetativa.