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Il passato di un'illusione. L'idea comunista nel XX secolo

di François Furet Mondadori, Milano, 1995

Alcune riflessioni risalenti agli anni Novanta di François Furet ci riportano con la mente al momento in cui crollò definitivamente il regime sovietico ed il liberalismo divenne motore prorompente del sistema economico globale. Ad una crisi di fiducia seguì la consapevolezza di poter arginare con la democrazia quei mali che i vari regimi totalitari avevano creato nel corso del XX secolo.

Oggi, che tremiamo spesso per gli Stati, a rischio fallimento, attraverso i debiti delle banche, ci interroghiamo su chi detiene il monopolio del denaro messo in circolazione. Non gli Stati, che hanno delegato pochi privati, azionisti delle banche centrali, a crearlo: i governanti dovrebbero infatti riappropriarsi della sovranità monetaria.

Per lo storico francese, seppur estremamente critico contro ogni totalitarismo e soprattutto contro idealità fini a se stesse, incapaci di dare soluzioni praticabili, le idee hanno sempre preceduto ogni sistema economico.

Naturalmente gli storici etichettati come revisionisti, e François Furet venne annoverato tra questi, quando crollò definitivamente il regime sovietico, misero in piena luce il bisogno di valorizzare l’economia, il ruolo centrale che questa nel periodo andava prendendo. Ma contemporaneamente analizzarono in modo lucido come fosse potuto accadere che per quasi un secolo a sistemi democratici d’impronta liberista si fossero sostituiti regimi dittatoriali. Il nostro non rinnegò mai la sua vecchia passione per il comunismo ed i coinvolgimenti che questa passione gli procurò, a suggello di una lunga analisi personale sul ruolo politico da attribuire alle ideologie.

Se e proprio perché il presente denunciava le incongruenze di una società che relegava la politica ad un ruolo più marginale, sin dagli anni Novanta del XX secolo divenne indispensabile riscoprire il valore da attribuire all’impegno civile, cercando di evitare in ogni modo gli errori del passato. Furet in questo fu certamente maestro.

«Ecco il tema del mio libro [scrisse lo storico, riferendosi al Il passato di un’Illusione[2]]: non la storia del comunismo e nemmeno quella dell’URSS in senso stretto, ma la storia dell’illusione del comunismo, finché l’URSS le ha dato vita e consistenza».

Il suo celebre saggio del 1995 sottolinea come «il regime sovietico fosse uscito di soppiatto dal teatro della storia, dove era entrato in modo spettacolare. A tal punto si era identificato con il tessuto e l’orizzonte del secolo [XX], che questa fine ingloriosa e repentina costituì un sorprendente contrasto con la sua clamorosa durata», dovuta al bisogno di esorcizzare condizioni sociali difficilmente prevedibili.

«Rivoluzione e controrivoluzione evocarono [agli occhi di Furet] un’avventura della volontà, mentre la fine del comunismo obbedì unicamente ad un succedersi di circostanze». La storia del pensiero comunista andò ben al di là delle vicende del regime sovietico. Fu la storia dell’«Idea» assai più vasta di quella del potere comunista, persino all’epoca della massima sua espansione geografica.

Così scriveva Furet: «Mi limiterò a studiare l’Idea comunista in Europa, dov’è nata, è andata al potere, è stata tanto popolare alla fine della Seconda Guerra Mondiale […] I suoi “inventori”, Marx ed Engels, non avevano immaginato che quell’idea potesse avere un immediato futuro fuori d’Europa, tanto che grandi marxisti come Kautsky hanno negato l’influenza della Russia dell’ottobre 1917, in quanto troppo periferica per un ruolo d’avanguardia. Insomma l’Europa, madre del comunismo, ne è anche il teatro principale. È la culla e il cuore della sua storia». Ma l’Europa è stata anche la culla del fascismo nelle sue varie forme, altra ideologia totalitaria, alternativa al comunismo.

Nel tentativo di mettere sullo stesso piano le due ideologie contrapposte, comunismo e nazionalsocialismo, perché in ogni caso sempre di ideologie si era trattato, Furet pose in essere questi richiami: «Il fascismo, prima di venir disonorato dai propri crimini, è stato una speranza. Ha sedotto non solo milioni di uomini, ma anche molti intellettuali. Quanto al comunismo, siamo ancora vicini alla sua stagione migliore, visto che come mito politico e come idea sociale è a lungo sopravvissuto ai propri crimini e misfatti, soprattutto in quei Paesi Europei che non ne subivano direttamente l’oppressione: morto dalla metà degli anni Cinquanta fra i popoli dell’Europa dell’Est, vent’anni dopo è ancora vivo e vegeto, in Italia o in Francia, nel contesto politico e intellettuale. Quale l’incantesimo [proseguì lo storico] che ha determinato la sua sopravvivenza, il suo radicamento nel tessuto sociale degli Stati dell’Europa Occidentale?».

La sua visione storica gli fece ammettere che «per riuscire ad afferrare l’incantesimo del periodo è indispensabile compiere uno sforzo e collocarsi in un momento precedente le catastrofi provocate dalle due grandi ideologie [comunista e nazionalsocialista] quando queste rappresentavano ancora una speranza». Dal 1945 è diventato quasi impossibile immaginare che il nazionalsocialismo degli anni Venti e Trenta abbia rappresentato una promessa. La diversa durata delle due ideologie sul piano pratico è spiegata da Furet sia per una serie di circostanze che per una filosofia della storia che le ha sorrette, di diversa natura e matrice.

«Il caso del comunismo – egli scrisse – è un po’ diverso [dalle circostanze che definirono il fascismo], grazie anche alla vittoria del 1945 è durato più a lungo: il fascismo è tutto contenuto nella sua fine, il comunismo invece conserva [egli ripeteva] ancora parte del fascino iniziale per quel suo senso della storia. Per comprendere il XX secolo dobbiamo quindi comprendere [sostenne] la rielaborazione del lutto, per la fine delle ideologie».

Eppure Furet non sembra dare per scontato che «la democrazia» possa essere mai stata, anche prima dell’avvento delle ideologie, un contesto politico avulso da ogni logica di trasformazione ma anche di «impraticabilità», tutt’altro. Là dove si verificarono e possono verificarsi situazioni complesse, come è capitato in epoca recente, la democrazia stessa può vacillare.

Leggendo scrupolosamente la sua disamina sulla nascita della moderna società borghese, dove Furet individuò davvero quella materialità che pose le basi per la formazione dei regimi totalitari, lo storico ci avvicina man mano a quell’idea di antipolitica, lucido specchio dei nostri giorni.

Un’interessante analisi egli espresse al riguardo: «L’Europa, a differenza degli Stati Uniti, si lasciò contaminare durante il XX secolo prima che dalle idee, dalle ideologie. Da questo punto di vista l’Europa tutta non seppe riconoscersi fino in fondo nei sistemi parlamentari, così come avvenne e continua ad avvenire negli Stati Uniti.

Il sistema democratico, come lo conosciamo, andò costituendosi a partire dal Seicento; ciò in Inghilterra e, più in generale, nel mondo anglosassone. Tale contesto troverà nella Rivoluzione Francese terreno fertile, ma con forme e connotazioni diverse.

Si trattò, in questo caso, di un regime [quello rivoluzionario] che sin dalle origini mostrò tutte le sue contraddizioni. La Rivoluzione Francese produsse di fatto la borghesia come classe, le dette quella visibilità di cui in precedenza non aveva goduto. Così, da quel momento in poi la borghesia, soprattutto quella europea, divenne testata d’angolo per definire la società nel suo complesso».

«La borghesia è l’altro nome della società moderna [sostenne Furet]. Indica una classe di persone che attraverso la libera attività hanno progressivamente distrutto l’antica società aristocratica, fondata su gerarchie di nascita. Non si può più definirla in termini politici, come il cittadino dell’antichità o il signore feudale. […] Ora la borghesia non ha più un posto fisso nell’ordine politico, vale a dire nella comunità. Sta tutto nell’economico, categoria che del resto essa stessa scopre sul nascere».

Per Furet il capitalismo, a differenza di Marx, non crea una classe, quella borghese, ma una società. E negli Stati Uniti non si è andata formando una classe, quella borghese, ma un popolo borghese, che abbraccia l’idea di società borghese. Distinguere tra classe borghese e società borghese divenne per lo storico assolutamente essenziale.

La società borghese europea, a seguito soprattutto dell’esperienza rivoluzionaria francese, rimase di fatto «classe borghese», si allontanò per definizione dall’idea di bene comune. Il borghese europeo, secondo la stessa analisi marxiana, è «un individuo separato dai suoi simili, chiuso nei propri interessi e nei propri beni. […] Il borghese proclama l’uguaglianza ma vive di disuguaglianza».

Queste frasi sottendono, a mio avviso, un François Furet ben conscio della fragilità del sistema borghese, in particolare di quello europeo, ma al contempo estremamente fiducioso verso il popolo borghese, che ebbe negli Stati Uniti la sua massima affermazione.

Le osservazioni che egli propose affondano perciò le radici nei secoli precedenti al XIX, secolo borghese per antonomasia, quando si sviluppò il sistema democratico inglese e, più in generale, americano. «Non che i secoli precedenti [al XIX ed al XX] abbiano ignorato le ideologie. […] Ma di fatto Hitler da un lato e Lenin dall’altro hanno fondato nel XX regimi prima di loro sconosciuti» (questo quanto egli afferma).

Le ideologie e non le idee hanno governato la politica, nel XX secolo in Europa. Sembra dire lo storico: «Riappropriamoci come Europei delle idee».

Le sue conclusioni tendono ad evidenziare la singolarità di un sistema borghese che, per quanto fragile, è certamente ricco di premesse capaci di durare nel tempo. E ciò soltanto là dove si parla non del singolo borghese, come in Europa è accaduto, ma di popolo borghese.

Alcune sue frasi definiscono questi concetti: «La critica della società borghese nacque in epoca d’antico regime e proseguì subito dopo, con una borghesia che criticava dall’interno se stessa. Secondo Tocqueville, l’odio nei confronti del borghese era dovuto alla violenza di ciò che distruggeva».

Queste successive frasi del 1995, tratte da Il passato di un’Illusione potrebbero essere state scritte oggi, in tempi di recessione e di crisi: «Una volta costituita a fatica in volontà politica, la società borghese non ha finito la sua odissea. Priva d’una classe dirigente legittima, organizzata per delega, formata da poteri diversi, centrata sugli interessi, soggetta a passioni meschine e violente, riunisce in sé tutte le condizioni perché entrino in scena i capi mediocri, le vertenze demagogiche e le sterili agitazioni».

Lo stesso fascismo, negazione del liberalismo, «nasce – egli sostenne – come reazione del particolare contro l’universale, del popolo contro la classe» (in modo analogo al comunismo).

Furet si chiese, attraverso questa sua analisi, perché ad un certo punto il marxismo-leninismo ebbe più seguito del fascismo; e si rispose, sostenendo che la ragione di tutto ciò andava ricercata in un marxismo-leninismo sorretto dal filosofo della storia per eccellenza, ossia da Marx. L’universalismo propugnato dal filosofo lo avvicinò particolarmente allo stesso universalismo proprio delle idee democratiche, caratterizzato dal senso d’uguaglianza fra gli uomini come molla psicologica primaria.

Le ragioni che ci pongono oggi nella condizione di rileggere le puntuali osservazioni di Furet, scritte all’indomani della caduta del sistema sovietico, possiamo ricercarle nell’epilogo che egli all’epoca tracciò.

«Il comunismo riformato, il socialismo “dal volto umano” fu la forma più universale dell’investimento politico [peraltro fallito] del sistema sovietico. L’idea di un’altra società è diventata quasi impossibile da pensare e d’altronde nel mondo d’oggi [1995] nessuno avanza la minima traccia d’un nuovo concetto sul tema. Ormai siamo condannati a vivere nel mondo in cui viviamo. È una condizione troppo austera e contraria allo spirito delle società moderne per poter durare. La democrazia con la sua sola esistenza fabbrica il bisogno d’un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale, in cui per la sua sola esistenza potrebbe sbocciare una vera comunità umana […]. La fine del mondo sovietico nulla cambia nella richiesta democratica d’una società diversa».

Personalmente sottoscrivo la conclusione che egli ci lasciò, quasi si trattasse di un testamento politico, su un futuro pieno d’incognite, in cui siamo immersi, ma anche pieno di scatti d’orgoglio: «La scomparsa delle ideologie familiari al XX secolo chiude solo un’epoca, senza concludere il repertorio della democrazia». Repertorio vasto, pressoché inesauribile.

Recensione di Elena Pierotti tratta dal sito storico.org

Note

1 Francois Furet (1927-1997), storico francese di fama internazionale, noto per le sue opere fondamentali sulla Rivoluzione Francese, ha diretto a Parigi l’«Ecole des hautes ètudes en sciences sociales». Insegnò all’Università di Chicago e fu presidente della fondazione Saint-Simon. Tra le sue opere tradotte in Italia, Critica della Rivoluzione Francese (Laterza 1980), Il laboratorio della storia (Il Saggiatore 1985), Marx e la Rivoluzione Francese (Rizzoli 1989), Il secolo della Rivoluzione (Rizzoli 1989).

2 François Furet, Il passato di un’Illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1995.

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