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Sospetto e silenzio. Vite private nella Russia di Stalin

di Orlando Figes Mondadori, Milano, 2009

“Bevo a una casa distrutta/alla mia vita sciagurata…”, scriveva Anna Achmatova nella lirica Ultimo brindisi del 1934.
Non a caso i versi achmatoviani hanno avuto vasta eco nell’immaginario di tanti connazionali, la cui casa, non solo quella simbolica degli affetti e dei legami familiari, ma anche quella materiale, veniva devastata dalla politica staliniana.
Antonina Golovina aveva otto anni quando la casa in cui la sua famiglia aveva vissuto per generazioni venne distrutta, e i suoi abitanti dispersi.
Antonina era nata nel villaggio di Obuhovo, nella Russia settentrionale. Suo padre Nikolaj nel 1917 aveva diretto la rivolta contadina per la terra, organizzando la confisca dei beni della chiesa da distribuire fra le famiglie del suo villaggio. Sostenitore dell’Armata Rossa e del regime sovietico, confidava che questi avrebbero difeso i diritti dei contadini. Sull’altarino nella stanza più grande della casa, il ritratto di Kliment Vorosilov, commissario sovietico per gli affari militari, affiancava le altre icone.

Questa è solo una delle molte storie che si snodano e s’intrecciano nel volume di Orlando Figes. Un libro importante, sia per la mole di testimonianze e documenti raccolti, consultabili, anche quelli non utilizzati, nel sito http://www.orlandofiges.com, sia per l’impianto metodologico. Il libro è costruito, infatti, sulle testimonianze orali dei protagonisti delle vicende narrate, o su quelle dei loro discendenti, e su materiali che appartengono all’ambito privato delle famiglie.
Un lavoro costruito negli anni, che si è avvalso della stretta collaborazione dell’associazione "Memorial", di Mosca, di San Pietroburgo e di Perm, che, forte dell’esperienza maturata nell’ambito della storia orale, ha realizzato un’infinità d’interviste.
Ma torniamo a Nikolaj Golovin. Quando arrivò la campagna per la dekulakizzazione, non gli valse appellarsi al passato. Il rifiuto di consegnare attrezzi e bestiame per trasferirsi nel kolchoz, che considerava una nuova forma di servitù della gleba, gli costarono nel 1930 l’arresto e la condanna a tre anni di prigione da scontare nelle isole Soloveckie, nel mar Bianco.
Nello stesso anno 60 milioni di persone, circa la metà della popolazione rurale russa, furono costrette a entrare nelle aziende agricole collettive. In ogni villaggio i contadini venivano convocati in assemblea per decidere il trasferimento, sotto lo sguardo vigile di reparti armati dell’esercito. Naturalmente l’adesione al kolchoz risultava unanime. Nonostante ciò milioni di persone furono arrestate, deportate o semplicemente fuggirono dalle nuove insostenibili condizioni di vita, diventando di fatto una popolazione nomade e la principale forza lavoro, eternamente vagante fra cantieri, fabbriche, insediamenti speciali e gulag, della rivoluzione industriale di Stalin.
Un’apposita commissione del Politbjuro aveva esteso nel 1930 il sistema delle quote dal mondo della produzione a quello della repressione: 60 mila “perfidi kulak” dovevano essere destinati al lager, altre 150 mila famiglie invece andavano deportate nelle “zone di residenza speciale”. Un destino che il piano generale riservava complessivamente a 6 milioni di persone. In pratica, il 5 per cento delle famiglie contadine doveva, per decreto, subire la repressione.
In alcuni villaggi, dove tutti i contadini erano ugualmente poveri, e non c’erano neppure una mucca o una capra a segnare la differenza, si procedette tramite sorteggio all’individuazione di quelli da destinare alla deportazione.
Quando Antonina, figlia di Nikolaj, con due fratelli e la madre, unici superstiti di un clan che contava 120 persone, furono costretti a salire sul treno diretto a una zona di residenza nell’Altaj dichiara: “Nessuno ci abbracciò, o ci indirizzò una parola di commiato, avevano paura dei soldati…Era proibito mostrare simpatia per i kulak, quindi se ne stavano lì, limitandosi a guardare in silenzio.”(pag. 92)
Eppure Antonina può considerarsi fortunata, non era stata separata dalla madre. Secondo le stime della polizia di allora, fra il 1934 e il 1935, nei centri di accoglienza furono registrati 842.144 bambini, mentre negli orfanotrofi ammontavano a oltre 300 mila. Più difficile ricostruire il numero di quelli finiti in case speciali e nei campi di lavoro per minorenni, tutti luoghi in cui le condizioni di vita erano spaventose e la mortalità altissima. Ai più piccoli veniva spesso cambiato il nome, in modo che nessun parente potesse rintracciarli.
In molti casi furono le nonne, in un’epoca in cui ogni vincolo, anche il più intimo, veniva insidiato dall’istigazione al dubbio e alla delazione, o reciso con gli arresti e le fucilazioni, a garantire una minima tessitura di affetti e relazioni familiari, e con essa la salvaguardia di un’identità personale.
Ma molti altri bambini rimasti soli andarono ad ingrossare le bande di bezdomnij, i randagi che infestavano le strade, con grave aumento della piccola criminalità. Per fronteggiare la situazione fu varata una legge che abbassava la responsabilità penale a 12 anni.
Solo agli inizi degli anni ’90, quando è stata sicura del definitivo tramonto del regime, ma prima che la società russa involvesse nell’autoritarismo di Putin, Antonina ha avuto il coraggio di raccontare la propria storia alla figlia Ol’ga. Essere figlia di un kulak era sempre stato per lei motivo di profonda vergogna e di estrema vulnerabilità.
La propaganda martellante, combinata a una pressione sociale fortissima e al terrore delle conseguenze, faceva sì che spesso le vittime interiorizzassero i valori dei propri persecutori. Una volta la maestra l’aveva additata ai compagni come “una maledetta kulak”, che meritava la morte. In un mondo in cui la classe sociale era tutto, essere individuati come “nemici del popolo” costituiva una marchio indelebile, cui si era costantemente esposti. 
Antonina, ragazza di straordinaria forza e intelligenza, capì che per diventare un essere umano a pieno titolo avrebbe dovuto ad ogni costo integrarsi nel sistema. Riuscì a procurarsi documenti falsi dove non comparisse il suo terribile peccato originale.
Izrail Metter, scrittore di era sovietica, racconta ne Il quinto angolo che per quattro volte era stato respinto dall’università perché nell’anketa, il famigerato questionario da compilarsi al momento dell’iscrizione, alla voce ‘appartenenza sociale’, gli toccava crocettare “imprenditore privato”, dal momento che il poverissimo padre doveva arrabattarsi in ogni modo per sfamare i numerosi figli. Antonina riesce a dribblare il sistema, entra all’università, diventa medico e, pur orgogliosa del successo ottenuto, trascorre la vita nel terrore che l’inganno venga scoperto. Che con lei ne sia chiamata a rispondere anche la figlia.
Non aveva svelato la verità neppure ai due mariti, con ciascuno dei quali ha trascorso un ventennio e oltre. Uomini che a loro volta non erano riusciti a confidare alla moglie le proprie “macchie” familiari. Una vulnerabilità che rendeva tutti costoro particolarmente ricattabili dal sistema sovietico.
Il libro di Figes racconta un’infinità di storie di questo genere. Utilizzando testimonianze, diari, lettere, riesce a far emergere il dramma di molti cittadini sovietici lacerati fra un’autentica adesione ai principi e all’ideologia del regime, e un’oggettiva irriducibile estraneità, dovuta all’origine sociale. Viene inoltre sfatato il luogo comune che la repressione in Russia riguardasse una piccola frangia di intellettuali dissidenti.
Al contrario, tutta la società è stata travolta da un’indiscriminata repressione. I regimi totalitari, per autolegittimarsi, hanno bisogno di tenere alto il livello di allarme sociale, e ciò è reso possibile tramite l’individuazione di nemici interni e internazionali.
E così un infinito numero di individui, uomini e donne, bambini e vecchi, sono stati sacrificati, indipendentemente dai loro pensieri e dalle loro azioni, nella fantomatica caccia ai presunti nemici dello stato. Una repressione resa ancora più facile perché perpetrata a danno di persone innocenti, addirittura di fedeli sostenitori del regime: “Credere nella giustizia di Stalin…rendeva più facile accettare la punizione, e faceva svanire la paura” testimonia un altro figlio di kulak, per anni perseguitato (pag. 9).
In un sistema che combinava in modo ugualmente martellante repressione e propaganda, controllo sociale e aggregazione attraverso un’infinità di associazioni, era praticamente impossibile, soprattutto per i giovani, maturare una posizione critica nei confronti del potere. E quando un pur esile dubbio andava ad insinuarsi nella coscienza, questo veniva percepito come una sorta di cedimento, di caduta, da contrastare con tutta la contrizione del pentimento. Solo nei più anziani, cresciuti negli “anni di pace”, cioè quelli antecedenti alla rivoluzione, sopravvivevano valori diversi, ma si guardavano bene dal trasmetterli ai figli, nel tentativo, a volte vano, di non ostacolare la loro integrazione sociale.
Così lo scrittore ‘proletario’ di origine aristocratica, Konstantin Simonov, insignito sei volte del premio Stalin, personaggio insieme potentissimo e debolissimo, assiste in un silenzio attonito ed enigmatico, al progressivo arresto di molti membri della sua famiglia, senza che tutto ciò ne intacchi la fede assoluta nel sistema.
In questa opera di grande respiro, Figes riesce a catturare il lettore scavando in profondità nella vita privata, nei pensieri, nelle paure, ma anche nei sogni e nelle aspirazioni di tanti che scoprivano prima con stupore, poi con disperazione, di non essere ciò che erano convinti di essere sempre stati: onesti e fedeli cittadini sovietici.

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