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ResQ. Storia di una nave e delle donne e degli uomini che la fecero

di Alessandro Rocca People, 2022

Salvarla, un vita, è sempre una buona idea. Perché una vita vale tutto. Perché chi salva una vita salva il mondo intero.
Da questo semplice ma efficace pensiero nasce il libro di Alessandro Rocca, che racconta la storia di ResQ People.
“La storia di un gruppo di pazzi visionari. Pazzi che considerano da sempre il valore della vita umana come bene primario e assoluto. Volevo restasse qualcosa di loro, di noi: una traccia, futura memoria, che magari potesse ispirare altri visionari”.

Una storia che parte il 19 dicembre 2019, da un gruppo di persone diverse, accomunate da un sogno: fare una nave e salvare delle vite. People Saving People.
Ed ecco quindi racconti, testimonianze, aneddoti e voci.

Come quella di Luciano Scalettari, presidente di ResQ, che nelle pagine del libro racconta la nascita di questo progetto, che da quattro, anzi sei amici al bar ha raggiunto, nonostante la pandemia, centinaia di migliaia di persone e che oggi conta centinaia di soci.
Ma come si acquista una nave? Come si organizza un equipaggio? Tutto in mare è diverso, e l’acquisto della vecchia Alan Kurdi era solo il primo passo.
Quello che contava, comunque, era salvare. Non solo le persone in mare - 225 vite strappate dalla ResQ dalla violenza del Mare Nostrum. Per Scalettari, infatti, su questo termine la prospettiva (e il senso di quel Saving) si confonde: “Siamo noi, italiani ed europei, che salviamo i migranti? Sì, certo. Ma non è vero che sono anche loro, i migranti, che salvano noi dal naufragio del senso di umanità e del diritto? Non è forse in quell’incontro in mezzo al Mediterraneo che la nostra umanità viene salvata?”.

Una lotta per la vita, quindi, ma anche contro l’indifferenza. Nessuna vita ha più diritti di un’altra.
Ce lo dice anche la nostra Costituzione, in quell’articolo 3 secondo cui “tutti siamo uguali”. O, usando le parole di Gherardo Colombo, “tutti siamo importanti”. E nel dovere di accogliere, indubbiamente, rientra anche il dovere di soccorrere, di non far annegare. Chiunque abbia bisogno di aiuto. Perché chiunque ha il diritto di essere soccorso.

E chiunque ha anche il diritto di spostarsi, ci dice Cecilia Strada. “Spostarsi è un diritto per qualunque ragione, tranne che per invadere un altro Paese o andare a sfruttare un altro Paese”. Tra chi fugge in mare, però, c’è anche chi non vorrebbe lasciare la propria casa, ma è costretto a farlo da guerre, violenze, genocidi, persecuzioni. E dai cambiamenti climatici.
Se da un lato, infatti, siamo abituati a immaginare il riscaldamento globale legato a fenomeni come lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello del mare e l’intensificazione di fenomeni meteorologici estremi, dall’altro non possiamo trascurare l’impatto su diseguaglianze e diritti umani. È facile infatti immaginare come, in aree già vulnerabili del mondo, una diminuzione delle risorse costringa la popolazione a dividersi una fetta più piccola delle stesse, causando nuovi conflitti o acuendone di preesistenti. Quando tutto ciò si combina con l’instabilità politica e con economie già ai limiti della sostenibilità, non è difficile pensare a conseguenze importanti, come aumento della povertà e nuove ondate migratorie.
Cosa serve quindi? La risposta è nelle parole di Cecilia Strada: legare le relazioni internazionali ai diritti umani.

ResQ è una sfida della società civile, di persone che salvano persone. Che sulla base di un sogno comune raccolgono fondi (anche con una mail a Roger Waters, leader dei Pink Floyd), comprano una nave, organizzano un equipaggio di mare e uno di terra, indispensabile per organizzare incontri, sensibilizzare sul tema delle migrazioni, raccontare le attività della nave, coordinare la rete di persone e associazioni che credono e si impegnano nel progetto. Tutto con l’obiettivo di capovolgere l’idea diffusa per cui viene quasi criminalizzato chi salva e non chi si gira dall’altra parte.

Dal passato ci giunge in tal senso un monito importante: le popolazioni, le minoranze, le etnie ritenute scomode o pericolose sono state prima emarginate, poi perseguitate e infine sterminate. Ben prima del concretizzarsi della soluzione finale sarebbe stato facile, in tempo di pace, fornire ai profughi in fuga dall’antisemitismo un approdo di salvezza che garantisse una vita dignitosa. Invece è successo il contrario. In tutto il mondo si sono chiuse le porte all’ebreo errante, portatore di chissà quali pericoli per la nazione e la popolazione locale. L’indifferenza e la mancanza di empatia hanno portato a negare ogni forma di soccorso. Sono state poche le persone che hanno salvato persone.

È questo in qualche modo l’insegnamento dei Giusti, uomini e donne comuni che scelgono di ascoltare la propria coscienza e di salvare una vita, andando contro le leggi e l’opinione pubblica del proprio tempo. I Giusti non sono mai la maggioranza, non decidono le sorti dei conflitti, ma con la loro azione salvano non solo vite, ma salvano anche l’umano nell’uomo.
E anche di fronte ai naufragi del Mediterraneo, che se da un lato rappresenta la speranza, la via di fuga da guerre e violenze, dall’altro è ormai definito il cimitero più grande del mondo, sono stati pochi i Giusti del nostro tempo a non voltarsi dall’altra parte. Eppure ci sono stati, e ci hanno lasciato un esempio fortissimo di un’alternativa percorribile, a portata di mano: quella di persone comuni, pescatori di Lampedusa, uomini e donne di Lesbo, giovani, attivisti e volontari hanno scelto di osservare il volto dell’altro e “fare quello che andava fatto” per soccorrerlo.

Salvare una vita, insomma, è sempre una buona idea. Anzi, è la migliore delle idee.

Martina Landi, Responsabile del coordinamento Gariwo

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