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Diciannove donne

di Samar Yazbek Sellerio, 2019

Diciannove donne è una testimonianza sincera, Samar Yazbek lascia che siano le protagoniste a parlare della loro Siria, dei luoghi che sono stati casa e poi sono diventati macerie, delle aspirazioni individuali crollate sotto i bombardamenti ma mai scomparse. 

Quando è cominciata la rivoluzione avevo vent’anni e studiavo Scienze dell’educazione”. Nel libro ogni storia inizia con questa immagine, e finisce in un Paese straniero, rifugio infestato da una domanda martellante: “Com’è possibile che la nostra richiesta di libertà si sia trasformata in tutto questo?”.

Le donne raccontate dalla Yazbek hanno vissuto la guerra civile siriana da giornaliste, insegnanti, studentesse, reporter, infermiere. Una di loro, Zayn di Aleppo, iniziò a lavorare in ospedale dopo aver studiato tecniche di pronto soccorso. Si occupava incessantemente di tutti feriti, senza curarsi di che fazione fossero, rischiando di morire nei continui attacchi che non risparmiavano nemmeno quei luoghi di cura. Fotografava i corpi non identificati, registrando accanto a ogni foto il nome del luogo in cui sarebbero stati seppelliti, così da permettere alle famiglie di sapere dove si trovassero i loro figli quando sarebbero venute a chiedere di loro. Il suo coraggio le costò la tortura e il carcere di massima sicurezza di Damasco.

Duha ’ Ashur era una giornalista che scriveva sulla Siria. Dopo aver lasciato il Partito di azione comunista di cui faceva parte, per i continui arresti, continuò la sua attività in clandestinità, vivendo sotto falso nome. Si riuniva con un gruppo di donne con cui si scambiava letture e conversazioni. Gli incontri non avvenivano mai due volte nello stesso posto perché si rischiava di essere scoperti. La figlia di Duha visse il suo primo anno di vita in carcere insieme alla madre.

Maryam Hayad aveva studiato storia e diritti umani. Era responsabile di un progetto rivolto alle donne, le assisteva nell’affrontare i cambiamenti che stavano piombando su di loro. Venne arrestata a causa di un delatore. Sapevano tutto di lei e delle sue attività pacifiste. Un uomo iniziò a chiamarla con un nome che non era il suo, le disse che Maryam era morta, ma lei non raccontò dei suoi compagni e non dimenticò mai chi era, anche sotto le peggiori sevizie. Oggi dice “la decentralizzazione dilagante nei giudizi degli uomini, il loro rifugiarsi in stereotipi e luoghi comuni, hanno generato l’odio che aizza gli uni contro gli altri”.

Sara di Mu’addamiyya era una studentessa universitaria di famiglia benestante. Stendeva rapporti in cui descriveva nei particolari tutto ciò che accadeva e li inviava ai media stranieri. Mandava anche moltissime fotografie, perché sperava che qualcuno intervenisse a fermare i massacri, che il mondo non avrebbe lasciato il suo popolo morire così. Lottava contro l’oblio lavorando in un centro educativo che lei e le altre ragazze ridipingevano dopo ogni danneggiamento, come a volerlo salvare da tutto ciò che intorno si sgretolava: insegnare significava vita…

Tutte le guerriere pacifiche che ho conosciuto dalle pagine di queste memorie sono state inascoltate, si sono sentite abbandonate dalla comunità internazionale, sono state punite selvaggiamente anche perché donne in una società guidata da un potere maschile che non le vedeva, e non voleva che esistessero come individui liberi. Ho letto pagine che parlano di forza e umiltà, oltre che della responsabilità etica di Samar Yazbek nella costruzione della memoria autentica di un sacrificio che non deve essere dimenticato a prescindere dalle colpe, quello delle donne per la causa siriana.

Helena Savoldelli, Responsabile del coordinamento Redazione

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