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Figli del Volga

di Guzel’ Jachina Salani, 2021

Inizi del Novecento. Nelle grandi steppe della Russia, il Volga taglia il mondo in due.

“Il Volga spartiva il mondo in due. La riva sinistra era bassa e gialla, si estendeva piatta e si scioglieva fra le steppe su cui ogni mattina sorgeva il sole… A ridosso del fiume si incastonavano i paesi. E dalla steppa arrivavano folate calde di odori pungenti: il deserto turkmeno e il sale del Caspio. Come fosse l’altra riva non lo sapeva nessuno. Il lato destro incombeva sul fiume sotto forma di montagne possenti e nel fiume cadeva a strapiombo, come squarciato da una lama… Dietro a quelle montagne tramontava il sole… Dalla riva destra arrivava sempre e soltanto il freddo”.

La riva sinistra scopriremo essere quella della Storia, del Tempo, quella che sta per vivere la Rivoluzione.
La riva destra è un altrove sospeso di cui, sull’altra riva, nessuno sa nulla. È una terra di meli in fiore, di telai che filano, di tavole imbandite.

Dopo Zuleika apre gli occhi il suo primo, superbo romanzo ispirato alla vita della propria madre, che descriveva le dure condizioni di vita dei contadini tatari deportati in massa all’inizio degli anni ’30, la scrittrice russo-tatara Guzel’ Jachina si occupa in questo suo secondo romanzo di un’altra minoranza oppressa, i tedeschi del Volga. Una comunità arrivata a popolare la Russia nel XVIII secolo dietro invito dell’Imperatrice Caterina II e che subirà anch’essa requisizioni, carestie e deportazioni.

La storia, che si sviluppa tutta nell’arco temporale che va dal 1919 (l’Annus horribilis della Rivoluzione russa, il terzo della guerra civile di cui parlano Boris Pil’njak, Marina Cvetaeva nei libri di cui avevo scritto qui) ci trasporta sulle rive del Volga, a Gnadental, una colonia di tedeschi vicino alla città di Saratov. Questi coloni avevano ricevuto un riconoscimento ufficiale da parte di Lenin che aveva approvato la costituzione della Repubblica sovietica dei Tedeschi del Volga prima di conoscere poi, con Stalin, la deportazione mentre in Germania avanza e trionfa il Nazismo.

I coloni hanno sempre mantenuto la lingua e le usanze del loro paese di origine, molti di loro non parlano il russo. Andiamo dunque ad assistere a vent’anni di storia di questo territorio marcata dalla collettivizzazione delle terre e dall’abolizione – nel 1941 – della Repubblica tedesca autonoma per decisione di Stalin. È uno spaccato di storia molto poco conosciuto se non ignorato, io credo, dai lettori italiani.

Protagonista del romanzo è Jakob Bach, lo Schulmeister, il maestro della scuola del villaggio di Gardental; sulla trentina, smunto, dalla voce fievole e da qualche anno anche balbuziente è un uomo semplice e buono, acceso dalla passione per la poesia.

Quest’uomo strano dalla strana vita e in un mondo strano riceve ad un certo punto un misterioso invito dall’altra parte del fiume, dove nessuno si avventura mai, da quel territorio di cui da Gardental non si scorgono che altissime, immense montagne di un verde sfolgorante in primavera ed in estate e bianche di neve in inverno.

Chi lo invita e lo manda a prendere da un taciturno barcaiolo kirghiso è Udo Grimm, cognome che apparirà in seguito come una sorta di premonizione (sarà solo una mia fantasia?) al mondo di favole nel quale chi legge si troverà ben presto immerso. Udo Grimm vuole che Bach impartisca le sue lezioni alla giovanissima figlia Klara destinata dal padre a sposare, in Germania, un tedesco da lui scelto e che Klara non ha mai visto o incontrato. Le lezioni si svolgono, per ordine del padre Udo, che teme che la giovane figlia venga corrotta e perda la sua innocenza, con Klara e Bach separati sempre da un paravento e strettamente sorvegliati dalla vecchia governante che, seduta in un angolo a filare, in realtà non perde di vista nemmeno un attimo i due giovani.
Klara però pur ignorante, è capace di raccontare affascinanti fiabe tradizionali e dal momento in cui il colto Jakob accetta l’incarico la sua decisione si rivelerà di conseguenze imprevedibili. Essa manderà in frantumi non solo la sua precedente routinaria vita ma anche l’invisibile vetro che separa le realtà delle due rive del fiume.

Da questa situazione particolarissima in cui si svolgono le lezioni ed in cui odori, suoni, colori, ogni minimo dettaglio acquista un valore eccezionale per la comunicazione e la conoscenza dell’Altro… i due giovani si innamorano e riescono a trovare un loro codice per comunicare parlando d’altro, facendo di un libro di Goethe il loro strumento privilegiato (e qui è inevitabile che il pensiero di chi legge vada al galeotto fu il libro e chi lo scrisse di dantesca memoria). La descrizione della nascita di questo amore è squisita, deliziosa e commovente; Bach spia le dita di Klara che intravede sotto il paravento quando i due si scambiano quaderni e libri di studio…

“Mentre le passava il libro da leggere o il foglio per il dettato, Bach continuava come il primo giorno a cercare la punta delle dita di lei nella fessura sotto il paravento; certe volte riusciva a vedere la mezzaluna rosa delle unghie, e come ne restava turbato! Certe altre, nelle serate terse, il sole al tramonto fendeva la stanza coi suoi raggi e allora, come su uno schermo, sulla tela del paravento spuntava una macchia grigia dai contorni sfocati: l’ombra di Klara.”

La storia politica ed economica di questi territori del Volga, sempre presente e raccontata con dettagli precisi ed appassionanti si intreccia con grande intelligenza con questa storia d’amore semplice, poetica, anche tragica ed in seguito anche con la storia d’amore tra Bach e la piccola Ann (Annchen). Amore viscerale, sensoriale, che per manifestarsi non ha bisogno di parole. Attraverso queste due storie d’amore, di un marito verso la moglie prima, e di padre verso la figlia poi, noi assistiamo alla trasformazione di Bach: questo amore gli dona a poco a poco “una percezione nuova, sconosciuta della realtà: la capacità di lasciarsi turbare dalla bellezza del mondo e di cogliere la vita in ogni sua pur minima espressione.”

Non voglio entrare nei dettagli delle vicende di Jakob, Klara e della figlia Ann, anche se ne avrei gran voglia perchè è una storia bellissima, ma non intendo rovinare il piacere di scoprirla da soli.

Dico solo un paio di cose che a me sembrano importanti e che spero non rovinino il gusto della lettura e della scoperta: da un certo momento in poi, Klara e Bach smettono di parlarsi: semplicemente tra loro due non c’è bisogno di pronunciar parole, per capirsi. Da un altro momento cruciale in poi, Jakob Bach smette totalmente di parlare con chicchessia, si ritira completamente dal “mondo di fuori”, perde proprio l’uso della parola.

Nemmeno la piccola Ann parla: il tempo passa, la bambina cresce ma dalla sua bocca non viene fuori nemmeno un suono. Questo però non significa affatto sofferenza, infelicità, menomazione. Padre e figlia infatti comunicano, si intendono benissimo. Bach e Ann “si parlano” come già “si parlavano” Bach e Klara…

Un altro fatto importante è l’entrata in scena, ad un certo punto, di un altro personaggio che risulterà fondamentale: il piccolo Vas’ka (otto o dieci anni al massimo, si direbbe dal suo aspetto). Vas’ka è un orfano vagabondo, uno di quei Besprizornye (bambini randagi, piccoli vagabondi) che dal 1917 al 1935 vagavano a centinaia di migliaia in tutta l’Unione Sovietica, fenomeno così ben descritto nell’eccellente e devastante saggio storico di Luciano Mecacci edito da Adelphi che avevo letto qualche anno fa. Vas’ka, un altro “figlio del Volga”, selvaggio e affamato, è penetrato di nascosto nel casolare di Bach e della figlia Annchen. Dopo mesi di scontri, Bach finirà per accudirlo come un padre e lo farà con dedizione ed amore, sacrificio. Il suo arrivo dunque stravolge la vita dei Bach. Come, in che direzione, questo lascio a voi scoprirlo.

Benchè la trama del romanzo sia basata su fatti storici reali e documentati soprattutto nell’Epilogo ci si trova anche avvolti, come dicevo sopra, dall’ammaliante mondo di fiabe e leggende in cui si immergono i protagonisti per fuggire la difficile e dolorosa realtà dell’esistenza. Ma nonostante il loro isolamento essi verranno presto trascinati dalla follia del “mondo di fuori”, in cui sfuggire alla dicotomia del Bene e del Male sarà pressocchè impossibile.

“Le scene spaventose cui lui e Klara avevano assistito dall’alto del promontorio, le strane, terribili cose che aveva visto nelle sue sortite notturne erano giusto la schiuma sull’acqua, il fioco riverbero di mutamenti profondi nella vita del mondo di fuori. Erano mutamenti talmente inverosimili che Bach faticava a trovare qualcosa a cui paragonarli. Non lo si poteva chiamare terremoto e nemmeno uragano; dopo quel tipo di catastrofi naturali il mondo sconvolto dagli elementi conserva comunque ciò che tale lo rende: il cielo, il sole, la terra sotto i piedi. A Gnadental, invece, non sembravano esserci più né cielo, né sole, né terra; il potere che veniva da Pietroburgo aveva abolito il cielo, aveva detto che il sole non esisteva e aveva messo l’aria al posto della terra. […] Così viveva, dunque, la nuova Gnadental sovietica, come volevano che fosse chiamata: la colonia era distrutta o quasi, gli abitanti erano disperati o quasi, il bestiame senza cibo o quasi. Le facce della gente erano scavate dalla miseria e dal dolore per i figli sepolti.”

La riva sinistra del Volga, dove si trova Gadental è il Tempo, la Storia. La riva destra, sulle montagne verdi d’estate e bianche d’inverno, nella casa di Jakob e della sua famiglia, la vita che scorre fuori dal Tempo e dalla Storia.
Grandi avvenimenti che accadono al di là del fiume e delle montagne, mentre la Russia diventa Unione Sovietica e il mondo si fa la guerra.
Due mondi tra loro impermeabili fino a quando l’amore tra Jakob e Klara rompe il sigillo che separava le due realtà, con conseguenze inimmaginabili.

Il personaggio di Bach è molto complesso (come d’altra parte lo sono anche Klara, Ann, Vas’ka) e molto ben delineato, le sue reazioni davanti agli eventi possono forse a volte risultare spiazzanti ma è un personaggio affascinante. Il suo amore per Klara ed Annchen è toccante, la sua ricerca di isolamento dal “mondo di fuori” è davvero particolare.

Bellissimo il suo rapporto con la parola scritta. È proprio nello scrivere che Bach rivela sè stesso e quando per caso comincia a scrivere dei racconti, questi racconti si rivelano profetici: “Non poteva esserci dubbio: quello che scriveva si avverava. Quello che Bach grattava con la matita su un pezzo di pessima carta spessa, a Gnadental si faceva carne. Certe volte si avverava direttamente, certe altre era giusto un riflesso fugace; ma succedeva, succedeva sempre. E la vita continuava a dargliene conferma.”

Jakob mette sulla carta riflessioni sul mondo e sugli avvenimenti – guerra civile, carestia, oppressione, persecuzione dei kulaki, dei kulaki tedeschi, la costituzione forzata dei kolchoz. Crea un proprio calendario, gli eventi non vengono indicati con la data ma vengono evocati dando agli anni in cui avvengono un nuovo nome: ed ecco allora, dal 1918 ( l’Anno delle Case Saccheggiate) agli anni dal 1935 al 1938 (Anni di un Novembre Senza Fine, Anni di Pesci e Topi) passare per il 1919 (Anno della Follia) o al 1921 (Anno degli Affamati) al 1931 (Anno della Grande Menzogna) al 1933 (Anno della Grande Fame)…e così via.

La bellissima Klara, così dolce ed allo stesso tempo forte e determinata… la piccola Annchen, una bambina molto intelligente, curiosa, coraggiosa fino alla temerarietà. E Vas’ka, il piccolo randagio kirghiso (ma sarà veramente kirghiso?) che a dieci anni è già temprato dalla durissima lotta per la sopravvivenza e che “aveva un talento per le parolacce e il caos”. I personaggi principali del romanzo penso resteranno a lungo memoria di chi legge. Nella mia sicuramente. Anche i personaggi cosiddetti minori sono tutti interessanti e molto ben caratterizzati. Gli abitanti del villaggio e sopra tutti il deforme Hoffmann, inviato a Gadental come Segretario di Partito, che “voleva cambiare il mondo. No, non tutto il mondo, enorme, sterminato, che si apriva sulle due rive del Volga, […] no, lui voleva cambiare il minuscolo mondo chiuso dal fiume su un lato e dai campi striminziti del kolchoz dall’altro. Un mondo minuscolo di qualche desiatina di terra in tutto, una ventina di coloni spauriti, mezzo centinaio di capre tutt’ossa e due cammelli grigiastri.”
Storie individuali che si intrecciano con le innumerevoli storie delle fiabe che Jakob scrive prendendo spunto dalla tradizione orale locale e dalle narrazioni che, al tempo dei loro primi incontri, gli aveva fatto Klara.

E c’è “Lui”. Stalin. Che non viene mai esplicitamente citato per nome (viene sempre indicato come “Lui”, che non viene mai ad incrociare il percorso di Jakob e della sua famiglia ma che incombe durante tutto il racconto anche se compare solo in pochi capitoli nei quali viene presentato in situazioni insolite ma che indicano chiaramente l’odio e il terrore che suscita, che trasforma, agli occhi di Jakob, la gente del villaggio e della città di Saratov in uomini-topo e uomini-pesce:

“Non capitava nel mondo di fuori da cinque-sei anni almeno. Potendo scegliere, sarebbe diventato invisibile o si sarebbe trasformato in un topo per aggirarsi non visto fra la gente, tanto si era disabituato agli sguardi altrui e al viavai di troppe persone insieme. Capì presto, però, che nessuno lo guardava: la gente era meno curiosa, gli occhi di tutti fissavano a terra, concentrati, e i gesti erano svelti e misurati. Erano loro i topi, piuttosto: sgattaiolavano frettolosi dagli ingressi delle case fuggendo gli sguardi altrui. In più, erano tutti muti come pesci: chi s’incrociava non scambiava nemmeno due parole, Bach lo aveva notato. Al posto loro parlavano i manifesti.”

“Bach osservava le vie di Pokrovsk e capiva che il mutismo degli uomini-pesce e la frenesia degli uomini-topo non si dovevano allo zelo nel lavoro, alla dedizione o all’affanno, ma alla paura: avevano tutti paura di qualcosa, tutti da qualcosa scappavano.”

La natura stessa è a pieno titolo un personaggio del romanzo, i suoi cambiamenti hanno effetti particolari sulle persone che si trovano sulle rive del Volga, i cambiamenti che lo stesso Volga subisce:

“senza sapere che cosa? Che il Volga era pieno di morte? Che il suo alveo era un letto di cadaveri? Che quell’acqua era fatta di sangue e imprecazioni? O che, piuttosto, era piena di vita, dato che chi aveva finito il suo cammino terreno là sotto era scampato alla putrefazione? Che il Volga era ferocia pura? Un cimitero di armi e di ultime testimonianze? O che, piuttosto, era pura misericordia? Misericordia paziente che aveva coperto con la sua onda e portato con sé quanto di barbaro, crudele e selvaggio era accaduto? Che il Volga era pura menzogna?”

L’autrice rende grande onore alle meraviglie della natura ed alla donna. Le descrizioni della flora, della neve e soprattutto del Volga sono, in una parola, magnifiche. Guzel’ Jachina utilizza i giochi di luce, gli odori, i colori, i suoni per le sue indimenticabili, poetiche descrizioni che fanno pensare a veri e propri dipinti. 

Racconto nidificato che mescola il contenuto, il fantastico, la poesia il romanzesco e la storia politica ed economica della Russia all’inizio del 20° secolo Figli del Volga è anche un romanzo di formazione. Guzel’ Jachina mette insieme fatti storici realmente avvenuti e documentati, spesso agghiaccianti o assurdi con delle scene incredibilmente fantastiche al punto tale da non capire se ciò che stiamo leggendo è la descrizione di un sogno o della realtà. Proprio come le matrioske, le famose bambole russe che si incastrano l’una dentro l’altra, lo stile del realismo si mescola con la magia.

L’aspetto magico dona alla narrazione un tocco straordinario e, come una spezia che esalta il sapore di una pietanza, il fantastico “colora” il racconto.

“Si guardò intorno. Non credeva ai suoi occhi: il mondo si stava sciogliendo come strutto nella padella. I contorni delle cose svanivano, scivolavano giù per le pareti del burrone: rami nodosi e possenti, massi, ceppi muscosi, radici, fogliame marcio. I colori si confondevano, trapassando gli uni negli altri: il nero della terra e il rosso delle foglie, il grigio del legno e il verde del muschio, tutto scivolava lentamente verso il fondo. Bach si divincolava disperato, cercando di trovare un appiglio, tentoni, in quelle specie di sabbie mobili che lo circondavano, ma niente, non c’era nulla di solido: solo un impasto molle di legno, pietra e fogliame. Era finito in un ammasso di piante divelte dalla tempesta e ci era finito senza scampo, come una mosca nel miele, come una falena nella cera di una candela.”

Certo, però, non essendo il romanzo solo sogno o incubo, per venire apprezzato come merita, la sua lettura richiede almeno un minimo di conoscenza storica della Russia di inizio Novecento…

Elemento a mio parere fondamentale, in questo libro, è la trama narrativa basata sulle fiabe. Le vicende stesse di Bach, Klara, Annchen, Vas’ka e degli abitanti del villaggio sembrano una fiaba. Sono le fiabe all’origine dell’amore tra Bach e Klara; in seguito diventeranno una sorta di medium che decide le sorti del villaggio. Vediamo allora come le fiabe sono portatrici di luce ma forse soprattutto forze malvage, debolezze umane; queste forze oscure possono addirittura essere il loro motore principale. Questo simbolismo molto presente nel romanzo suscita inevitabilmente la voglia di decodificare tutti i dettagli perchè – pensiamo – avranno senza dubbio un significato, magari non facile da trovare immediatamente. Chissà – pensa chi legge – quante cose, quanti significati importanti mi sto lasciando sfuggire…

Figli del Volga è un racconto epico che narra le gesta eroiche di un padre, il suo sacrificio ed un amore incondizionato per la moglie e per quei figli che non ha generato, un romanzo che si colloca tra la grande tradizione del romanzo russo ed il ricco patrimonio di fiabe popolari che accanto a figure di primissimo piano come “lui” che però sono poste sempre in secondo piano mette in scena una comunità di personaggi umili, quelli che la grande storia travolge e dimentica in una vera e propria epopea da ritmo cadenzato dell’oralità.
Un racconto che, come fa con il protagonista, sballotta il lettore da una riva all’altra in un continuo andirivieni. E sullo sfondo la grande Storia.

Come già aveva fatto in Zuleika apre gli occhi, Guzel’ Jachina intinge la sua penna in un inchiostro fatto di odori, colori, sapori.
È come seguire in barca la corrente del Volga, un meraviglioso, fluviale romanzo, come nei grandi classici russi.

Matushka viene chiamato il grande Volga, madre e origine di tutti i corsi d’acqua, ma anche della stessa Russia; una presenza quasi costante nelle tradizioni popolari tanto quanto nella letteratura classica, da La figlia del capitano di Pushkin alle Anime morte di Gogol fino al più epico di tutti i romanzi, Guerra e pace di Tolstoj.
Con Figli del Volga Guzel’ Jachina, nata nel 1977 a Kazan’, si inserisce dunque in questa tradizione, trovandovi una sua originale collocazione.

Romanzo che non si lascia ingabbiare in una categoria precisa, in cui si trovano caratteristiche del romanzo storico, del romanzo d’amore, del romanzo psicologico, del romanzo fantastico. Il fantastico appare nei racconti onirici spesso inquietanti.
Un romanzo, Figli del Volga, altrettanto bello e molto diverso da Zuleika apre gli occhi (io li ho amati molto entrambi e ad oggi non saprei dire quale preferisco) che conferma il grande talento di Guzel’ Jachina e la scoperta di una vera pietra preziosa della letteratura russa contemporanea.

Guzel’ Jachina è nata a Kazan’, nel Tatarstan, nel 1977. È giornalista, scrittrice e sceneggiatrice. Zuleika apre gli occhi è il suo romanzo d’esordio, cui ha fatto seguito questo Figli del Volga, entrambi tradotti da Claudia Zonghetti.
Jachina è considerata una delle più importanti scrittrici (c’è chi la ritiene addirittura la più importante) di oggi in Russia, già vincitrice dei più importanti premi internazionali. In Italia le è stato assegnato il Premio Tomasi di Lampedusa per il suo primo romanzo Zuleika apre gli occhi.

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