È possibile accostarsi al fenomeno del male, vagliarne la pensabilità e le forme, e al contempo declinarne la problematica attraverso un paradigma nuovo, capace di mettere in discussione l’immane questione da esso sollevata, scompaginandone i risvolti interpretativi? È questo l’obiettivo complesso che Simona Forti ha scelto di perseguire, scrivendo I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere (Feltrinelli, Milano 2012).
Complessità dovuta alle diverse direzioni che tale analisi si propone di percorrere. In primo luogo, una ricerca delle categorie attraverso cui gran parte della filosofia otto-novecentesca (da Nietzsche a Freud, da Heidegger a Lévinas) si è rapportata a quell’evento scandaloso e problematico che è il “male”, nelle forme radicali che hanno interessato la storia recente. Di qui la proposta di Forti, sostenuta nella prima parte del libro, per cui sarebbe possibile individuare un paradigma comune a queste diverse direttrici di pensiero, tutte più o meno scaturite a partire dal tema del “male radicale”, la cui via è stata fortemente indicata (ma non percorsa) da Kant, salvo poi trovare una nitida raffigurazione nelle pagine dostoevskijane. In secondo luogo, un’indagine volta a oltrepassare le strette maglie del “paradigma Dostoevskij”, mettendo in luce una peculiarità del male particolarmente sfuggente, ovvero la sua irriducibilità a qualsiasi struttura dicotomica, il fatto che, tra le pieghe del contemporaneo, risulta difficile se non impossibile identificare il male con chi detiene il potere e il bene con chi ne fa le spese, subendo il suo violento esercizio.
L’Occidente a lungo è stato abituato a pensare il male come male assoluto, come estrinsecazione di una volontà di nulla, unico stratagemma umano per rivendicare una libertà pari per grado a quella di Dio. Poco importa che tale libertà, tanto violentemente reclamata, si configuri nell’uomo come libertà di distruggere, piuttosto che di creare; dal punto di vista del “demone assoluto”, rappresentante della più raffinata forma di nichilismo, il risultato è lo stesso. Il discorso sul male, tuttavia, richiede oggi uno sguardo meno univoco, aperto a una riconsiderazione generale delle sue forme. Gli attori in esso coinvolti non possono essere solo il carnefice e la sua vittima; la realtà storica ci costringe a fare i conti con altre variabili che interrompono bruscamente questa perfetta transitività: da colui che esercita il male a colui che lo patisce. In altre parole, non esistono solo “grandi demoni”, non esiste solo il luciferino Stavrogin, bellissimo e repulsivo al tempo stesso, con “i suoi occhi luminosi anche troppo tranquilli e limpidi”. Esistono anche gli occhi vitrei, dallo sguardo opacizzato, dei demoni banali, quelli che hanno commesso il male, o se ne sono resi conniventi, non per pura volontà di nulla, ma per motivazioni triviali, per guadagno, per paura, per obbedienza, per indifferenza. Non solo il carnefice e la vittima, dunque, ma anche il testimone che, pur assistendo al male, non vi si contrappone; che, anzi, ne assicura la proliferazione, trasformando l’atto maligno, da gesto estremo del singolo, in azione massificata: meno appariscente ma più efficace. Nietzsche stesso, nonostante egli rappresenti, nell’analisi dell’autrice, il più spettacolare sviluppatore del “paradigma Dostoevskij”, non è sordo a questo piano più profondo che la problematica del male suggerisce e ne dà prova quando mette in guardia dai rischi che comporta un eccessivo amore per l’uguaglianza, accompagnato generalmente da una crescente sospettosità nei confronti della differenza. Tale interpretazione può svilupparsi da una rilettura di Dostoevskij contro lo stesso paradigma che porta il suo nome, laddove il Grande inquisitore narrato da Ivan Karamazov perde le sembianze del demone Stavrogin, nel tentativo di addurre le ragioni del suo fare, riassumibili in una promessa di sicurezza e di stabilità, in cambio della disponibilità dell’uomo a farsi assoggettare, ad abdicare alla sua libertà. Baratto tutt’altro che irragionevole e che ha segnato l’idea di potere politico fino ai giorni nostri, comprese le sue più drammatiche radicalizzazioni. Il paradosso del demone banale, che commette il male non per trasgressione, come Lucifero, ma per obbedienza, è il risultato concreto a cui conduce questa catena di pensieri. Accettare la proposta scandalosa del Grande inquisitore consiste concretamente nel barattare il dovere morale con la lealtà a un’autorità, rigettando completamente il principio della propria responsabilità personale, dal momento che non si risponderà più delle proprie azioni di fronte a se stessi, ma avendo come unico termine di riferimento un elemento estraneo. Se Nietzsche, non senza ambiguità e punti oscuri, ha saputo cogliere questo elemento demoniaco del potere e del male che lo accompagna, è con Arendt e Foucault che questa linea interpretativa ha trovato l’ampiezza analitica necessaria a lasciare un solco visibile e ripercorribile.
Sarebbe interessante, a questo punto, proseguire l’indagine, coinvolgendo altre figure di pensatori, di filosofi ma anche di scrittori, giornalisti, uomini politici che, al pari di Patočka, hanno saputo dare uno sviluppo originale a questa istanza di pensiero: Karel Kosík e Ludvík Vaculík in Cecoslovacchia, Leszek Kołakowski e Adam Michnik in Polonia, György Konrád e János Kis in Ungheria, solo per rimanere tra i confini ormai invisibili di quell’Europa di mezzo. I nuovi demoni hanno il grande valore di inaugurare questo cammino, percorrendone un’importante tappa. Sarà opportuno, per chi dedica i propri sforzi allo studio di tali argomenti, accostarsi a questo testo non solo per la splendida lettura che è, ma intendendolo come uno stimolo a sviluppare le virtualità che esso sottende, i cui esiti ultimi attendono ancora di essere compresi nella loro pienezza.