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Il mese dei gemelli. Diario sull'infanzia

di Miklós Radnóti, traduzione a cura di Andrea Rényj infinito edizioni, 2021

Miklós Radnóti (Budapest 1909 - Abda, Györ, 1944) è stato uno dei più grandi poeti ungheresi del Novecento. Perseguitato per la sua origine ebraica, fu mobilitato dopo il 1941 nel servizio obbligatorio del lavoro e destinato prima in Ucraina, poi alle miniere di rame di Bor, in Jugoslavia. Venne ucciso dalle SS durante una marcia di trasferimento da un campo di deportazione a un altro.

La sua prima antologia poetica, Saluto pagano (1930), è dominata da un tumultuoso senso di ribellione, con echi frequenti del surrealismo francese. A essa seguì, nel 1931, la raccolta Canti di pastore di nuova foggia, immediatamente sequestrata perché ritenuta sobillatoria e irreligiosa. Nel 1936 uscì Cammina, condannato a morte dove le note ricorrenti di una morte presentita costituiscono il contrappunto drammatico alla costante aspirazione del poeta all’idillio, nelle sue molteplici forme di ricordo, nostalgia, sete o speranza di vivere. Durante gli anni più duri della guerra, nel dilagare delle persecuzioni e degli orrori, Radnóti compose liriche che sono testimonianze uniche di dolore e di sofferenza.

In italiano le poesie di Miklós Radnóti si possono leggere nel volume Mi capirebbero le scimmie. Poesie (1928-1944), a cura di Edith Bruck (Donzelli editore, 2009).
In questi questi giorni è stato pubblicato Il mese dei Gemelli (1940), a cura di Andrea Rényj (Infinito edizioni). Si tratta dell'unica opera in prosa di Radnóti: un breve diario atipico che è la storia della perdita dei genitori e del divenire poeta. In esso Radnóti sovrappone spazi temporali in un flusso di coscienza lirico e ironico e dà voce al senso di pericolo costante dovuto all'avvicinarsi della Seconda guerra mondiale e al presentimento della propria morte. La sua sorte e la sua opera testimoniano la capacità di resistenza umana e artistica nei confronti di quella barbarie che è stata la Shoah. La sua voce rappresenta l'ultima, tragica protesta dell'arte vera anche nell'inferno dei campi di concentramento.
Pubblichiamo due delle ultime poesie di Miklós Radnóti. Il suo taccuino di versi gli fu trovato addosso quando il suo corpo fu riesumato dalla fossa comune.


Settima ecloga
Vedi, sta imbrunendo, e la sera già assorbe
il rozzo steccato di quercia recintato di ferro con le spine e la svolazzante baracca.
Lento lo sguardo lascia il quadro della prigionia
e solo la mente conosce la tensione di quel filo.
Vedi, cara, qui l'immaginazione, anche lei, solo in questo modo si libera,
il sogno, il bel liberatore, così scioglie il nostro corpo
martirizzato, e allora tutto il campo dei prigionieri s'incammina verso casa. 
Straccioni, rapati, russando volano via i prigionieri, 
dalla cieca cima di Serbia verso le discrete contrade di casa. Appartate contrade: esistono ancora quelle case? Forse la bomba non le ha neanche toccate, esistono, come quando siamo venuti via?E chi si lamenta adesso, qui a destra, e chi giace, alla mia sinistra, tornerà a casa?
Dimmi: esiste ancora laggiù una patria in cui capiscano anche questi esametri?
Senza accenti, solo tastando un verso sotto l'altro, 
così scrivo qui, nella penombra, una poesia, così come vivo, 
cieco come un verme strisciando sulla carta; 
la lampadina tascabile, i libri, tutto hanno portato via le guardie 
del Lager e neppure la posta arriva, solo la nebbia discende fino alla nostra baracca.
In mezzo all'allarme delle notizie e alle cimici vivono qui, sulle montagne, il polacco, il francese, 
l'italiano chiassoso, il serbo scismatico, il malinconico ebreo; 
i corpi sono spezzati, febbrili, eppure vivono qui una sola vita, 
aspettano buone notizie, belle parole di donne, libere sorti umane, 
aspettano la fine – che cada nella fitta penombra – il miracolo. 
Io qui giaccio, sulle assi di legno, bestia prigioniera tra le bestie, l'assalto delle cimici si rinnova, ma si riposa l'esercito delle mosche, adesso.
E' sera, è più corta di un giorno, vedi, la prigionia, 
è più corta, di un giorno, anche la vita. Dorme il lager. Nei dintorni 
la luna splende, e nella sua luce i fili spinati si tendono ancora 
e attraverso la finestra si scorge l'ombra delle guardie armate 
gettata sui muri, che cammina, fra le voci della notte. 
Dorme il lager, e vedi, cara, frusciano i sogni, qui, 
e nitrisce chi di soprassalto si sveglia, e si rigira sullo stretto asse di legno e già 
sprofonda di nuovo nel sonno, e il suo viso luccica nel buio. Solo io siedo sveglio 
e sento fra le labbra il sapore di una sigaretta mezzo consumata al posto 
del tuo bacio e non viene il sonno, il sonno che mitiga, perché 
io non so vivere senza di te, ormai, e neppure morire.

(Lager Heidenau, sopra Zagubica, sulle montagne; luglio 1944)
(Traduzione di Marinka Dallos e Gianni Toti)


Marcia forzata
È pazzo, chi è crollato si rialza e di nuovo si incammina, 
e con dolore errante muove ginocchia e caviglie, 
eppure si avvia sulla strada come se avesse le ali, 
il fosso lo chiama invano, non ha il coraggio di restare, 
e se chiedi perché no? forse ancora ti risponde,
che è atteso da una donna, da una morte più saggia, una morte bella.
Eppure è pazzo, il mansueto, perché laggiù sopra le case 
da tempo non gira più che vento bruciacchiato, 
il muro è steso sulla schiena e il pruno è spezzato 
e la paura è il manto delle notti in patria.
Oh, se potessi credere: non solo portare nel cuore 
tutto ciò che ancora vale, e c’è una casa dove tornare?
se ci fosse! e come una volta sulla fresca veranda
ronzerebbe l’ape della pace, mentre si fredda la marmellata di prugne, 
e il silenzio di fine estate prenderebbe il sole nei giardini sonnolenti, 
e tra le fronde dondolerebbero frutti nudi, 
e Fanni mi attenderebbe bionda davanti alla fitta siepe
e lentamente il lento mattino disegnerebbe l’ombra –
forse è possibile ancora? la luna oggi è così tonda!
Non passarmi oltre, amico, sgridami! e mi rialzo!

(Bor, 15 settembre 1944)

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