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In occasione dell'epidemia

di Francesco M. Cataluccio Edizioni Casagrande, 2020

Proponiamo di seguito alcuni passaggi in anteprima del nuovo libro di Francesco M. Cataluccio “In occasione dell’epidemia”, edito da Edizioni Casagrande e in libreria dal 22 maggio. Precede l’estratto anche un’introduzione dell’autore.

È sconcertante accorgersi, nel momento nel quale si iniziano a fare degli inutili bilanci, che la nostra vita è un romanzo senza intreccio né protagonista, fatto di vuoto e di vetro. Lo si comprende quando la vita quotidiana viene sconvolta da eventi imprevedibili e drammatici.

Una sorta di letargo da quarantena ha dato vita a un libro di racconti e considerazioni fatte da uno tappato in casa per molti giorni, costretto a vedere cose che non avrebbe mai voluto sapere e immaginare.

La letteratura è piena di pigroni, ammalati, reclusi che hanno osservato il mondo, e se stessi, da una stanza. Quasi sempre accade che, dopo alcuni giorni, tutto sembri surreale e assuma una luce sbilenca e violenta. Si diventa più attenti e sensibili all’irrilevante della vita che il più delle volte ci sfugge, perché, anche con comprensibili e pratiche ragioni, si è abituati a considerare essenziale ciò che, improvvisamente, appare effimero.

Si comprendono e imparano molte cose in circostanze non ordinarie. L’epidemia di Coronavirus, vissuta e osservata da uno dei suoi centri più bollenti, la Milano che fino all’ultimo, sciaguratamente, ha cercato di non fermarsi, è l’occasione di un libro che non segue la cronaca del progredire del dramma, ma narra un tragicomico e grigio delirio dove tutto si confonde, come accade nei sogni. E proprio dal racconto di un bizzarro sogno, in un negozietto del quartiere cinese, tutto inizia…

Introduzione di Francesco M. Cataluccio, saggista e scrittore


La mia nonna materna, Giulia Vitale, ci ricordava continuamente che non potevamo nemmeno immaginare che cosa fosse stata la guerra (lei era sopravvissuta a ben due e a un certo punto, in cantina, era stata persino costretta a mangiare dei topi). Così sono cresciuto informato dei mali e dei disastri del mondo, ma sempre con l’idea che, se una cosa non la vivi con l’esperienza personale, non la puoi comprendere nella sua vera realtà. E comunque non sarebbe mai toccato a me. Questo è stato vero fino all’aprile del 1986 quando, anche per una momentanea e casuale vicinanza geografica, mi trovai invischiato nelle conseguenze radioattive della catastrofe nucleare provocata dall’esplosione della centrale di Chernobyl (dove, il 4 aprile di quest’anno, come già non bastasse la pandemia, si è sviluppato, attorno alla centrale, un rogo, presumibilmente di origine dolosa, in cui sono bruciati più di 35 ettari di foresta, e che ha fatto registrare radiazioni 16 volte superiori alla norma). Su quell’esperienza scrissi un libretto: Chernobyl (Sellerio, Palermo 2011).

Per la prima volta provai la paura della «morte invisibile», di un attacco senza odore, né rumore, né colore (le particelle radioattive e i virus non lo hanno, perché sono più piccoli della lunghezza d’onda della luce). Mi ritrovai a guardare con sospetto tutto quello che mangiavo e bevevo; pensare che le suole delle scarpe raccattassero il contagio pesticciando il suolo; sospettare di coloro che giravano con una mascherina e guanti di lattice; scrutare il cielo sentendolo minaccioso. Toccai con mano, e poi ancora, nella primavera del 2011, con la catastrofe della centrale nucleare giapponese di Fukushima, quanto i governi siano pasticcioni, capaci di mentire, scaricarsi le responsabilità, insabbiare, e come i media siano con loro, più o meno consapevoli e manipolati, complici. E anche oggi è accaduto, in tutto il mondo, così. (…)

La consapevolezza dell’epidemia è iniziata, per tutti, durante il periodo di Carnevale che, a Milano, come si sa, termina quattro giorni dopo che nel resto del mondo. Infatti, nel IV secolo d.C., la città era stata decimata dalla peste: la popolazione posta in quarantena; chiuse le vie d’accesso e limitati gli scambi commerciali; le scorte alimentari razionate. Il vescovo Ambrogio, per evitare altre sofferenze alla sua gente (il digiuno e la penitenza subito dopo la fame e la malattia), ottenne dal Papa una dispensa speciale perpetua: la possibilità, per la sola diocesi di Milano, di festeggiare il Carnevale fino al sabato precedente la prima domenica di Quaresima. Una bizzarria, nata dal connubio tra contagio e festa, che dura tutt’ora. «Il Carnevale ha qualcosa a che fare con il Destino?», si chiedeva il giurista, filosofo e teologo tedesco Florens Christian Rang, all’inizio del suo Psicologia storica del Carnevale (1908-1928). E aggiungeva un’annotazione che oggi fa effetto: «La moderna libertà della vita dello spirito e dell’anima sta tutta nella nostra furibonda incapacità di respirar quietamente sempre e soltanto in mezzo a regole e ordinamenti, e il sentirci, sotto di essi, sempre vicini a soffocare e, esplodendo, a lacerarli insieme a noi stessi». A Milano, e dintorni, avremmo fatto meglio a non festeggiare quei giorni di Carnevale in più!

Il 12 febbraio poi doveva iniziare il Capodanno cinese: quest’anno proprio nel segno del Topo. Il Capodanno orientale è una grande festa di primavera, una sorta di Carnevale con maschere e sfilate. Stando alla mitologia cinese, l’origine della festa di primavera è legata a un’antica leggenda, secondo la quale, nei tempi antichi, viveva in Cina un mostro chiamato Nian, che avrebbe avuto l’abitudine di uscire dalla sua tana una volta all’anno per mangiare esseri umani. L’unico modo per sfuggire a questo tributo di sangue era spaventare il Nian, sensibile ai rumori forti e terrorizzato dal colore rosso. Per questo motivo, i cinesi sono soliti festeggiare l’anno nuovo con canti, strepitii, fuochi d’artificio, l’uso massiccio del colore rosso e la rituale “danza del leone” nella quale si sfila per le strade inseguendo una maschera da leone, che rappresenterebbe il Nian. L’inizio dell’anno del Topo non è stato festeggiato e Nian dilaga.

Le epidemie arrivano dalla Cina a ondate e fanno stragi di uomini e animali. Nel luglio del 1968 scoppiò a Hong Kong, allora colonia britannica, una violenta forma di influenza (virus di tipo a-h3n2) che fu chiamata, dato il momento di esaltazione per i viaggi nel cosmo, «Spaziale». Arrivò in Italia un anno e mezzo dopo e colpì 13 milioni di persone (un italiano su 4): 20.000 furono i decessi. In tutto il mondo fece circa un milione di vittime. In famiglia la prendemmo tutti, persino la mamma, che non si ammalava mai. Ricordo però che continuammo a fare la vita di ogni giorno: la scuola non chiuse (e io ci andai, anche con la febbre, per non perdermi un paio di assemblee) e anche la mamma fece lezione a scuola, tossendo come una locomotiva arrugginita. Il babbo continuò a prendere, al mercoledì, il suo treno per Genova, dove gli studenti dell’Università (occupata) gli permettevano di tenere lo stesso le sue lezioni di Storia contemporanea. Eravamo tutti in ben altre faccende affaccendati. L’influenza «Spaziale» quindi riprese il volo e non lasciò particolari strascichi polemici. Eppure, per numero di morti, fu la terza pandemia del ventesimo secolo, dopo l’influenza «Spagnola» del 1918 e l’influenza «Asiatica» degli anni Cinquanta.

L’origine della «Spagnola» (che fece circa 50 milioni di vittime) non è chiara. Ma Claude Hannoun, il principale esperto dell’epidemia per l’Istituto Pasteur, affermò che probabilmente si trattava di un virus proveniente dalla Cina e che era mutato negli Stati Uniti, vicino a Boston, per poi diffondersi a Brest, in Francia,nei campi di battaglia dell’Europa, utilizzando soldati e marinai come principali diffusori. Lo storico canadese Mark Humphries, sulla base di nuovi documenti, nel 2014 ha suggerito che l’origine della pandemia possa essere stato uno degli eventi collaterali della Prima guerra mondiale: la mobilitazione di 96.000 lavoratori cinesi chiamati a prestare servizio dietro le linee britanniche e francesi sul fronte occidentale. Humphries ha trovato prove archivistiche di una malattia respiratoria che avrebbe colpito la Cina settentrionale nel novembre del 1917 e che l’anno successivo fu ritenuta identica alla «Spagnola» dai funzionari della Sanità cinesi.

L’«Asiatica» (che, tra il 1957 e il 1960, fece 2 milioni di morti) fu causata da un virus (chiamato «Singapore») isolato per la prima volta in Cina nel 1954. La madre del mio migliore amico alle elementari, mentre era incinta, aveva contratto l’«Asiatica». Il figlio, fino all’età di 4 anni, non ebbe alcun sintomo, ma, a causa di un’influenza con febbre fortissima, ebbe uno sconvolgimento ormonale che gli rattrappì le manine e gli fece, pian piano, crescere a dismisura la testa. Tutti si aspettavano che l’età dello sviluppo gli sarebbe stata fatale: anche per questo era così gioioso, brillante, curiosissimo. Trangugiava la vita intuendo di avere poco tempo. E invece superò quel momento e si laureò brillantemente in Scienze politiche. Poco dopo un colpo di freddo ce lo portò via. (…)

L’idea del Coronavirus come effetto di un complotto globalista, fomentato dallo «Stato profondo» e dai sionisti, che coinvolge tutti, da George Soros a Bill Gates, si è fatta strada non solo nei siti gestiti da rappresentanti dell’estrema destra, ma anche nelle piattaforme largamente utilizzate dai paranoici. Alcuni poggiano le proprie teorie complottistiche sull’esistenza di un laboratorio franco-cinese per lo studio dei virus patogeni con sede proprio a Wuhan. Nel 2017, il Primo Ministro francese Bernard Cazeneuve inaugurò il Laboratorio p4 dicendo: «Sono felice di trovarmi a Wuhan, che alcuni chiamano la “piccola Francia”, cuore della cooperazione franco-cinese». La virologa Shi Zhengli ha sostenuto che, il 7 gennaio, gli scienziati del suo Istituto-laboratorio erano già assolutamente certi che tanta gente si stesse ammalando a causa di un nuovo virus «che è il castigo che subiamo per le nostre barbare abitudini alimentari». Ma questo non significa, e non ci sono le prove, che laggiù si sia “costruito” questo potente virus e che sia in qualche modo scappato fuori dalle provette infettando la città e il mondo. Questa tesi toglierebbe la responsabilità al Mercato di Wuhan, dove il pipistrello morse il pangolino che poi un cinese mangiò... In quella “fiera dell’Est”, però, come si è visto bene dai documentari del «National Geographic», c’è una grande quantità di animali (serpenti, cani, uccelli, cinghiali, pennuti), molti ancora vivi, ammassati in gabbie e altri già preparati per esser cucinati, che hanno ormai sembianze che li rendono irriconoscibili. Per terra pozzanghere di sangue. Qualcosa di molto antico e assai impressionante. (…)

Grande è la responsabilità del Governo cinese di aver diffuso la notizia con molto ritardo. Ma ha dovuto darla, perché oggi esiste in Cina una “classe media” e un’opinione pubblica che, pur ancora assai “disciplinate”, non accetterebbero passivamente, a differenza del passato (anche durante il comunismo di Mao), la morte di moltissime persone. Il primo caso è scoppiato a Wuhan il 17 novembre. Soltanto 14 giorni dopo se ne sono visti gli effetti. Il coraggioso medico Li Wenliang per primo ha denunciato l’esistenza e la pericolosità di questo virus (che lo ha fatto morire il 6 febbraio). Il 23 gennaio la Cina ha chiuso tutto, isolando milioni di persone. E allora il mondo ha iniziato ad aprire gli occhi. Invece di prendere sul serio quello che stava accadendo in Cina, e studiare come laggiù si stessero adottando delle severe contromisure per combattere il contagio, in Italia si è pensato che la cosa non ci avrebbe riguardato direttamente. Il primo errore, effetto di questa isterica campagna, è stata la decisione drastica di chiudere tutti gli aeroporti italiani ai voli provenienti dalla Cina (riportando subito in patria i 400 italiani che si trovavano a Wuhan, dove c’è un’importante fabbrica italiana di materie plastiche, per metterli in quarantena). Questo provvedimento, dettato solo da scelte politiche ed emotive (come purtroppo ormai quasi tutte le decisioni che si prendono nel nostro paese), si è dimostrato folle. Invece di predisporre dei dispositivi nei nostri aeroporti che permettessero di controllare tutti i cinesi, gli stranieri e gli italiani di ritorno dai luoghi dove avrebbero potuto essere contagiati, si sono provocati ritorni incontrollati dalle nazioni confinanti. L’Italia ha così perso il controllo sui rientri dalla Cina...

Estratto dal libro di Francesco M. Cataluccio, "In occasione dell'epidemia", Edizioni Casagrande, 2020.

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