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L'Ambaradan delle quisquiglie

di Francesco M. Cataluccio Sellerio editore Palermo, 2012



Francesco M. Cataluccio ha studiato filosofia e letteratura a Firenze e Varsavia. Dal 1989 ha lavorato nell’editoria e attualmente si occupa dei programmi culturali di Frigoriferi Milanesi. Tra le sue pubblicazioni: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi,  2004); Vado a vedere se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, 2010; Premio Dessì per la letteratura 2010); Che fine faranno i libri? (Nottetempo, 2010); Chernobyl (Sellerio,  2011). 


“Forse questo mio Abbecedario nasce ‘in luogo di’: in luogo di un romanzo, in luogo di un saggio sul Novecento, in luogo di un libro di memorie”. 
Francesco Cataluccio riporta la frase del poeta Czeslaw Milosz (1911-2004) “che negli ultimi anni della sua vita lavorò a ricapitolarla, incasellandola nella forma di un Abbecedario” (pg.160), forse perché proprio da lui ha tratto ispirazione per L’Ambaradan delle quisquiglie (Sellerio editore Palermo, 2012). Ma qualunque sia la fonte d’ispirazione, si tratta di un’opera geniale. 


Ci sono vari modi per scrivere un’autobiografia: si può seguire l’ordine cronologico degli eventi, e lasciare ai fatti e alle azioni il compito di far trapelare il pensiero e l’anima del protagonista, si può comporre un romanzo e rappresentare l’autore in uno o più personaggi, si può usare la forma epistolare, il saggio…


In questa sua opera, seguendo l’ordine alfabetico, l’autore raccoglie una serie di aneddoti, più simili alle pennellate su una tela che a dei racconti veri e propri, arrivando a presentare un quadro completo di sé stesso: gli episodi salienti dell’infanzia e della giovinezza (quelle che forse potrebbero sembrare quisquiglie, ma che in realtà rappresentano i fatti determinanti nell’evoluzione personale di ogni essere umano), il proprio pensiero filosofico,  gli eventi storici che lo hanno influenzato, le letture e gli autori preferiti, le persone conosciute, apprezzate o solo incrociate per caso, le storie ascoltate.


Ogni voce innesca una sorta di flusso di coscienza, che può spaziare dal particolare personale a considerazioni più generali su argomenti specifici – grande rilievo è dato a Kundera e alle sue opere, di cui Cataluccio è profondo conoscitore, così come alle vicende storico-politiche dell’Europa Orientale, senza tralasciare considerazioni sul presente, oppure focalizzarsi immediatamente su un unico tema riuscendo, grazie a riferimenti e citazioni mirate e accuratissime, a trattarlo compiutamente in poche righe. 
Il risultato è un’opera letteraria estremamente interessante e coinvolgente, scritta in un italiano impeccabile (cosa senz’altro rara oggigiorno), che lascia trasparire la profonda cultura ed ecletticità dell’autore, ma in modo umile e garbato, riuscendo quindi ad appassionare anche lettori meno esperti, proprio perché in grado di fornire spunti di riflessione e continui stimoli all’approfondimento e alla conoscenza. 
Perché alla fine “raccontare è vivere. L’umanità è sempre sopravvissuta perché ha raccontato: le storie sono il fiato del mondo.” (pg. 174)


Proponiamo di seguito un estratto dal libro, altri brani nel box qui sotto


CAMMINARE Raccontano che sul muro di un monastero di Toledo, stia scritto: «Viaggiatore, non c’è la strada, la strada si fa camminando». C’è chi però riferisce una frase più breve: «Non ci sono cammini, solo il camminare». Questa scritta potrebbe voler dire che non è importante la strada che si percorre, ma il fatto che la si stia percorrendo. Oppure, che non ci sono strade nella vita: ti metti in moto e arrivi dove vuoi (o hai la fortuna o la disgrazia di) andare a finire. Infatti il poeta Antonio Machado, nel 1912, scrisse: «Camminante, non ci sono strade segnate /si fa il cammino, andando».
Il musicista Luigi Nono, ispirandosi a questa filosofia, che era anche quella del regista russo Andrej Tarkovskij, scrisse, nel 1987, una malinconica composizione intitolata No hay caminos, hay que caminar..., che gli dava l’occasione di ripensare problematicamente al suo percorso politico e alla sua fede nel comunismo.
Ma oggi sembra più facile leggere questa frase alla luce della visione del mondo racchiusa in un popolare libro, che non ho mai amato, Lo Hobbit (1937), dove John Ronald Reuel Tolkien fa dire a Gandalf, rivolto allo scassinatore Bilbo: «L’avventura inizia nella porta, basta che tu la apra e ti metta a camminare».
Il camminare può trasformarsi anche in un girare a vuoto. L’aspetto più importante di un cammino non è il traguardo, ma piuttosto i luoghi e le cose dalle quali dobbiamo uscire. Nella Bibbia (Numeri 32, 2) si legge: «Moshè scrisse i luoghi di partenza dei loro itinerari... e questi sono i loro itinerari verso i luoghi di partenza...». Si può trattare quindi anche di un ritorno al luogo di partenza, in un cammino inevitabilmente circolare. In questo sta la differenza tra il pellegrino e il viandante. Il pellegrino sa dove andare, perché si affida a Dio: «Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini» (Salmo 85).
«Cammin facendo...» era l’intercalare col quale la nonna Giulia riprendeva fiato, e riordinava le idee, quando raccontava le storie per addormentarmi. Accoccolata vicino al mio letto, con il cane lupo Penelope ai piedi, nella sua grande casa di Firenze, dietro la Questura, si sentiva puntualmente chiedere dalla mia vocetta sveglia: «Facendo cosa?». Questo la indispettiva. A lei sembrava ovvio che il tempo si facesse tra- scorrere camminando. E il cammino tornava anche in altre sue espressioni. Per dire che una cosa andava trattata con pazienza, nei tempi giusti, diceva: «Cammin, cammino». Quando la facevo arrabbiare, invece, mi mandava via con un brusco: «Cammina!», seguito da un minaccioso: «Ne hai ancora di strada da fare».

Fu lei che, avrò avuto quattro anni, mi portò, in un tiepido pomeriggio primaverile, a fare per la prima volta quella camminata che sarebbe diventata la mia «passeggiata per antonomasia», finché abitai nell’appartamento sopra i tetti, dei miei genitori, nella via intitolata al maestro sodomita di Dante, alla periferia nord della città. La strada saliva dolcemente, tra villini inizio Novecento, e si interrompeva di fronte a un alto muro di un rigoglioso parco ai piedi della collina di Fiesole. Sulla sinistra si scendeva di pochi passi fino al torrente Mugnone, dove c’era il capolinea del malinconico autobus numero uno e finiva ufficialmente la città. Una strettoia, quasi una gola di alti muri di grigia pietra con dietro alti cipressi, di quelli che solo Ottone Rosai ha saputo rappresentare con poesia, immetteva nella vecchia via Boccaccio che, costeggiando il fiume, iniziava a salire in ampie volute. A sinistra, oltre il Mugnone, la via Faentina, nascosta dalle case e dagli alberi. Sullo sfondo, il dolce e scuro Monte Morello, con le sue antenne punteggiate di luci intermittenti e l’edificio bianco a vetri del Sanatorio. Più avanti, in direzione del cimitero di Trespiano, come candidi funghi abbarbicati nelle fragile roccia, le ville irraggiungibili, stile Frank Lloyd Wright, del suo seguace fiorentino Ricci. A destra, costeggiata dalla strada, la collina di olivi e cipressi, col prato all’inglese, sormontata da quella che chiamavano, la Villa. Là, già in alto e isolati per antonomasia e con l’acqua corrente del fiume a portata di mano, si sarebbero rifugiati, per sfuggire alla peste del 1348, quei buontemponi sedentari che, per passare il tempo, si raccontavan le novelle tramandateci dal Decamerone di Giovanni Boccaccio. Su quel fiume, il povero Calandrino cercò invano la Pietra Filosofale, mentre Buffalmacco e gli altri lo lapidavano fingendo che fosse diventato invisibile. Per anni, centinaia di volte, ho percorso quella strada fino a San Domenico, a volte su fino a Fiesole. Durante l’Università, tutti i pomeriggi, prima di mettermi a studiare, salivo quella collina e mi immergevo nell’essenza di Firenze, guardandola poi dall’alto, dalla terrazza dinanzi a quel capolavoro dell’architettura romanica, fatta di marmi inscritti nei mattoni, che è la Badia Fiesolana. Quella era la sosta che dava un certo sapore metafisico alla camminata, soprattutto in inverno, guardando annebbiarsi il precoce tramonto. Calpestando le pietre levigate dal tempo di quella strada poco frequentata, percepivo un po’ alla volta il passare delle stagioni. Dopo i primi tornanti, le gambe andavano quasi da sole e la fantasia superava i muri e i cancelli, mettendo assieme con la coda dell’occhio le cime degli alberi. Mi allontanavo e mi riavvicinavo a Firenze in due ore. Quelle camminate erano come false partenze. Andando su e giù per la vecchia via Boccaccio, macinando tutti quei chilometri, mi sono passati velocemente gli anni. Cammin facendo mi son fatto adulto, son partito per sempre, ma non sono riuscito a diventare invisibile.

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