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La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam

di Vittorio Robiati Bendaud Guerini e Associati, 2018

Riassumere in poche pagine la complessa storia dei rapporti fra Islam ed ebraismo, e per meglio essere precisi il difficile vissuto degli ebrei in quei territori che furono “dimora” dell’Islam, non è cosa semplice. L’impresa di Robiati Bendaud in questo senso è degna di ammirazione, anche perché riesce a restituire, nella complessità di un testo non sempre agevole e che giustamente tenta di essere divulgativo e non accademico (p.15), i diversi chiaroscuri (forse purtroppo soprattutto scuri) e le sfaccettature di una storia che non può essere riassunta con formule sintetiche.

Il testo di Bendaud sembra voler combattere soprattutto un pregiudizio che ancora a volte aleggia nelle “chiacchiere” attorno a questo problema, quello di una fase storica “priva di ombre”, così come quello di una tolleranza islamica “smarritasi unicamente per colpa del colonialismo europeo”(p.15). Così come – non è forse un caso la sintonia di questi “pregiudizi” – la riduzione di un cristianesimo a fatto tutto europeo (p.16); in questo senso anche l’ebraismo rischia di non vedere riconosciuta una parte fondamentale delle sue molteplici identità.

Forse questo racconto nasce anche da un’urgenza sul presente, le riflessioni finali del testo (pp.240-241) ci dicono di una “inattualità” di questa narrazione, che però è al tempo stesso necessaria per capire il presente, anche ad esempio dell’attuale Stato di Israele, “in cui oggi vive da alcune generazioni la stragrande maggioranza degli ebrei provenienti da questi territori”.

Anche un lettore semplice come il sottoscritto rimane al tempo stesso affascinato e toccato, nonché molto inquieto, di fronte al ricorrere di luoghi, di confini, di nomi che hanno inevitabile un’eco che rimbalza tra passato e presente. Certo, bisognerebbe leggere il testo di Bendaud con vicino un atlante storico, in modo da assicurarsi di non “perdersi”, e soprattutto non cadere nella confusione che tutto appiattisce, o in troppo facili sovrapposizioni (penso in questo momento alle pagine sulla reazione ebraiche e cristiane all’avanzata dell’Islam, pp.64-68, dove l’occhio si appoggia a nomi di luoghi di cui si sente parlare anche oggi: Gerusalemme, Gaza, Teheran).

Tentare di riassumere qui il testo non è semplice, né corretto, ma almeno un cenno va fatto ad alcune delle problematiche che Bendaud tocca, e che potrebbero essere spunto di approfondimento e di discussione, magari staccandoci da quella urgenza di cui si diceva, di dire oggi qualcosa di significativo su conflitti del presente. Seminare spunti, ma non per difenderci e combattere oggi.

Penso per esempio al problema che traspare dalla citazione di Bouman (pp.62-63) sul Corano che acquista un valore di eternità; il passaggio dal temporale all’intemporale è un nodo difficilissimo da sciogliere per tutte le fedi, incarnate, semicarnali o spirituali che siano; e questo nodo si presenta per certi aspetti anche a livello testuale: in questo senso molto significativo il richiamo di Ibn ‘Ezra, che “non mancò di evidenziare un certo margine, da doverosamente preservarsi, di intraducibilità dell’ebraico” (p.111, corsivo dell’autore). Sulla traducibilità dei testi sacri dovremmo scrivere molto, e molto – e troppo – si è già scritto. Perché ogni testo (anche sacro) è un po’ una fuga dalla vita, e troppo vicino ai testi (tradotti o meno) si perde il senso di qualsiasi fede, e forse di qualsiasi vita.

Volendo sostare più vicino alle dinamiche che segnano la storia di questi rapporti ebraico-islamici, ma che riguardano non solo quei rapporti (e che comunque risentono fortemente della presenza – non facile, direi ingombrante del “terzo anello” cristiano, per riprendere la metafora del saggio Nathan di Lessing), sono preziose le pagine riguardanti la figura di Maimonide (pp.131-136), e in particolare la sottolineatura della tensione-vicinanza di queste due fedi, alla luce del terribile problema delle conversioni forzate. Ma almeno un breve accenno va fatto anche – per esempio - alla vicenda de la Señora (pp.156-161), imprigionata dall’Inquisizione, e poi giunta alla corte di Solimano, e che da quella posizione “progettava (…) il ripopolamento ebraico della Galilea, in primo luogo come ricovero per gli esuli ebrei e marrani ispano-portoghesi” (p.160).

Ho già raccontato troppo, e per questo mi fermo; non prima però, di un paio di riflessioni finali, spero non troppo pesanti.

La prima è che dopo la lettura di questo testo mi fermo più volentieri di un tempo a sorseggiare un caffè o a bere un bicchiere di vino; lo sapevamo già, forse, ma mi è parso di capire che anche questa storia lo provi (si leggano in particolare p.146 e poi p.165): alcuni vizi aiutano – forse meglio di presunte virtù - una convivenza al di là delle fedi (e forse anche delle ideologie, che spesso quelle fedi vorrebbero imitare). La ragione spesso si fa ingannare dai testi; i sensi forse meno, e a volte anch’essi possono ben consigliare, cercando la pace invece della discordia.

La seconda è che dopo la lettura di questo testo ho sentito il bisogno di “staccarmi” da questa narrazione, da questi bui e da questi luoghi; non è una storia facile, e se penso a come poter costruire un futuro degno per ogni donna e ogni uomo di questo pianeta, ho la sensazione che non possa essere su queste tracce che troveremo una soluzione: è una storia difficile, quella del Medio Oriente; è una storia che ci chiede di esserci ancora oggi; è una storia da cui – forse – è anche necessario prendere la giusta distanza, per poter costruire un domani per tutti.

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