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Lungo la via incantata

di William Blacker Adelphi, 2012

Gli inglesi hanno un modo straordinario di viaggiare, e di scriverne. Lo si potrebbe definire “empatico”. Cos’altro non sono infatti i bellissimi racconti dei viaggi di Patrick Leight Fermor nella penisola greca di Mani o attraverso l’Europa centrale (cfr. Mani, Adelphi 2004; Tempo di regali, Adelphi 2009; La strada interrotta, Adelphi 2015 e il meno bello Rumelia, 2021), o quelli del suo amico Bruce Chatwin, se non delle immersioni totali in mondi così differenti dalla Londra di partenza, armati di una curiosità sconfinata e l’attitudine appassionata a innamorarsi di luoghi e persone?

Nel Natale del 1989, alle prime avvisaglie di caduta del Muro, il ventisettenne William Blacker decise di esplorare subito i paesi dell’Europa centrale, memore giustamente della frase di Cocteau: “La purezza di una rivoluzione può durare al massimo due settimane”. Dopo Berlino e Praga, Blacker decise di dirigersi, “per amore dell’architettura”, nei Carpazi. Visitò così la Bucovina e i suoi meravigliosi monasteri e tutta la Transilvania.

Proprio il suo “maestro” Fermor, all’inizio degli anni Trenta, aveva attraversato, diretto a Costantinopoli, quella regione raccontandola poi nel suo Fra i boschi e l’acqua (Adelphi 2013). Blacker incontrò una Romania povera e devastata, ma “un popolo che mi fece sentire ovunque il benvenuto”. Gente che, ai suoi occhi, sembrava possedere il segreto di saper essere felice con poco. E fu così che lo stregarono: “fin da subito avevo capito che non esisteva altro posto dove volevo stare”. Là fece strani incontri e ascoltò storie fiabesche: “Il guardiano della chiesa abitava in una torre vicina. Quella notte un lupo si era arrampicato oltre il muro del suo giardino egli aveva ucciso due pecore. Mi fece vedere le sue impronte. Eravamo in città. Per arrivare lì, il lupo doveva aver percorso a lunghi balzi il pavé e i marciapiedi”.

L’anno successivo, avendo studiato nel frattempo la lingua rumena, tornò nella regione settentrionale della Romania, al confine con l’Ucraina: il Maramures. Fece conoscenza con gli ultimi eredi dei sassoni, in procinto di emigrare tutti in Germania, e infine con gli zingari, presso i quali decise di stabilirsi, alcuni anni dopo, fuggendo da un’Inghilterra in crisi dove lui, ragazzo mezzo di campagna, non si ritrovava. “La Romania senza gli zingari”, ha sostenuto Konrad Bercovici, scrittore rumeno emigrato negli Stati Uniti, “è inconcepibile, come l’arcobaleno senza colori o la foresta senza uccelli”. L’incontro con due belle e irrequiete sorelle rom, Natalia e Marishka (che diverrà la sua compagna), radicherà profondamente Blacker in un mondo magico, lontano dalla modernità, dominato da leggi e costumi suscettibili di mille interpretazioni e variazioni. La turbolenta e, a suo modo bizzarramente romantica, storia d’amore con Marishka (che, dopo la separazione, gli darà un figlio: Constantin) introduce nel racconto di quegli strani e bellissimi luoghi un elemento “personale” che rende il libro ancora più interessante e vivo.

Ma indimenticabile per il lettore è il personaggio che fa da architrave di tutto il racconto, ritornando costantemente come un faro: il vecchio Michai, figlio di Georghe, figlio di Stefan, che per primo aveva accolto e ospitato a casa sua Blacker, senza voler niente in cambio, che gli fu sempre vicino e, in punto di morte, gli scrisse una lettera-testamento dove lo nominava suo figlio. Con questa strana adozione, che sancisce definitivamente di una profonda integrazione, maturata nell’arco di diciotto anni, si conclude il viaggio di un giovane e intraprendente inglese in Transilvania. Un prezioso libro che si legge come un romanzo dei migliori e fa venir voglia di partire alla scoperta di mondi, magari nemmeno tanto lontani, ancora poco esplorati.

Francesco M. Cataluccio, Responsabile editoriale della Fondazione Gariwo

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