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Patria

di Fernando Aramburu Guanda, 2019

Il bellissimo romanzo di Aramburu è uscito in Italia, per Guanda, nel 2017, tradotto in modo mirabile da Bruno Arpaia. Ha ricevuto molti riconoscimenti tra cui il Premio Strega europeo nel 2018 e, per chi ancora non lo conosce, molti sono i motivi per leggere quest’opera che con i suoi brevi 125 capitoli cattura il lettore con una prosa fluida, efficace, coinvolgente e che, nonostante le 650 pagine, fa chiudere il libro con nostalgia.

Il romanzo è ambientato in Spagna, nei Paesi Baschi, tra la fine degli anni Settanta e Ottanta e il 2011 quando l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna), l’organizzazione armata del terrorismo separatista che ha fatto 829 morti, ha dichiarato la sua resa. Lo scrittore basco, nato nel 1959, anno della fondazione dell’ETA e ora residente in Germania, afferma in una bella intervista a La Repubblica dell’agosto 2017: “Patria non è un romanzo a tesi sulla società basca né tantomeno sul terrorismo. Mi interessano la gente, gli individui, i legami. Non volevo che i miei personaggi incarnassero delle astrazioni, che fossero dei recipienti di idee o concetti. A tutti volevo conferire spessore umano, complessità, sfumature. Anche a quelli che nella vita mi sarebbero stati più distanti».

La storia narra le vicende di due famiglie, molto amiche tra loro: le rispettive madri, da giovani, avevano pensato di entrare entrambe in convento, poi Bittori sposa Txato (in seguito assassinato dall’ETA) e ha due figli (Xavier e Nerea) e Miren sposa Joxian e dall’unione nascono tre figli, Joxe Mari (poi affiliato all’ETA), Arantxa e Gorka. L’azione terroristica che colpisce il marito di Bittori creerà un solco di divisione tra le due famiglie ma anche al loro interno.

Joxe Mari trascina la madre nel cieco fondamentalismo basco ma sua sorella e suo fratello non esitano a dichiarare le sue azioni come assassine. Stesso contesto, stessa famiglia e educazione: dove si decide la propria libertà interiore e l’autonomia di pensiero? Il lettore, attraverso di loro, si sente costantemente interpellato.

I personaggi sono così credibili e ben descritti che sembra, per tutto il romanzo, di vivere nei loro cuori e pensieri. Pregi, difetti, ragioni e motivazioni da entrambe le parti nascono, crescono e si evolvono con le vicende della vita personale e sociale. La leggera pioggia delle regioni basche accompagna il lettore nelle birrerie dove, con orecchino e felpa con cappuccio, si riuniscono i ragazzi dell’ETA, ma anche nelle carceri dove la polizia picchia violentemente i detenuti. Soprattutto si entra nelle case di queste due famiglie e sembra di sentire gli odori del pranzo e della cena, gli umori e il clima interiore di ogni suo componente, in particolare quello delle due madri, due leonesse!, di cui è concesso pure ridere grazie all’ironia che ne descrive pregiudizi e spigolosità.

Con Aramburu non si legge la storia dei Paesi Baschi, la si vive dal di dentro.

Lo stile mescola colloqui in terza e prima persona, con una prosa emotivamente coinvolgente tra passato e presente.

Aramburu ci accompagna nel mondo della sua giovinezza e ci racconta come è scampato ad una propaganda martellante e corale, con un “fascino estetico, eroico, giovanilistico”: nelle foto esposte, i detenuti erano sempre giovani anche se, dopo anni di carcere, erano malati, grassi e calvi.

«Il fanatico nega il trascorrere del tempo, non vuole sentirsi passeggero, aspira all’eternità. E certe idee politiche ti promettono l’immortalità nella Storia, ti assicurano che rimarrai sempre presente, non in forma individuale, ma collettiva».

Dice Joxe Mari che sconta la sua pena per omicidio: La verità «è che non sono entrato nellETA per essere cattivo. Ho difeso delle idee. Il mio problema è che ho amato troppo il mio popolo».

Aramburu ammette : «Da giovane avrei potuto dire sì alla propaganda dell’Eta, così come fecero tanti giovani, alcuni dei quali studenti come me ma non lo feci perché, seppur non credente, appartengo a una famiglia cattolica e perché non potevo, e non posso, prestare il mio consenso ad un’azione, una protesta che comporta sequestri, morti, devastazione. Un altro anticorpo sono stati i libri. Leggendo scopri che il posto dove sei nato e vivi non è per forza il centro o il migliore del mondo. A 16 anni pensavo a Dostoevskij, Dickens, Cervantes... Mica a sparare alla gente».

“Patria” certo parla di terrorismo e di Spagna ma soprattutto dei conflitti che lacerano l’esistenza di persone comuni frantumata dalle conseguenze della lotta armata che non risparmia nessuno: però proprio quegli uomini e donne, dopo la fine del franchismo, hanno pian piano compreso che in democrazia la vera forza non è la violenza ma la parola e hanno decretato la fine dell’ETA.

“Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti”: i personaggi evolvono, cambiano, capiscono se stessi e la vita. L’amore per la “Patria” passa dal nazionalismo violento all’amore per la lingua “euskera” che tutti parlano. Attraverso Gorka, fratello del militante Joxe Mari ma poeta, scrittore e pacifista, l’autore lancia un messaggio di speranza: la lingua unisce e cura le ferite, dà senso di appartenenza attraverso la bellezza e la cultura. Così si può credere con fiducia nel futuro.

Lo scopo dell’autore non è etichettare i buoni e i cattivi ma invitare il lettore prima di tutto a capire per poi giudicare da sé che il terrorismo è sbagliato e nefando. Eppure anche se è incontestabile chi è vittima e chi è carnefice, il lettore è messo davanti al singolo etarra, Joxe Mari, un personaggio complesso, che ha cominciato da adolescente a usare bombe e fucili ma una volta in carcere riconosce, a quarant’anni, che ha gettato via l’unica vita che aveva inseguendo un’idea deprecabile e falsa. Bittori, la vedova di Txato, capisce che l’ETA ha fatto molte più vittime di quelle uccise: chiede per sé e per suo marito la verità e quindi la possibilità di perdonare e a Joxe Mari, anche lui “vittima”, offre la possibilità di farlo, riscattando in parte la sua esistenza.

Nel dialogo con la figlia Nerea, Bittori afferma:

B «Perché credi che sono ancora viva? Ho bisogno di quel perdono. Lo voglio e lo pretendo, e fin quando non lo avrò non penso di morire.»

N «Hai un orgoglio da far paura.»

B «Non è orgoglio. Non appena metterete la lapide sulla tomba e sarò con il Txato, gli dirò: quell’idiota si è scusato, adesso possiamo riposare in pace.»

E Joxe Mari confessa a se stesso: «Ti chiedi: ne è valsa la pena? E per tutta risposta uno si ritrova con il silenzio di questi muri, la faccia sempre più vecchia nello specchio, la finestra con il suo pezzettino di cielo che gli ricorda che ci sono vita e uccelli e colori là fuori, per gli altri. E se si domanda cos’è che ha sbagliato, risponde: niente. Si è sacrificato per Euskal Herria. Molto bene, ragazzo. E se se lo domanda di nuovo, risponde: non sono stato furbo, mi hanno manipolato. Se ne pente? Ci sono giorni di crollo emotivo. Allora gli dispiace di avere fatto certe cose. E così un anno e un altro e poi un altro fino a perderne il conto.»

L’immagine di copertina allude al fatto centrale:

Il giorno in cui ammazzarono il Txato pioveva. Giorno feriale, grigio, di quelli che sembrano continuare ad allungarsi, in cui tutto è lento, bagnato e la mattina è uguale al pomeriggio. (..) Il Txato non sapeva, come poteva saperlo?, che vedeva oggetti, sbrigava faccende, aveva pensieri per l’ultima volta.” Aramburu racconta che ha scelto l’immagine seguendo un “istinto” generato da un fatto di cronaca: l’uccisione del giornalista Josè Luis Lopez de Lacalle. In quel giorno di pioggia il suo ombrello era di colore rosso.

Mario Vargas Llosa ha definito il luogo del romanzo “Il paese delle bocche cucite”: verranno in mente anche a noi fatti di ieri e oggi leggendo del clima omertoso di rancorosi sospetti, della tassa rivoluzionaria come un “pizzo”, dell’ideologia ottusamente nazionalista e violenta, dell’odio fomentato in modo subdolo e disonesto? Richiami, come tanti ombrelli rossi sotto la pioggia…

Arianna Tegani, Commissione educazione Gariwo

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